C’è un controcanto, una musica singolare che si può ascoltare fuori dal frastuono dei nostri giorni, dalla invasiva società delle immagini, dalla metastasi della notizia lampo della cronaca? C’è un suono da riscoprire, che permetta di ridare funzionalità al tempo e una promessa di futuro nel milieu del terzo millennio? La poesia ha una propria riconoscibilità salvifica perché si lega ad una sfida contro la deperibilità e il senso di finitudine: un poeta è tale quando ha un’intenzionalità ben definita e sa trovare una sospensione, una fermata contro la rutilante quotidianiatà. La produzione italiana di oggi ha molte varianti percorribili da un critico, tangenti che non potrebbero essere seguite con cognizione di causa, se non adottando mappe orientative che permettano un discernimento calcolato. Ci sembra che la poesia degli ultimi anni non presenti la necessità di essere incanalata in una considerazione di valori assoluti, perché il tentativo fallirebbe già nella formula. E ovviamente il gusto personale del lettore andrebbe a cozzare con la volontà di scegliere, di fornire un quadro veramente indicativo (altro rischio sempre dietro l’angolo).
Paolo Fabrizio Iacuzzi (nato a Pistoia nel 1961, vive tra Pistoia e Firenze; in copertina nella fotografia di Serena Campanini), modula sapientemente la sua parola e fa del linguaggio in versi una tessera inserita in una tarsia di minuti pezzi, dunque nella giustapposizione profonda dell’ontologia, in quella polarità umana che non può non rimandare a Piero Bigongiari (che era di Novacchio, nel pisano), non solo per la vicinanza geografica e perché Iacuzzi ha curato le opere del conterraneo ricoprendo tuttora la carica di direttore scientifico del Fondo Piero Bigongiari della Biblioteca San Giorgio del Comune di Pistoia, ma per quell’assonanza di derivazione ermetica tipica della grande scuola toscana (non potremmo non citare, ovviamente, anche Mario Luzi). Iacuzzi, però, sin dall’esordio, si è discostato dai maestri dei quali si sente senz’altro l’eco, ma non il suggello di un afflato metafisico, di un’iconostasi verticale. Si percepisce, viceversa, la trasfigurazione simbolica che nasce dalla realtà nel sincretismo del manufatto poetico. Ci riferiamo in particolare a Folla delle vene (Corsiero 2018), raccolta incentrata per lo più sul viaggio di alcuni poeti da Marsiglia a Pistoia per un incontro collaborativo che collega il sud della Francia con Venezia, Ravenna e Pistoia, in una linea dalla quale non sono esenti gioie, drammi e dissidi. Nell’itinerario, tra la partenza e l’arrivo, si sviluppa un piano spazio-temporale composto di ricordi, storie, aneddoti, considerazioni, oltre che di luoghi e soggetti che partecipano ad una sorta di convivio creativo libero da schematizzazioni precostituite, da canoni disponibili nella varietà di intrecci, tradizioni, avanguardie, in un cursus approfondito nella dimensione meditativa e soprattutto fraterna, corale.
Come aveva notato Andrea Temporelli in Poeti nel limbo (2005), la poesia di Iacuzzi è “un punto di passaggio generazionale, un crocevia di tensioni che portano a termine e aprono questioni fondamentali e paradigmatiche”. Viene in mente il policentrismo culturale del quale parlava Pier Vincenzo Mengaldo nella sua antologia Poeti italiani del Novecento (1978), auspicando meno argini rigidi, meno totalitarismo del passato e del presente. Siamo convinti che questa sia anche la posizione critica di Iacuzzi, contro una consuetudine viziosamente storicistica e insufficiente ad abbracciare un arcipelago di scrittura oggi decisamente in evoluzione e dispersiva, che non consentirebbe di assegnare graduatorie.
