“Nel luogo feroce dove esistevo senza ombra”. Le poesie “oscure” di Margiad Evans
Poesia
Fabrizia Sabbatini
Il libro più importante di Angelo Maria Ripellino, probabilmente, è lo studio sui “Maestri della regia nel teatro russo del Novecento”: s’intitola Il trucco e l’anima, è pubblico da Einaudi nel 1965, ottiene il Premio Viareggio. Il titolo del libro è tratto da una poesia di Boris Pasternak, Ai Mejerchol’d, del 1928; gli ultimi versi sono tradotti da Ripellino in questo modo:
Con la stella commedia inimitabile,
quasi respirando odor di tinta,
vi siete cancellato per il trucco.
Il nome di questo trucco è anima.
S’intendeva, forse, che il teatro è vita e che la vita è teatro, che ogni tecnica attoriale – meglio dire: disciplina; come si recitano le ore così si impegna il corpo alla recita – non fa che scardinare l’oscuro, va verso l’Etna dell’anima. Ma forse, è l’anima a essere un trucco: in ogni caso, nel titolo scelto da Ripellino il verbo si declina in congiunzione, scema.
Deliri sovietici dove ogni istante pretendeva la fermezza di un millennio: dieci anni dopo aver scritto quella poesia, nel ’38, Pasternak “va a trovare Mejerchol’d, il cui teatro è stato chiuso dalle autorità”; l’anno dopo per il grande regista traduce Amleto. Preda dell’orda stalinista, Mejerchol’d è arrestato, torturato, ucciso, nel 1940 – la moglie era stata massacrata l’anno prima. “Sono stato legato a Mejerchol’d dall’ammirazione per il suo talento, dal piacere e dall’onore che mi procuravano le visite a casa sua o la frequentazione dei suoi spettacoli, ma non dal lavoro comune, che tra noi non c’è stato”, dirà, anni dopo, Pasternak. “Sia lui sia Majakovskij erano uomini troppo di sinistra e rivoluzionari, e per loro io non ero sufficientemente di sinistra e radicale”.
Il Gruppo della Creta, compagine teatrale che tra l’altro gestisce a Roma il Teatro Basilica, si è aperto in cantiere per mettere in scena Il trucco e l’anima di Ripellino. A guidarli, Antonio Calenda, tra i grandi registi e pensatori del teatro italiano, già direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e fondatore, con Gigi Proietti e Piera Degli Esposti, del mitico Teatro Centouno. La messa a teatro di quel testo di Ripellino è un suo sogno, dunque un tarlo. Le premesse sono buone: “Come rabdomanti, cerchiamo non tanto una via d’uscita, quanto un atto rigenerativo che affondi i propri strumenti nella ricerca e nelle visioni che alcuni grandi maestri hanno tracciato all’inizio del Novecento”, scrivono.
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In un saggio del 1992, Cesare G. De Michelis spiega perché Il “Pasternak” di Ripellino “ha acquisito i caratteri non solo dell’autorevolezza ma anche della definitività”. Il concetto sfida l’assurdo: è vero che nessuna traduzione è definitiva – intorno a Pasternak si sono esercitati altri, Alessandro Niero, Elisa Baglioni, Paola Ferretti, Marilena Rea, ad esempio, che per Passigli hanno tradotto i singoli libri del poeta in modo impeccabile, pulito, netto – ma è vero che alcune traduzioni sono più belle di altre, inimitabili – perciò, sì, definitive. In forma miracolosa, Ripellino trova la sua lingua poetica attraversando Pasternak, slinguando Pasternak; di Pasternak non intuisce lo stile, ma la postura, l’indole, il ritmo barbaro e lunare di stare al mondo: “Attonito, con gli occhi spalancati, coi nervi tesi a sorprendere le più sottili minuzie, Pasternak s’aggira in questo mondo tentoni, come uno stralunato che veda ogni cosa per la prima volta. C’è nelle sue pagine un’aria da giorno della creazione. Brulica sotto i nostri occhi un universo vibratile di percezioni capillari, di cose immensamente minuscole, di dettagli guardati in una lente d’ingrandimento”.
