Nel caos odierno, lo tsunami delle ovvietà, tutti hanno qualcosa da dire su tutto, si parla a vanvera di politica – con somma felicità dei politici, che titillano i cretini a colpi di tweet e di ‘dichiarazioni’ spontanee ogni mezz’ora – come di calcio, si discetta di Cristiano Ronaldo come di Donald Trump, fingendosi esperti di politica americana per il solo fatto di aver fatto shopping a New York, di sospettare chi sia il parrucchiere del Presidente e di desiderare sul proprio comò la fatina Melania. ‘Fenomeno’ planetario, quasi una griffe – compresa la gaffe – il marchio di un nuovo modo di fare politica – bonapartista –, Donald Trump non può essere lasciato al chiacchierio di chi s’informa via social né al commento del giornalista da palude redazionale che scrive editoriali smanettando su Internet. Stefano Graziosi, al contrario, è uno che ha seguito Trump dagli albori. Giornalista capace, ha seguito negli Usa, per Il Sole 24 Ore, le primarie del 2016; ora firma e collabora per diverse testate, da Affari Internazionali a La Verità al Tgcom 24. Soprattutto, ha raccolto la sua esperienza americana in un libro appena pubblicato da Ares, con titolo provocatorio, Apocalypse Trump. Un presidente americano tra Mao e Andreotti, avallo importante di Ferruccio de Bortoli (“di mostrarci quanto siano forti le istituzioni americane e quanto sia elevata, nonostante tutto, la qualità della sua classe dirigente”) e la capacità di vincere ostinati luoghi comuni. Insomma, per capire chi è Trump, cosa succede negli Usa, meglio ascoltare chi ne sa.
Intanto. Cosa c’entrano Mao e Andreotti con Trump: titolo fatto per allettare lettori o c’è dell’altro, come pare?
Riconosco che a prima vista questo titolo possa sembrare una provocazione. Tuttavia non è così. Si tratta in realtà di un paragone finalizzato a spiegare la natura (molto particolare) della leadership e dello stile di governo incarnati dall’attuale presidente americano. La vulgata vuole che l’amministrazione Trump sia preda del caos e del delirio. Sarebbe, cioè, caratterizzata da una totale confusione, dovuta a inesperienza e impreparazione (come testimonierebbe, tra l’altro, l’elevato numero di licenziamenti che da due anni riguardano sia l’esecutivo sia lo staff presidenziale). Ora, che il modo di agire di Trump presenti elementi di confusione e dilettantismo, è senz’altro vero. Lui stesso ha del resto vinto le presidenziali del 2016, sbandierando l’inesperienza politica come un vessillo contro l’establishment. Ciononostante, derubricare la leadership del presidente esclusivamente a incompetenza umorale mi pare una semplificazione eccessiva. È infatti plausibile – questa una delle tesi del libro – che dietro il comportamento “balzano” di Trump ci sia una sorta di strategia. Ecco: in questo senso, Mao e Andreotti rappresentano i due modelli antitetici tra cui l’attuale inquilino della Casa Bianca oscilla costantemente: nei rapporti con il Congresso, in quelli con le correnti del suo partito e in quelli con gli Stati esteri. “Mao” rappresenta l’anima movimentista del trumpismo: l’idea, cioè, di tenere perennemente sulla corda collaboratori e ministri, cacciandoli alla prima avvisaglia di incompetenza. Si tratta di un metodo che il magnate utilizza non soltanto per mantenere l’immagine di uomo duro (che si è costruito in campagna elettorale) ma anche per evitare che si creino gangli di potere in seno all’amministrazione che possano mettergli i bastoni tra le ruote. Tuttavia “Mao” non basta. Perché il puro movimentismo alla fine si è rivelato controproducente (nei primi mesi del 2017, con questo atteggiamento Trump si è visto boicottare diverse proposte legislative dal Congresso). Per questa ragione, ha dovuto ricorrere anche ad “Andreotti”: a un atteggiamento, cioè, più aperto al compromesso, non esente da qualche venatura di camaleontismo. Trump ha dovuto, cioè, iniziare a cercare di creare complicati equilibrismi, soprattutto all’interno del Partito Repubblicano (una compagine storicamente divisa in numerose correnti). Senza poi dimenticare che il richiamo ad Andreotti si spieghi anche sotto un ulteriore punto di vista: la riedizione della vecchia “strategia dei due forni”. Contrariamente a quanto spesso si dice, Donald Trump non è un presidente totalmente “di destra”. Molte delle sue proposte programmatiche (dai dazi alla riforma infrastrutturale) appartengono al retaggio culturale della sinistra americana. Non a caso, le sue misure protezioniste contro la Cina sono state appoggiate da svariati senatori democratici.