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In un’intervista pubblicata tempo fa in Francia su www.scriptorium-marseille.fr, Paolo Fabrizio Iacuzzi definisce le sue origini nella consapevolezza critica e partecipata dello scrivere. “La mia poesia non nasce nel cuore della Toscana ma nel cuore del suo Appennino libertario e ribelle, contadino e maggiante sul parallelo 44 come su una linea gotica e come sulla isoglossa linguistica romanza che separa i dialetti del nord e del sud. È nata dunque su questa linea ma si è alimentata della linfa dell’Europa, secondo un filo che unisce gli Appennini di Pascoli e Campana alle Alpi di Nietzsche, agli altopiani della Castiglia di Machado, ai Carpazzi di Celan, al Galles minerario di Dylan Thomas, all’Irlanda dorsuta e torbiera di Seamus Heaney, all’Armenia di Mandel’štam. Considero toscani sia Ezra Pound dei Canti pisani, scritti nel lager americano di Pisa, sia Osip Mandel’štamche amava la lingua di Dante e che morì nel lager staliniano di Voronež. E credo anche che esista una linea immaginaria che mi ha insegnato molto e che unisce Guido Cavalcanti a Dino Campana, a Piero Bigongiari, a Cesare Viviani e che ci porta direttamente in Europa”. Nella cartografia dei luoghi e nel plurivociare legato alla toponomastica non solo italiana, Iacuzzi inserisce esplicitamente il concetto di etica, l’importanza dell’ascolto, dello sguardo comune, dando credito all’identità della persona con cui interloquisce, tutt’altro che posta in una condizione di straniamento o in un monologo interiore, oppure di natura onirica. Il campo percettivo consacra il sentimento, la riconoscibilità, l’avvertibile piacere del “noi”, della familiarità in carne ed ossa e non dunque dell’indeterminatezza del soggetto (Giorgio Luzzi parlò di “temporalità affettiva”). Il contatto fecondo con gli autori, la dialogicità nell’organizzazione e nel coordinamento del Premio Internazionale Ceppo del quale Iacuzzi ha assunto la presidenza e la direzione artistica, comporta un valore aggiunto. Il premio, tra i suoi obiettivi, si pone quello di promuovere la civiltà legata alla cultura del libro e della lettura e vuole essere anche il fulcro di una comunità didattica, educativa tra i ragazzi delle scuole. Iacuzzi su occupa, tra l’altro, di editoria scolastica e per bambini, sondando la lingua nella sua genesi e nella sua meraviglia (la lingua poetica è considerata appunto azione contro gli stereotipi della comunicazione). Non a caso Ivan Fedeli lo ha recensito quando uscì per Aragno Rosso degli affetti misurando una “storia individuale e familiare che trascende la dimensione personale e si reifica nel doppio, con una straordinaria capacità transitiva, in una forma di contagio dove gli individui recidono il loro filo di alterità per fondersi in un io-comune” (da “Le voci della luna”, 2009). Questa comunità è intesa come forza della testimonianza, come esperienza contemporanea, principio attivo di un’emotività trasmessa con la poesia e per la poesia: qualcosa di magico che si rinnova a Pistoia, a Firenze, in Francia, nell’intera Europa.
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Entrando nella disamina dei testi, la prima poesia di Folla di vene colpisce al cuore perché sottintende il triangolo rosa che contrassegnava gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti: l’abbrivio risuona come una svolta che inquadra la tragedia della vita in un’orribile “frontiera umana”. Scrive Iacuzzi: “Stanotte se gridavo dall’hangar accanto / a quello di mio padre. Col triangolo rosa / appuntato sul petto. Ho pensato questa / volta l’ho scampata bella. E il futuro?”. Quale futuro, appunto, per una sciagura immanente, perturbante, pietra angolare di qualcosa di molto più grande del concentrato della letteratura, di ogni poesia? Come l’autore ha rimarcato presentando la 60° edizione del Premio Ceppo e la sua opera Pietra della pazzia (Tesi 2016), “la storia del Novecento si fonde con una storia familiare fatta di segregazioni e di prigionie, attraverso le quali le opere di misericordia diventano un teatro per animare l’interrogazione del male”.
