30 Marzo 2018

La verità – e i depistaggi e le omissioni – sulla morte di Aldo Moro. Il reportage (prima puntata)

Ho studiato a lungo le carte processuali del caso Moro e letto quasi tutti i libri in commercio. Ho parlato con i figli dello statista e con il giudice Fernando Imposimato. Sono andato sui luoghi della strage e della detenzione dello statista. Ho appuntato tutte le distorsioni di ciò che avvenne dal 16 marzo 1978 fino al 9 maggio: incongruenze, illogicità, depistaggi, omertà, omissioni.

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Sul Tg2 un giornalista (era il bravo Giuseppe Marrazzo) intervistò i primi testimoni: una ragazza descrisse un uomo un pochino più alto di Moro che prendeva lo statista per un braccio. I terroristi erano molto calmi, non correvano, fu detto. La cosa strana è che sembrava di essere telespettatori di uno sceneggiato televisivo, di un poliziesco. Allora non si usavano termini come fiction o thriller.

Il 16 marzo 1978 cambiò il corso della Repubblica. Niente fu come prima. Niente poteva essere equiparato alla strage di via Fani. Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, unico caso per un uomo di Stato nell’Europa del dopoguerra, ha indirizzato la sorte della società internazionale in piena Guerra Fredda. Moro fu ucciso mentre era impegnato in una controversa fase politica che vedeva convergere forze democratiche diverse per assicurare al Paese un governo in grado di uscire dall’instabilità. I comunisti avrebbero votato la fiducia all’esecutivo presieduto da Giulio Andreotti. Il voto parlamentare era atteso proprio il 16 marzo 1978, lo stesso giorno della strage. E’ stato accertato che si trattò di un caso, eppure la coincidenza appare incredibile.

Ho rivisto più volte, nei filmati, il servizio di Paolo Frajese, come altri estrapolati dai telegiornali. Ho sempre avuto l’impressione che via Fani, seppure poco frequentata, fosse pur sempre un quartiere residenziale scomodo, disagevole per la fuga. Per quanto l’agguato fosse stato teso con una dimestichezza e una capacità organizzative fuori dal comune, le ricostruzioni non sono sembrate attendibili, stando a quanto riportato nei verbali degli inquirenti. Nel cuore di Roma non c’erano ancora telecamere e cellulari che potessero immortalare il momento esatto in cui i brigatisti spararono, ma emerse ben poco, come se ci fosse la volontà di dimenticare una pagina triste e assurda, di occultare la verità. Si venne a sapere ben presto che il giorno precedente il rapimento, la Sip fu stranamente allertata. Alle 9 del mattino del 16 marzo, una squadra di specialisti venne mandata in via Fani perché le linee telefoniche erano completamente interrotte. Nessuno sarebbe riuscito a telefonare tra gli abitanti del quartiere o tra i passanti in mezzo alla strada che videro l’agguato. La Sip ha sempre smentito, tanto che si è arrivati ad ipotizzare l’esistenza di una struttura alternativa, segreta, che determinò il blackout dei telefoni di Roma nell’ora in cui Moro fu sequestrato e la scorta freddata.

Interessante il rilievo che è stato fatto, in proposito, da Stefano Grassi nel libro Il caso Moro. Un dizionario italiano (Mondadori 2008), il quale conferma lo strano episodio: La mattina del 16 marzo 1978 un improvviso blackout impedisce le comunicazioni telefoniche in tutta via Fani e via Stresa, favorendo la fuga del commando. Secondo il Procuratore della Repubblica, Giovanni De Matteo, l’interruzione sarebbe stata volutamente provocata. Durante i 55 giorni del sequestro alcuni comportamenti della Sip danno adito a sospetti. Il capo della Digos Domenico Spinella, sottolinea l’estrema inefficienza della Sip e la sua ostruzionistica passività durante il sequestro”.

Resta la mancata identificazione di alcune persone nel luogo della strage. Questa impressione venne avallata dal Pietro Lalli, che si trovava a circa 100 metri di distanza dai protagonisti della carneficina.