Donald Trump ‘rivoluzionario’: non pare, a leggere il suo libro. O meglio, pare che un certo ‘trumpismo’ sia radicato nella storia delle presidenze americane. Ci spieghi.
Quella di Trump è indubbiamente una rivoluzione politica. Lo si è compreso già durante le primarie repubblicane del 2016. Il magnate ha infatti iniziato a proporre una serie di idee e provvedimenti che cozzavano fortemente con l’eredità di Ronald Reagan. In particolare, ha rotto con il tradizionale liberoscambismo dei repubblicani reaganiani, che non a caso sono molto critici verso le misure protezioniste da lui adottate contro la Cina. Per non parlare poi della politica estera. Il tentativo di disgelo portato avanti da questa amministrazione verso storici nemici dell’America, come la Russia e la Corea del Nord, viene visto molto male dai repubblicani più tradizionali. Alla luce di tutto questo, Trump sta mutando profondamente il DNA del Partito Repubblicano e – in questo senso – può essere definito un “rivoluzionario”. Ciò detto, non è la prima volta che stravolgimenti di questo tipo avvengono nella Storia americana. I partiti americani sono stati spesso caratterizzati da rivoluzioni interne, rimanendone radicalmente modificati. Quando Reagan conquistò la Casa Bianca nel 1980, per esempio, innestò nel Partito Repubblicani elementi estranei alla sua precedente tradizione e – come se non bastasse – silurò svariati esponenti della vecchia guardia nixoniana (a partire dall’ex segretario di Stato, Henry Kissinger). Anche tra i democratici, poi, si è assistito a rivoluzioni simili. Si pensi soltanto che, fino agli anni ’60 del Novecento, il Partito dell’Asino (all’epoca molto radicato nei territori meridionali) si faceva paladino della segregazione razziale. Quella segregazione razziale che fu poi proprio un presidente democratico, Lyndon Johnson, ad abolire nel 1964. In questo senso paradossale potremmo dunque dire che la rivoluzione di Trump si innesti nella tradizione americana. Una rivoluzione di cui, è bene precisarlo, il miliardario si è fatto portavoce, partendo da premesse sociali, economiche e politiche che non è stato lui a creare. Fermo restando infine che Trump questa rivoluzione l’abbia, sì, cominciata. Ma non è ancora chiaro dove effettivamente voglia portarla.
Il presidente che governa via twitter… Indubitabile la potenza – la tracotanza – comunicativa di Trump: da dove viene questo ‘talento’?
Trump è il classico “animale da palcoscenico”. Lo ha dimostrato, in passato, prendendo parte a comparsate televisive e cinematografiche. E, soprattutto, come protagonista dello show The Apprentice. Si tratta di esperienze mediatiche di cui ha fatto tesoro, riversandole in una comunicazione politica magari non elegantissima ma certamente efficace. Trump ha una forza comunicativa principalmente televisiva: e lo ha dimostrato nei dibattiti TV durante le ultime primarie. Tra i vari rivali sul palco, era l’unico che padroneggiava con estrema sicurezza la telecamera. Tutto questo non gli ha comunque impedito una massiccia presenza sui social network: in particolar modo Twitter. Proprio come per Barack Obama, anche per lui Twitter ha rappresentato (e continua a rappresentare) lo strumento di disintermediazione per eccellenza. Con una peculiarità tuttavia. In Trump, Twitter assume anche una connotazione polemica verso il mondo mediatico tradizionale, con cui il magnate notoriamente non intrattiene rapporti idilliaci. In un simile contesto, Trump usa Twitter per rafforzare la propria leadership bonapartista: Twitter rappresenta dunque lo strumento ideale, per perpetuare sul web il contatto diretto con le folle che il magnate esercita nei comizi sul territorio.
Di chi è voce, Trump? Intendo, Trump è l’emblema di un nuovo modo di fare politica, forse di un andare al di là degli schemi politici. È davvero così? Che cosa ci attendiamo nel futuro, che tipo di leader e di politiche?
Politicamente parlando, Trump è un personaggio trasversale. È un ex democratico che ha scalato il Partito Repubblicano, fino a vincerne la nomination nel 2016. Questo non fa tuttavia di lui un autentico repubblicano. Né, del resto, pare che egli voglia essere rappresentato come tale. Talvolta, anziché parlare del partito, preferisce infatti riferirsi direttamente al suo “movimento”. In questo senso, il magnate mette insieme proposte programmatiche tipicamente reaganiane (come la riforma fiscale approvata nel 2017) con altre – lo abbiamo visto – totalmente estranee a quella tradizione. Anzi, uno dei suoi punti di forza è stato proprio quello di sottrarre ai democratici alcune delle battaglie che li caratterizzavano: soprattutto sul fronte socio-economico. In questo senso, particolarmente interessante è vedere quale sia lo zoccolo duro dell’elettorato del magnate. Uno zoccolo duro che non è rappresentato – come qualcuno dice – dall’estrema destra suprematista ma – semmai – dalla classe operaia impoverita della Rust Belt. Una quota elettorale che, pur essendo storicamente vicina al Partito Democratico, nel 2016 ha votato per Trump, convinta dalle sue proposte protezioniste in tema di commercio internazionale. Ebbene, proprio a questo mondo il presidente continua ancora oggi a guardare con estrema attenzione. E molte delle scelte che compie (dall’economia agli esteri) si spiegano proprio partendo da questa esigenza elettorale.