Paolo Fabrizio Iacuzzi non conosce la saturazione della forma, né alcuna combinazione recitante, gergale, inautentica. Si sente la vividezza nella complessità delle cose, nella varietà tematica dove il modello ideologico è completamente respinto proprio in funzione della “cantabilità” e “distensione”, come sostiene Pasquale Di Palmo nella nota critica a corredo di Folla delle vene, in cui si sollecita fisicamente e spiritualmente la sequenza d’insieme, qualunque poesia si legga. Lo svincolo delle digressioni che vanno sotto la dicitura di “didascalie”, permette di osservare i musei, il circo con le bici sospese, i mangiafuoco, i ballerini, la banda. Ma quando arrivano gli amici, “il lontano ha smesso di essere una minaccia vera”. La sottrazione, la perdita, il mistero, l’enigma scorrono in più versioni che si aprono dal recinto poetico per un’emulsione che appare conclusiva, quando Iacuzzi dice esplicitamente “siamo fuoco e cenere del senso”, oppure “siamo tutti così vicini a una stella da bruciarci le dita”. La metafora costitutiva del reale propone, in sostanza, la vicissitudine esistenziale come centro motore, una mimesi che non scende mai di livello, come se si volesse salvare la conoscenza, la parola che svela, non l’accadimento singolo, insipido. Iacuzzi fa intendere chiaramente il suo intento nel ripescaggio della lingua cara al sodale Bigongiari, venuto a mancare ormai da più di vent’anni: “Mescola di Piero i libri le dediche i foglietti senza date”. Giuseppe Ungaretti, nella chiusa del testo, osserva guardingo, dall’alto, “dall’opposto lato”, probabilmente per l’interminabilità dell’effet de croyance che i poeti hanno prodotto in un lavoro collettivo. Il linguaggio esprime un’accesa passione, la vertigine dei giorni mentre “lambisce l’impossibile”, dando l’illusione che la poesia comprenda e spieghi l’inconoscibile. I versi in italiano e in un’altra lingua (la francese) sono il dritto e il rovescio dello stesso oggetto, una filigrana vista da due lati, tra spazi e fessure. Una crisalide, parafrasando il verso di Iacuzzi, che spiega le ali e diventa altro nel corpo della natura.
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Il rosa, colore basilare, rincorre freneticamente la metafora del padre e della madre, “Edipo travestito nel seme”, il mondo antico tra le terme romane, il teatro greco, il tempio etrusco, frequentando i luoghi che si frantumano nella memoria come pietra sbriciolata. Si coglie una presenza postuma nella parola che ferma la cosa, che suscita uno spunto argomentativo nell’alveo del tempo remoto, in un’unione ideale tra il passato e l’oggi, in una prospettiva che dalla materia arcaica trae l’immagine fresca, o l’emblema del male assoluto dal quale non è ammessa la fuga, la dimenticanza: “Figure crivellate dagli spari. Il destino è ancora / immobile mentre non sparano più sulle colline / dove il fronte passava. / Ma sparano dalle ombre”. Ha ragione Di Palmo quando rimarca “i motivi che si sviluppano attraverso stilemi sempre differenziati che tendono ad adattarsi a quei motivi”. Il verso libero, che trasgredisce il sonetto, ricuce un’essenza, il grumo del sapere e l’assillo dell’interrogativo. Il rosa è anche la maglia del ciclista Marco Pantani, campione, epico protagonista di una delle più belle poesie di Folla delle vene, che nella pedalata “sfida l’orizzonte”, la possibilità estrema, quell’andamento letterariamente icastico del poeta che lo rappresenta e suadente nell’azione, nella mèta del ciclista. “A cosa avrà creduto nella salita Marco? / In sella a quella sua bicicletta high tech. / Sul Mont Ventoux nella pietra oppure / sulla più alta vetta di se stesso”. Trepidante e apprensiva, la scalata segna uno scarto, un dinamismo intrinseco e un destino travolto, una cognizione dolorosa che si evince dalla “polvere negli occhi” e dal tirare le coperte e il lenzuolo sullo sguardo spento, sulla stessa perenzione che fa di Marco Pantani, nonostante il tragico epilogo, un sopravvissuto, un eroe davanti alla “desolata finitezza”. La poesia è anche un’opera di misericordia, ha annotato Roberto Mussapi recensendo su www.succedeoggi.it Pietra della pazzia, opera basata sul connubio tra vita e arte caro a Iacuzzi (nello specifico vengono narrate in versi le straordinarie decorazioni di Santi Buglione e Filippo di Lorenzo Paladini situate nell’Ospedale del Ceppo di Pistoia). La stessa misericordia per l’individuo di Folla delle vene, sia esso Pantani o chiunque altro in sella alla bicicletta o a bordo dell’auto scendendo tra le curve da Iano, una sperduta frazione del pistoiese.