Scrive Sergio Flamigni, membro delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, nel libro La tela del ragno (Kaos 2003): “La presenza in via Fani, durante l’attentato, di due individui armati i quali, appena sterminata la scorta e catturato l’ostaggio, fuggirono a bordo di una moto Honda seguendo le auto dei brigatisti, è una certezza processuale. La Honda venne vista dal testimone Luca Moschini prima della sparatoria, vicina a due individui in divisa da avieri (e indossavano la divisa da avieri almeno quattro dei terroristi). Venne vista da un secondo testimone, l’ingegner Alessandro Marini, al momento del sequestro. Uno dei due motociclisti sparò proprio in direzione del Marini (infatti i brigatisti verranno condannati all’ergastolo per la strage e il delitto Moro, e per il tentato omicidio di Marini). Un terzo testimone, Giovanni Intervado, vide la Honda al momento della fuga del commando, e notò il caricatore di un mitra spuntare da sotto l’ascella di uno dei due motociclisti. Una moto Honda era stata notata, due, tre giorni prima della strage, parcheggiata in via Savoia, nei pressi dello studio privato dell’onorevole Moro, vicina a un furgone colore avana chiaro, fermo in posizione favorevole per osservare l’ingresso dello stabile. L’uso dell’autofurgone, dotato di sofisticate attrezzature spionistiche, rientra nel modus operandi dei servizi segreti”.

Oggi sembra certa la presenza in via Fani di un tiratore scelto. Mi sono promesso di ispezionare il luogo del delitto dopo più di un trentennio. Vedere i posti non è come prenderne visione attraverso il filtro dei giornali, dei libri e delle dichiarazioni. Le cose le si sedimenta nella propria esperienza visiva e cognitiva. Anche le ricostruzioni filmiche conservano una regia e un’ottica impresse, registrate da un altro sguardo. I luoghi preservano sempre qualcosa di inedito, come i palazzi, per chi li descrive. Una strada secondaria, anonima, è stata il palcoscenico temerario e più misterioso della Repubblica italiana. Ne ha scosso le coscienze e le ha modificate. Ha modificato anche la cronaca giornalistica, perché la verifica sul posto dell’accaduto, da quell’evento, è diventata un’usanza. Basti pensare alla diretta di Vermicino, dal 10 giugno 1981, con il piccolo Alfredo Rampi che cadde in un pozzo artesiano a Selvotta, una piccola frazione vicino a Frascati che collega Roma sud a Frascati nord.

Via Fani è un luogo banale e si lega ad un presente per nulla rappresentativo. Lo stesso vale per via Gradoli, il covo della Brigate Rosse, più volte citato durante i 55 giorni di prigionia di Moro, così come per via Montalcini, dove era stato ricavato il vano, strettissimo, nel quale il presidente della Democrazia Cristiana veniva tenuto prigioniero. E quindi via Monte Nevoso a Milano, dove in due fasi distinte è stato ritrovato il memoriale di quei giorni, con ogni probabilità autentico ma ancora incompleto. La storia dell’Italia è dunque anche la storia di ambienti abitudinari, non istituzionali. La prigione del popolo di via Montalcini è forse l’esempio più stupefacente, e in ultimo via Caetani, per l’epilogo alla detenzione al quale fece seguito l’esecuzione della sentenza.

Il luogo del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, nel giugno del 2013, è balzato di nuovo sulle pagine dei giornali per le rivelazioni di Vito Antonio Raso, l’antisabotatore che arrivò sul posto e che ha dichiarato che la sua opera fu richiesta ben prima delle 11 del 9 maggio 1978, e che si posizionò davanti alla Renault 4 rossa poco dopo quell’ora. La questione è decisiva, perché la telefonata delle Brigate Rosse che avvertiva di Moro chiuso nel bagagliaio, è delle 12.13. Dunque oltre un’ora dopo l’intervento.

Il notiziario dei 55 giorni, secondo la versione ufficiale, è pieno di contraddizioni. La cronaca e la storia, quindi, rimangono in bilico, attraversate da decine di versioni che ogni volta sono state messe in discussione, rilette, reinterpretate, smentite, avallate, riproposte, sconfessate. Loggia P2, Gladio, servizi segreti italiani e stranieri (in particolare inglesi e tedeschi) sono stati tirati in ballo innumerevoli volte.

La toponomastica ci insegna molto, per questo i luoghi bisogna visitarli. Un reportage è sempre un’analisi strutturale. Si lega all’attualità e aggiunge la descrizione e la riflessione. Credo che il caso Moro abbia bisogno di essere reimpostato a partire da un’idea di realismo inconfutabile.

La trasmissione “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli (dal quale è nato l’omonimo libro pubblicato da Rai-Eri – Mondadori 1992), mi è stata di aiuto. In quella messa in onda non c’è una sfasatura, un azzardo, un’avventata considerazione. Parlano i fatti nella loro crudeltà, le immagini più delle parole. Andò in onda in tre puntate culminate con l’intervista a Mario Moretti trasmessa il 28 febbraio 1990.