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Ripellino comincia a tradurre Pasternak nel 1947: un frammento de Il luogotenente Schmidt è pubblico su “La fiera letteraria”; dieci anni dopo cura per Einaudi il volume antologico delle Poesie e va a trovare il poeta nel suo ritiro, a Peredelkino: “Le parole di Pasternàk avevano una gravità battesimale. Mi suona ancora negli orecchi la sua cantilena discontinua, arrochita… Ci invitò a pranzo. A capotavola, come un nero idolo, troneggiava la moglie. Un lunghissimo pranzo all’antica: galline, funghi e verdura della sua villa. E cognac e brindisi. Intanto Borís Leonidovič parlava della gioia che si prova nell’ospitare gli amici venuti da terre lontane. Paragonò la figura del poeta ad un albero che stormisca nel vento. Esortò Evtušenko a non stemperare il suo ingegno negli intrugli dei versi servili. Ci narrò di Marina Cvetàeva; tracciò un parallelo fra Bunin e Čechov, dando la palma a quest’ultimo. Mi sorprese il suo amore per le ariette banali di Severjànin, che era stato per me sino allora il campione d’un bolso decadentismo… Quando prendemmo congedo, mi regalò due quaderni con liriche allora inedite; verdi quaderni, su cui rameggiava la sua scrittura antiquata, tutta svolazzi ed occhielli…”.
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Tra le poesie di Pasternak, Ripellino sceglie quelle che gli sono congeniali, che meglio si adattano al proprio congegno linguistico; il Pasternak degli inizi, quello cubofuturista, sonoro, che produce “un immenso arsenale di metafore”, del “dinamismo che dà le vertigini”, capace di immagini “sempre eteroclite e d’una novità strabiliante”, quello di Mia sorella la vita, maestro di eversione linguistica, che, allo stesso tempo, evade dalla prigionia della poesia avanguardista, dallo schematismo della lirica ‘sociale’ e ‘rivoluzionaria’. Il Pasternak, insomma, “che più ha influito sulla nuova lirica russa” piace a Ripellino; mai ha celato un netto fastidio verso la svolta ‘tolstojana’ del grande poeta, cauta, meno esuberante, esemplificata dal Dottor Zivago.
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Soprattutto, Ripellino è maestro nell’arte del ritratto impressionista, della critica letteraria come opera romanzesca: scombina i generi, mesmerizza i poeti, assegnando a ciascuno di loro una natura felina, da massacro delle ovvietà accademiche. Ripellino non ‘evoca’ i poeti, non ‘invoca’ attenzione: li ricrea, come personaggi di una immane, immacolata pièce teatrale. La memorabile antologia Poesia russa del 900 (Guanda, 1954), dedicata “A mio padre”, è un repertorio circense di eroi, tipizzati, stilizzati, magnetici. Due esempi di autori laterali. Zinaida Gippius “ci si presenta in pose barocche di peccatrice. La sua scena è il solito museo decadente con lugubri manichini di cera, figure di diavoli e un gran tanfo di fiori velenosi. L’universo le si profila come una prigione custodita da ragni malefici, come un’ansa fluviale piena di nere sanguisughe. A leggere i libri di questa poetessa, che di sé parla sempre al maschile, ci par di vederla nel suo salotto di Pietroburgo, così come la descrivono le cronache letterarie del primo Novecento. Accovacciata su un divano, fumando raffinatamente le sigarette odorose che le stavano dinanzi in una scatola laccata di rosso, affascinava i suoi ospiti con paradossi ed enigmi filosofici. Vestita d’un bianco saio, con una nera croce al collo, scrutava i presenti attraverso il proprio occhialino, e da lei si spandeva un profumo di tuberose”. Qui, si sente, il critico molla il morso per dare via al romanziere: il cammeo alla Dickens, il genio onirico di un Odilon Redon, di un Alfred Kubin.
Ripellino ha particolare sintonia con gli sfrenati, i poeti laterali ai riflettori, gli insostenibili, gli smangiati, gli inarginabili. Ad esempio Velemir Chlebnikov (che traduce, per Einaudi, nel 1968), “un sognatore, un uomo incapace di cose pratiche, timido e goffo con le sue abitudini di provincia, sempre con la tasca vuota, sempre smanioso di progettare mirabolanti utopie. Egli cercò tutta la vita le ‘leggi del tempo’, propose una ‘ferrovia circum-Imalaia, con diramazioni a Suez e a Malacca’, immaginò che le città del futuro si dovessero fabbricare di alvèoli di vetro”.