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Una sezione del libro si intitola Meditazione sopra il mosaico di Teodora di Ravenna, opera posta nel vano absidale della basilica di San Vitale, nella parete opposta al mosaico Giustiniano e la sua corte. Teodora, di umili origini, fu moglie dell’Imperatore d’Oriente Giustiniano ed ebbe un ruolo politico rilevante nel 500 d.C. “Di fronte a Lei mia madre ha gli occhi al cielo”. La madre ha la stessa pettinatura della figura schiacciata nelle tessere del mosaico che annullano ogni spessore, mentre il nonno materno e il padre del poeta si posizionano sotto il mosaico di fronte. La nonna materna e la madre indicano il manto di Teodora e le vesti del corteo, “un piccolo quadro perfetto / di pietre e di grani. Rosario dell’altro tempo”. Una circuitazione estemporanea accende all’unisono personaggi storici e protagonisti reali nel mosaico intercambiabile che si sposta dalla parete e ingloba, nell’immaginifico, i visitatori della basilica.
Un’altra sezione del libro si intitola Meditazione sopra la Vergine delle Rocce di Leonardo, dove un paesaggio si eleva tra piante, muschi e speroni (olio su tela del 1483, che si trova a Parigi al Musée du Louvre). La Madonna avvolge con la mano destra la spalla di San Giovannino inginocchiato mentre Gesù Bambino accenna una benedizione nei confronti del cugino. Scrive Iacuzzi: “Anche noi siamo dentro il quadro di Leonardo / mentre giochiamo da bambini. Rapiti insieme / dalla Vergine delle Rocce”. Un quadro dall’alto, “dando le spalle alla valle. Trasparente”. Il sentimento del poeta avvolge un’immagine struggente, corporea e spirituale, angosciosa. Da quella tela viene distillata un’oscurità misterica e un drammatico confronto, in cui la sagoma dei soggetti e gli abiti si fondono con il paesaggio dello sfondo contrassegnato dalla gesticolazione in primo piano e dal dilatarsi della foschia nella lontananza aerea. “Ora la Roccia Madre è ferma / fra noi. / Una foto davanti all’amore ritrovato. / Mentre insieme comandano il blu nel cielo”. L’arte, in questo testo, si fa ricerca di un linguaggio àncorato alla pittura, nel quale lo spazio occupato da figure sacre scende nel tempo della visita, infondendo una sorta di sovrasenso che dalla visione di superficie si trasferisce sugli astanti: è questa la scintilla di una comunione poetica tra la madre ideale e la madre genitoriale.
E ancora la “didascalia”, stavolta Venezia, l’Oriente e “l’amore portato via dall’acqua”, la città del carnevale, delle maschere, delle zattere, del pittore: “Vetro soffiato in una bolla. Venezia / fondamenta guasta e guarita al suono / dell’acqua. Appanna il vetro del vaporetto / la quotidiana folla in barca a motore”. Gli ultimi testi di Folla delle vene offrono un pathos più intenso, ristretto, ancora una volta fuori da giudizi schematici, che aderiscono alla comunione tra i vivi e i morti. Il timbro descrive un presente con un tempo ibridato, o un controtempo di istanti, presagi, vibrazioni. “Io vi rivedo ancora non morti. Ma fissi dentro il museo che di me affiora sulla lastra rosa. Mentre / mi sfilo le scarpe nello stanzino buio. Mentre m’infilo / le scarpe e giro la testa a sinistra. Dove c’è un quadro / al muro”. Quindi il viaggio, la bicicletta (che nella poesia di Iacuzzi torna con una certa insistenza), l’amore di lui e lei che se ne vanno fischiettando (“Gli fa da custode solo il ricordo”). Tornano il padre e la madre, la maternità e la filiazione, l’amore “sfiorato e negato” che divengono il tramite del tempo cronologico interrotto: la salvazione sta nel rievocare figure che non moriranno. L’espressa volontà agguanta il tempo del ricordo nelle vicende ferme sulla pagina, riunite nel comun denominatore dello spazio reale, del tempo reale che esce da un’informazione asettica per conoscere un altro linguaggio, per orientare appunto un’anima poetica nel cerchio che