La prima puntata si apre con un uomo in bicicletta che trasporta il pane in una cesta. È l’alba di una giornata ventosa, a Roma. Un’alba in cui la città, lentamente, riprende il tamtam quotidiano. Si accendono le prime luci nei bar, nelle cliniche. Si aprono le prime finestre e si intravede, maestoso, il Cupolone svettare dai balconi più alti della città eterna. Sono gli anni di piombo che attanagliano la vita pubblica e privata dell’Italia. Siamo un paese occidentale sotto la tutela degli Stati Uniti, ma anche la nazione con un grande partito di sinistra che contende la supremazia elettorale alla tradizione cattolica impressa nello scudo crociato di Moro, Fanfani, Andreotti e Cossiga. C’è una crisi allarmante, politica ed economica. L’ideologia impone un’umanità più impegnata nella sfera sociale, ma il paese non sembra coraggioso né solidale.

Aldo Moro viene rapito e Giulio Andreotti è pronto a ricevere la fiducia al suo IV governo. Il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga alle ore 10.45 presiede al Viminale la prima riunione del comitato tecnico-politico-operativo e viene creato un nuovo comitato per la gestione della crisi costituito da un gruppo di esperti. Si diffondono le schede segnaletiche di presunti terroristi ricercati. Qualcuno risulterà in carcere, uno di essi è un informatore dei servizi di sicurezza e si è rifugiato all’estero. Un altro è a Bolzano da amici ed estraneo alla lotta armata. Un altro ancora risiede a Parigi. I posti di blocco, a Roma, sono disposti confusamente. Alla fine risulteranno essere 72.460, di cui 6.296 solo a Roma. Furono fatte 37.702 perquisizioni e controllate 6.413.713 persone, durante i 55 giorni del sequestro.

Si viene a sapere che Aldo Moro temeva per la sua vita e che era stato invitato a lasciare la politica, dopo il rapimento del figlio di Francesco De Martino, ex segretario socialista. Lo stesso collaboratore del presidente, Francesco Tritto, docente universitario, disse che Moro era ansioso in quanto temeva di poter essere oggetto di un attentato. Fece mettere i vetri anti-proiettili nel suo studio di via Savoia.

Prende strada la cosiddetta linea della fermezza. Il 16 marzo ci sono dichiarazioni parlamentari di tutti i segretari dei maggiori partiti.

Il brigatista Franco Bonisoli dirà, anni dopo, che le Brigate Rosse erano mosse solo dall’idea di promuovere un contro processo allo Stato, un contro altare nei confronti dello stesso gruppo eversivo. I militanti della colonna romana e il comitato esecutivo, durante la gestione del sequestro, volevano rivendicare la considerazione di essere un partito armato. La loro iniziativa, quindi, virava verso intenzioni politiche di stampo eversivo. Ma nessuno, a priori, aveva scartato l’ipotesi della trattativa, specie se ci fosse stata un’irruzione delle forze dell’ordine nell’appartamento di via Montalcini.

Il 18 marzo 1978 Franco Bonisoli aveva sceso una scalinata, preso un autobus. Era salito sul treno che da stazione Termini lo avrebbe riportato a Milano. La missione era compiuta. L’azione cruenta e la guerra civile giunsero al loro culmine. Su quel treno Bonisoli pensava che il gruppo aveva vinto la sua battaglia. Sentiva le sirene della automobili della polizia e il rombo degli elicotteri, mentre giungeva trafelato alla stazione. Poi più niente, se non la cantilena del treno. Voleva arrivare il più in fretta possibile a casa. Eppure il ricordo di Moro lo toccava, perché aveva constatato la dignità dell’uomo, la grande religiosità, quando chiese una Bibbia e di poter ascoltare la messa. Nell’agguato di via Fani Bonisoli faceva parte del commando travestito da aviere insieme a Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Prospero Gallinari. Teneva in mano un mitra che serviva per neutralizzare l’Alfa di scorta. Dopo aver sparato un caricatore, utilizzò anche una pistola Beretta 51 contro l’agente Iozzino che tentava di reagire. Pur non essendo un esperto di armi da fuoco, la sua azione in via Fani risultò perfetta. Il primo ottobre 1978 fu arrestato con Nadia Mantovani, Lauro Azzolini e Antonio Savino nel noto covo terrorista di via Monte Nevoso a Milano. Condannato all’ergastolo, si dissociò dalla lotta armata e attualmente usufruisce di un regime di semilibertà. Franco Bonisoli diventò amico di Indro Montanelli, tanto che fu l’ultimo a lasciare la camera ardente ai funerali, scrivendo alcune parole sul registro delle partecipazioni.