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Condensò la grande stagione della poesia russa nell’eterno gioco tra due poli: Vladimir Majakovskij, il poeta teatrante, teatrale (“La forza di Majakovskij è appunto in questo suo ininterrotto recitare nel vivo dell’epoca”), pieno del proprio futuro iridescente, a cui (parola di Pasternak) “la novità del tempo scorreva climaticamente nel sangue”, e Boris Pasternak, che “diffidando dei temi politici e di quelli della poesia tribunizia… passava nel folto delle battaglie che avrebbero mutato la Russia come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata non le gesta di un popolo, ma i prodigi del cosmo”; il poeta delle folle e il poeta degli abissi, quello dell’urlo e quello del sussurro, quello del trucco e quello dell’anima.
Al centro, tra queste visioni lirico/teatrali, da camera o da arena, la figura di Mejerchol’d, la cui azione rivoluzionaria prende misura dai versi di VM. “Tutta l’attività teatrale di Majakovskij si svolse nel segno di Mejerchol’d”; “Majakovskij fu l’autore-pilota, il fulcro del teatro di Mejerchol’d come Čechov lo era stato del Teatro dell’Arte. È interessante osservare che, dopo la morte del poeta, Mejerchol’d venne perdendo il legame col proprio tempo, il senso d’un teatro direttamente impegnato nei problemi dell’epoca. La sua arte, che aveva espresso a meraviglia le dissonanze e gli impulsi del grande turbine d’Ottobre, si trovò spaesata negli anni grigi dei piani quinquennali”. La poesia russa che esplode intorno alla Rivoluzione è teatrale, ha l’onere di fare la Storia, inscenandola: anche la Rivoluzione è teatro, tragico, ossimorico, osceno; è fatta per essere messa in scena, la Rivoluzione, con le sue oceaniche ‘quinte’; chi ne gioca una parte non può che adempierla, fino in fondo, fino alle più massacranti conseguenze. Da qui, l’esasperazione del controllo, del segreto, della tortura: attori poco inclini agli incanti, che con durezza cercano di alienare la propria debolezza.
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Nel 1960 Carmelo Bene s’inventa lo Spettacolo-concerto Majakovskij: riporta, cioè, il sommo aedo della Rivoluzione (spirituale ed estetica, dacché fu aborto quella politica) alla dimensione vocale, aurorale, profetica, d’urto e d’urlo. Nel 1977, “sulla rete 2 della televisione”, per la Rai, in prima serata, va in onda Bene! Quattro diversi modi di morire in versi; lo spettacolo prevede letture da Aleksandr Blok, Majakovskij, Esenin e Pasternak. Che la poesia chieda l’intero sacrificio del poeta è perfino uno sconcertante cliché – solo i falsi profeti poetano dando diletto, mettendosi in posa. Bene intende altro: la Rivoluzione, diventata rivoltante, ha diversamente ucciso i più grandi poeti dell’era: Blok schiatta di fame, durante gli anni, tremendi, della guerra civile; Esenin e Majakovskij si ammazzano, autentici ‘suicidati dalla società’; Pasternak, che passa indenne nel sepolcro stalinista, muore per soffocamento, nell’indifferenza civica. “Ma quanto più grande è la magica ebbrezza di questa poesia, miracolo irripetibile, tanto più tragico appare il destino del poeta tenuto ai margini, offeso dalla marmaglia, esule in patria”, scrive Ripellino nel breve saggio, Un affiatato quartetto, che apre lo spartito Rai delle letture di Carmelo Bene (una delle ultime sue imprese culturali, visto che muore a Roma il 21 aprile del 1978).