si chiude, disegnato più volte, e che allude spesso al ruolo del padre e della madre. Questo linguaggio è esplorativo, fa da ponte perché si assimili da una derivazione pittorica, più che fotografica, all’incrocio tra un amore e l’amore di tutti, di transizione in transizione, e che non ha nulla di manieristico nel passo delle due ruote “scritto con inchiostro di China”: “Appesi pedalano. / Attraversano il foglio bianco sulla parete rosa. La via appena / tracciata. La Natura dorme sepolta. / Bianca si apre la strada”. O ancora: “Una cornice di legno chiara e pallida. Con il vetro a specchio / per l’ultimo ravvio dei capelli sulla fronte”. La poesia trova una sollecitazione nel dialogo muto, nella fenomenologia in movimento e nella ratio sensitiva. Iacuzzi dà ospitalità al rimosso, a ciò che rimane contratto tra conscio e inconscio, dimostrando la non indifferenza per la materia residuale. Il policentrismo è un archetipo e un gorgo dove incontrare il passato, dove cercare una conciliazione rigenerativa, il tentativo di allontanare le distanze. La lingua si fa meno complessa, come se il controllo della realtà fosse da sostegno al magma linguistico. Il senso della morte risponde ad un evento bruciante, sinonimo della tracimazione e di una percorrenza che finisce nella luttuosità come sbocco confessionale. Si pensi al testo Folla di migranti: “La collina sarà quella del padre. Un calvario. / Lei piangerà allora. Ma lui è salvo dalla madre. / Gli altri sulla spiaggia di qua della redenzione”. Nella metamorfosi delle immagini si instaura un cambio di scena filmico in uno schema di accumulo di sequenze riprese e scartate, in quel “pianissimo di sbarbariana memoria” (Di Palmo): “Un giorno il sole a picco brucerà le ombre”.
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In definitiva la realtà con le sue rifrangenze rinnova temi e partecipazione, mentre il poeta si mette alla prova con la storia alimentando il credito verso l’esistenza e i suoi flussi inarrestabili. La coscienza critica di Paolo Fabrizio Iacuzzi è un continuo rimarginarsi e una continua rifioritura. Tra materia e spirito, l’avventura spaziale capta il tempo dell’umanesimo del Duemila. Qui l’impronta digitale si riconosce immediatamente. Parla la ferita mortale dell’uomo e il suo alter ego. Contro ogni disimpegno e retorica, Iacuzzi scrive un affresco tra immaginazione e armonia, impegno e timore, nella trepidazione di toccare un punto più alto, come poche volte la poesia italiana sperimenta nella sua parabola. Il dolore pesa e la gioia sfuma verso l’alto, sembrerebbe suggerirci Iacuzzi. Una nota critica di Roberto Carifi pubblicata sulla rivista “Poesia” nel 1996, quindi agli esordi del poeta, lo connota come “allievo di Bigongiari, di cui ha ereditato la lingua del moto, quella parola agonica che tocca l’estremo limite della nominazione, che tenta il confine dell’indicibile e del silenzio. La conflittualità interna al linguaggio si esprime soprattutto nella tensione che mette in giuoco un nucleo tragico, un fuoco che brucia la parola e di nuovo la fa vivere sotto la cenere, lungo un sentiero di metamorfosi dove si incontrano il vissuto e il mito, l’eternità e la memoria”. Dopo più di vent’anni è cambiato ben poco. I piani della conoscenza forniscono una risposta alla vita scoppiettante nei destini di chi non demorde. “In alto respiri la libertà. Amore. Il faro è spoglio di ogni ombra”. Oppure: “Ci sarà una liana per te. Una rosa ti allaccerà di nuovo / alla vita. La ruota del mulino girerà inversa nel tuo fiume?”. Iacuzzi scandaglia l’avventura umana con toni affabili, in modelli reali che nulla nascondono nel campo di resistenza e nell’imitazione di Marc Chagall dopo la visita al Museo biblico di Nizza, alla fine del libro. “Folla è per te che io ho cantato / ma non so se questo canto ti piace / la voce che s’alza dal mio petto / è tutta un dolore e fa fatica”.