Il 14 marzo 1998 rilasciò un’intervista a Giorgio Bocca su “la Repubblica”, nella quale, riguardo l’agguato, disse: “Fu lo scontro frontale di due forme di mitizzazione. Noi pensavamo ai carabinieri, alla polizia politica come a dei corpi monolitici, addestratissimi. Loro pensavano a noi come alla potenza geometrica di cui si disse. La realtà stava a mezza strada. La nostra preparazione militare era modesta, qualche esercitazione nei covi o in montagna, ma la coesione del gruppo e la determinazione erano superiori a quelle di un normale commando. È vero, molti dei mitra impiegati nell’attacco si incepparono, ma la rapidità della esecuzione, la complessità della operazione furono notevoli”.

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Il comunicato numero 7 era un falso e fu preceduto da una telefonata al “Messaggero” che annunciò l’arrivo di un messaggio delle Brigate Rosse e la conclusione del periodo dittatoriale della Democrazia Cristiana che per ben trent’anni aveva tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data si comunicava l’avvenuta esecuzione del Presidente Aldo Moro, mediante suicidio. Si consentiva il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giaceva. La salma di Aldo Moro era immersa nei fondali limacciosi del lago Duchessa, altezza metri 1.800 circa, località Cartore, zona confinante tra Abruzzo e Lazio. Questo, stando al comunicato, sarebbe stato soltanto l’inizio di una lunga serie di suicidi.

Dopo cinque anni si scoprì che l’autore era stato Toni Chicchiarelli, falsario romano legato agli ambienti della Banda della Magliana e confidente dei servizi segreti, che verrà assassinato nel 1984 in circostanze mai del tutto chiarite. Si disse che il comunicato gli era stato commissionato per verificare quali effetti avrebbe suscitato nel Paese.

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Le Brigate Rosse proposero, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi in quel momento in carcere, il cosiddetto fronte delle carceri, accettando di rilasciare Moro per un solo brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari con lo Stato. Un riconoscimento venne comunque ottenuto quando Paolo VI, il 22 aprile, rivolse un drammatico appello pubblico con il quale supplicava in ginocchio gli uomini delle Brigate Rosse di rendere Moro alla sua famiglia ed ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò doveva avvenire “senza condizioni”. Quel “senza condizioni” fu probabilmente fatto inserire in un secondo momento. Per Moro equivaleva alla condanna a morte.

Di grande impatto nell’opinione pubblica fu il messaggio precedente, appunto il numero 7. Il lago fu ispezionato, ma era ghiacciato e poteva essere raggiunto solo con gli elicotteri. A 1.800 metri di altezza, presso la località Carlore in provincia di Rieti, non poteva esserci nulla. Eppure, per effettuare il sopralluogo, fu mobilitato un ingente spiegamento di forze dell’ordine. Si apprese in seguito che sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista avevano già pronti i manifesti di commemorazione e si attendeva solo il ritrovamento del cadavere per dare il via alle cerimonie funebri.

Un altro stucchevole episodio dei 55 giorni di prigionia, si rivelò il covo di via Gradoli. La polizia vi si presenta per la prima volta il 18 marzo 1978. Cinque poliziotti vi vengono inviati dalla Direzione generale di pubblica sicurezza ma si limitano a bussare alla porta, andandosene dopo la mancata risposta degli inquilini.