Lo spartito ricalca anche le note di scena di Roberto Lerici, editore – con la Lerici collabora, tra l’altro, Ripellino – sceneggiatore – Bene e la Mancinelli mettono in scena il suo La storia di Sawney Bean – e scrittore per la Rai. “Carmelo Bene ha immaginato lo spettacolo come un lungo monologo da attore, cioè fuori dalla tradizionale dizione di versi, realizzando un concertato molto preciso di ritmi e cadenze diverse per ciascun poeta, muovendo la sua figura in completo nero, in un teatro semidistrutto e incendiato. Sul palcoscenico crepitante di fiamme e di bandiere rosse al vento, dà voce alle speranze iniziali, alla catastrofica volontà di rigenerazione fra le macerie del vecchio mondo che agonizza. Nella seconda parte, sul teatro scoperchiato cade la neve, neve fitta che spegne l’incendio, congela speranze, costringe l’attore come poeta a brindare alla propria fine interiore, senza più né identità né funzione, a strappare le bandiere amate, a concludere violentemente la propria vicenda individuale per restituire al poeta la sua funzione di vittima rinnegata. L’uso quasi continuo dei primi piani è una scelta precisa, il paesaggio del viso sostituisce qualsiasi relazione con l’esterno, con il documento, e ogni trasalimento, la minima piega delle labbra o espressione dello sguardo, sono segni decifrabili o ambigui che rimandano ai profondi conflitti suscitati dalla più grande esperienza rivoluzionaria del secolo nelle coscienze di quattro poeti diversissimi fra di loro, ma accomunati da una tragica rinuncia”.
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Carmelo Bene recita le poesie di Pasternak tradotte da Ripellino; Le onde, ad esempio, con tratti di micidiale bellezza:
Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno
non si può non incorrere, infine, come in un’eresia
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più di ogni altra cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
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Di Pasternak, Ripellino amava la “timidezza sognante”, la disciplina bianca, la fuga dai clamori: “fu contrario a esaltare se stesso, non recitò mai la parte del creatore scapigliato, respinse la concezione romantica del poeta che trasforma la propria esistenza in una curiosità letteraria, in un continuo spettacolo”, “racchiuse il mondo fra le pareti d’una stanza, d’un solaio”. Pareva una specie di Alëša Karamazov, di principe Myškin, uno scaltro Don Chisciotte, avventato quanto a sbadate passioni.
Allo stesso modo, è l’inquietudine sfrenata di Majakovskij, il poeta inseguito da uno sparo, a infervorarlo: il Majakovskij che “nella primavera del 1920” afferra Roman Jakobson, si fa spiegare la “teoria generale della relatività”, pretende di incontrare Einstein, ed è colto da una certezza, “io sono perfettamente convinto che non ci sarà più la morte. I defunti saranno resuscitati” (consonanza rotonda con quanto dice, invasato, lo Zivago di Pasternak, “La morte non esiste. La morte non riguarda noi… non vi sarà morte, perché questo è già stato visto, è vecchio, ha stancato, è ora di qualcosa di nuovo, e il nuovo è la vita eterna”: da una parte l’immortalità si ottiene per scienza, dall’altra per fede). Il Majakovskij che “desiderava recitare i suoi versi in groppa a un elefante”: dominio sull’impossibile, sola ammissione del miracolo. Ripellino svela le remote ragioni liriche di Majakoskij in un “messianismo che ha chiare radici nella tradizione religiosa russa, anche se travestito in spoglie comunistiche”: “Una critica impigliata negli schemi ideologici ignora di solito la sostanza evangelica dell’arte di questo ‘tredicesimo apostolo’, i cui poemi sono affollati di termini biblici, e non importa se in senso blasfemo”.
Che sia il contemplativo, perso tra nevi e betulle, a compiere il rito dei turbamenti e delle nostalgie, o il furibondo oratore di piazza, esteta delle ordalie, lottatore con gli angeli, sia Pasternak che Majakovskij corrispondono al modello dello jurodivyj, lo stolto in Cristo, che ribalta i criteri del mondo, ne converte la rabbia in candore. Entrambi, sono previsti nell’azione del pellegrino russo, che si descrive così, in una “apertura tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese” (Cristina Campo), introducendo i suoi racconti: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pane secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”.
Allo stesso modo, la poesia denuda, fino alla prima vertebra, tra salmo e balbettio, perché ogni poesia viene dal primo giorno, è l’ultimo verbo. La poesia toglie tutto, per darci in pasto all’uno, al solo.