Trump gioca a risiko. Affascinato da Putin, appoggia Israele, prima sfotte il leader nordcoreano poi scambia col medesimo ‘lettere d’amore’. A cosa mira davvero il Presidente Usa?
Come Obama nel 2008, anche Trump ha vinto nel 2016 sulla scia di una profonda crisi che aveva investito la società americana. Questa crisi aveva due origini: il collasso economico finanziario del 2007 e la guerra in Iraq. Ora, proprio la guerra in Iraq ha rappresentato un fatto fondamentale per la politica estera americana degli ultimi dieci anni, dal momento che sia Trump che Obama hanno sempre visto nell’esperienza irachena un pantano da non ripetere. Per questo, entrambi hanno cercato – con alterni risultati – di tenersi lontano dallo scenario mediorientale e – più in generale – di assumere un atteggiamento meno aggressivo dei predecessori sul piano internazionale. In altre parole, se Trump tende la mano a Mosca e Pyongyang non è per pacifismo ma è perché pragmaticamente sa che oggi l’elettorato americano è tendenzialmente stufo di vedere Washington impegnata a fare guerre in giro per il mondo. In questo senso, Trump (non troppo dissimilmente da Obama) sta cercando di avviare una distensione con alcuni storici nemici dell’America. Il che non significa che ci stia pienamente riuscendo. Soprattutto i tentativi di disgelo nei confronti della Russia sono infatti duramente avversati da buona parte dell’establishment di Washington (dall’esercito al Congresso, passando per l’intelligence). Ragion per cui, Trump ha talvolta mantenuto in piedi atteggiamenti geopolitici più tradizionali (come l’aver rinsaldato l’alleanza verso Israele e l’Arabia Saudita).
A suo avviso gli americani sono felici di Trump e Trump sta facendo il bene degli Usa?
A livello generale, possiamo dire che l’elettorato statunitense si divida in tre categorie: chi ama Trump, chi lo odia e chi su di lui è indeciso. Se i primi due gruppi sono motivati e ideologizzati, è sul terzo che si gioca ovviamente il futuro di questa presidenza. Non dimentichiamo che il voto a favore del miliardario nel 2016 non sia stato interamente un voto “per Trump” ma anche un “voto contro” (contro Hillary Clinton, contro l’establishment, e via). Ecco, Trump dovrà riuscire a trasformare questo voto “anti” in un voto “pro”. E, per riuscire in questo intento, il magnate sta continuando a coltivare la sua storica retorica dell’uomo solo contro tutti. Una strategia che si è rivelata efficace due anni fa e che vedremo alla prova a novembre con le elezioni di metà mandato. Se poi questa presidenza stia facendo bene agli Stati Uniti, la questione è complessa e forse prematura. Sicuramente Trump ha mantenuto alcune importanti promesse elettorali (penso alla defiscalizzazione, allo smantellamento della riforma sanitaria di Obama, alla nomina dei giudici per la Corte Suprema). Ma l’effetto di queste misure potrà essere pienamente giudicato solo tra qualche anno. Certo è che, al momento, l’economia statunitense appare in buona salute (recentemente è stata registrata una crescita del PIL del 4,1%): fattore che potrebbe avvantaggiare il Partito Repubblicano alle elezioni di metà mandato.
…e l’Italia? Che tipo di relazioni ha questo governo con Trump, che relazioni dovrebbe avere?
Donald Trump ha mostrato più volte una certa simpatia per il Governo Conte. E questo, penso, per due ragioni. Innanzitutto la stretta sull’immigrazione clandestina, promossa dall’attuale governo italiano, è servita a Trump in patria per giustificare le sue misure restrittive sui flussi migratori provenienti dal Sud America. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che – nei rapporti con gli Stati esteri – l’attuale presidente americano prediliga l’approccio bilaterale a quello multilaterale. In questo senso, non sono pochi gli attriti tra Washington e Bruxelles e – soprattutto – tra Washington e Berlino. L’amministrazione Trump accusa da tempo la Germania di concorrenza sleale ai propri danni, oltre al fatto di non contribuire abbastanza alle spese per la NATO. In questo contesto, la creazione di un’intesa privilegiata con l’Italia può essere letta in chiave principalmente anti-tedesca.