Il secondo episodio avviene il 2 aprile 1978, e attiene alla famosa seduta spiritica officiata da Romano Prodi nella campagna bolognese, nella residenza dell’economista Alberto Clò, durante la quale alcuni commensali attorno a un tavolo invocano gli spiriti di La Pira e don Sturzo, facendo muovere un piattino su un tavolo alfabetico e ricavandone le parole Gradoli, via Cassia, Viterbo, 6, 11”. Prodi, solo dopo due giorni dalla rivelazione, riferì l’informazione alla segreteria della Democrazia Cristiana, la quale la trasmise al ministero dell’Interno. Iniziarono le perquisizioni nel paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo, senza trovare alcuna traccia. A nessuno verrà in mente di perquisire via Gradoli sulla Cassia. La moglie di Aldo Moro scoprì l’esistenza della via consultando le Pagine Gialle, mentre le era stato detto che non esisteva alcuna via Gradoli in tutta Roma. Il 18 aprile il covo viene scoperto dai vigili del fuoco che intervengono su richiesta dell’inquilino sottostante per una perdita d’acqua che filtra attraverso il soffitto, e certamente voluta. Si viene a sapere che nel covo di via Gradoli è stato trovato un piano di attentati della colonna romana delle Brigate Rosse: nomi, indirizzi, fotografie, elenchi di alti funzionari, industriali e uomini politici. Altri elenchi raccolgono le generalità di esponenti della Democrazia Cristiana senza specificarne la mansione.

Un altro episodio di rilievo fu l’appello lanciato da Lotta Continua e sollecitato dal gruppo “Febbraio ‘74”, sottoscritto da Davide Maria Turoldo, Gianni Baget Bozzo, Italo Mancini, Raniero La Valle, Heinrich Böll e altri. Turoldo dichiarò che non sapeva che farsene di uno Stato incapace di difendere Moro. Fu uno dei rari casi in cui si guardò all’uomo Moro e non allo statista, alla tortura morale nei confronti della persona, come ebbe a dire il direttore Pio Baldelli. Si metteva in luce la dolcezza apparente di Moro, il suo profilo di individuo. Parole che potevano essere accostate a quelle di Paolo VI che definiva lo statista “uomo buono e onesto”.

Quindi fu la volta del segretario dell’Onu, Kurt Walheim, che suscitò sconcerto. Chiese la liberazione del prigioniero a titolo personale e urgente. Era il 22 aprile, e il segretario parlò da New York. Walheim era disponibile a venire in Italia, a far sentire la sua presenza. Il messaggio fu trasmesso via satellite dalla televisione italiana.

Infine la posizione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, secondo la quale aveva già la penna in mano per firmare la grazia purché gli fosse proposta, come spesso ha dichiarato lo stesso Craxi. L’atto di clemenza era l’unica via percorribile per salvare l’onorevole Moro. Leone voleva firmare, come disse ad Eleonora Moro che gli aveva chiesto un intervento in extremis. Era nel suo studio con Cossiga. Gli disse che stava per telefonare a Zaccagnini. Cossiga bloccò la cornetta, confidando che tutto era registrato e che bisognava valutare bene il peso della telefonata. C’era il rischio che il Quirinale fosse criticato per interferenze.La campagna contro Leone divenne martellante. A combatterla furono giornalisti e politici, con i radicali in prima fila, cui si aggiunsero i comunisti.

Si arrivò all’epilogo. Il 6 maggio le Brigate Rosse fecero pervenire il comunicato numero 9 in cui si concludeva la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro era stato condannato. Amintore Fanfani si recò a trovare la famiglia Moro. Il vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi voleva offrirsi in cambio di Moro, ma la sua proposta venne respinta dal Vaticano.

Da Eseguendo la sentenza di Giovanni Bianconi (Einaudi 2008): “Quando il telefono si libera, Matteo (Valerio Morucci) entra e compone il numero di casa di Saverio Fortuna, l’assistente di Moro. Hanno scelto lui perché la consegna delle lettere di dieci giorni prima è andata bene. Il nome non è uscito, è possibile che la sua linea non sia sotto controllo. Per volontà di Moro devono provare ad avvisare la famiglia evitando la polizia. Il telefono squilla, ma l’assistente di Moro non risponde. Né lui né altri. Matteo torna da Alessandra, riprovano dopo un po’. Ancora niente. Per l’ora di pranzo, pensano, qualcuno tornerà in quella casa. Ma può essere troppo tardi. Si muovono con circospezione da una cabina all’altra, sempre attenti alle facce e alle macchine che incontrano. Oltre un certo limite non si può attendere, c’è il rischio che qualcuno si accorga della Renault, nella quale solo una coperta impedisce di vedere il corpo di Aldo Moro. Poco dopo mezzogiorno Matteo fa l’ultimo tentativo. Non risponde nessuno. Decide che il tempo è scaduto e chiama un altro assistente del presidente democristiano. Avrà certamente il telefono sotto controllo, ma non si può fare altrimenti. Alessandra guarda a distanza, e aspetta. Uno squillo, due squilli, tre. Stavolta qualcuno risponde”.

Alessandro Moscè

(continua)

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