“L’uomo è un albero mistico”. Sulla poesia suprema e folle di Alfonso Cortés
Poesia
Giorgio Anelli
Un racconto in versi, con l’io protagonista, senza volersi impelagare in probabili o improbabili genealogie, è quasi inevitabilmente un monologo, con sottaciuta vocazione teatrale; l’io apre a una dizione transitiva nella comunicazione, ma il paradosso del libro di Lorenzo Somelli, Le parole di nessuno (Arcipelago Itaca), è che racconta proprio l’impossibilità di comunicare con una dizione transitiva, perché le parole piane, semplici, del quotidiano, si rivoltano prima di tutto contro l’io, non offrendo quindi paragoni al lettore, alla sua esperienza. Il noi di lettori è così presupposto, chiamato a assistere e nello stesso tempo escluso dalla partecipazione. Del resto è proprio la impossibilità di condividere l’esperienza quello che accade al protagonista di questo racconto in versi, che pian piano è letteralmente deprivato dei sensi. Un uomo normale, che si muove in un mondo quotidiano e scontato. Che sia quello del lavoro o quello familiare e che non ci fornisce una biografia che vada oltre questo: è un everyman.
Lecito chiedersi cosa, allora, racconti e perché in versi. Intanto bisogna capire che la vera ‘storia’ di questo racconto o poemetto o comunque lo si voglia definire, è in che modo un io prosaico e deprivato diventi un io lirico, tracciando un percorso che va dalla deprivazione totale alla visione.
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Una prima risposta: a ciò lo costringe la prosa del mondo che inizialmente appare restia a disporsi nei versi, dunque non la necessità di una sublimazione che cerchi il ‘poetico’, ma perché la perdita dei sensi del protagonista sperimenta la inaccessibilità del mondo quotidiano in cui è immerso, accorgendosi che le sue parole non designano più le cose e lascia spazio ai verba della mente che però, in tale condizione, non hanno nulla su cui esercitarsi, quasi si chiedesse non solo perché questo è accaduto proprio a me, che sarebbe una virata comunque tragica o elegiaca, ma perché non trova in quel che gli accade nulla che sia, non dico poetico, ma appartenente alla sua biografia, riferibile alla sua esistenza. Questo senso lo dovrà cercare solo svuotando tutto ciò che tramite una parola, un gesto, lo lega ancora a una cosa, un sentimento, un pensiero o un’astrazione.
Mi concentrai un istante, l’etichetta/ recava scritto aceto, ed era aceto/ dunque! Misi alla prova la parola/: niente! Svitato il tappo, la infilai/ nel naso. Niente! E lessi nuovamente/ più da lontano aceto, e riprovai…
Eppure da questa deprivazione, nasce il nucleo lirico del racconto, quando anche la memoria e i ricordi privi di riscontro con una realtà che vi si adegua in modo troppo aderente, si separano dal protagonista, che deve definirsi faticosamente tramite la scrittura, zona estrema e pericolosa del linguaggio: Anima e corpo, entrai direttamente,/ e per la prima volta, nel sistema/ della parola scritta, zona estrema/ del linguaggio: chi sbaglia, sbaglia e mente. L’oralità iniziale nell’aderire a quanto sta accadendo al protagonista, rischia di essere una recita, una finzione anche se fosse solo verso se stesso.
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La zona estrema è dunque l’inizio di un altro viaggio, che si espone al rischio: chi sbaglia, sbaglia e mente. Allora appare chiaro come la progressione narrativa, insomma la storia di un uomo qualunque che perde i propri sensi all’interno del proprio mondo banale e quotidiano, sia soprattutto un crescere della lingua e della sua tensione: più abbandona il rapporto con il mondo e più questa cresce. È l’unica via per dire la verità e non mentire, accettare fino in fondo la sfida di poter scrivere di ciò che non si riconosce più senza cadere nello sbaglio, accettare una incompiutezza della lingua, meta e raggiunto limite, che mantenga la promessa fatta a se stesso di dire il vero e non la menzogna.
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Esercitare il gioco delle citazioni rinvenibili, sarebbe sterile, Somelli le fa talmente sue, inserendole in un contesto diverso, che si potrebbe pure sbagliare per difetto o per eccesso. Ma la metrica merita altra considerazione. Non è un dato meramente tecnico, è la sua importanza nella progressione narrativa, il suo essere un doppio nascosto quanto necessario delle parole, una loro trascendenza che non evade in misteriosi aldilà, ma è al loro interno; inizialmente sembra una forzatura, o meglio un contenimento forzato di ciò che accade, ma pian piano ne scopriamo la necessità; forse è qui che si trova la risposta alla domanda inevitabile, posta nell’introduzione da Alfano: perché scrivere in versi e non in prosa? La misura del verso conserva un ‘oltre’ delle parole, o almeno la sua memoria, solo questo permette una progressione, perché se all’inizio pare non coincidere con gli eventi o piegarsi passivamente al loro accadere, poi diventa lo spazio entro cui le parole respirano e il protagonista può cercare e trovare una visione.
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Per restare, alla grossa, nel ‘genere’ scelto da Somelli, ricordiamo come T.S. Eliot predicasse la necessità della estinzione della personalità; ecco, qui l’affermazione viene presa in senso letterale, non per dar vita a una oggettività più o meno riconoscibile o verificabile, una terra desolata che comunque tutti ci accoglie, ma per andare alla radici dell’io lirico, alla sua nascita e non a caso la visione finale termina con la parola ‘punto’; dove l’assurdo del quotidiano svela il non senso ma anche il suo essere nostro unico contatto con una possibile visione. Quel ‘punto’ è una contrazione dell’immagine, ma anche un inizio, coincidente con la fine.
Insomma assistiamo a un corpo a corpo tra istanze narrative e possibilità della poesia, e il richiamo alla Commedia che ho già preannunciato nel termine ‘visione’ non è arbitrario, i rimandi alla fine del viaggio dantesco sono chiari quanto mai delle citazioni, come l’avesse rivissuta e rielaborata o ci fosse arrivato per una sorta di inevitabilità.
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Allora bisogna fare una breve ripresa riguardo l’importanza della metrica, o della sua ombra: la misura metrica è un sottofondo costante, l’ombra di endecasillabi o forme strofiche, sempre più evidenti nel loro nascondimento, suggeriscono che questo rimando è forse la necessità di scrivere in versi, come fosse un estremo referente, sfuggente ma in grado garantire il ‘vero’, costringere l’invisibile a farsi misura del mondo vissuto e sarebbe possibile leggere questa affermazione al contrario: costringere il mondo ad avere un invisibile che lo attraversa (la gloria che nell’universo penetra e risplende, non è poi il verbo divino?); forse è questo che permette il raccontarsi della storia e la necessità dei versi: la divaricazione tra parole e cose lascia scorrere una memoria metrica rendendole sempre l’approssimazione a una verità e dunque più fragili, più vere: finché si assomiglia a qualcosa non siamo disperati, siamo qualcosa di reale, imperfettamente reale.
Dunque siamo di fronte a un’autobiografia interiore che non va verso la crescita, ma verso la dissoluzione, perché quello è il punto in cui nasce la possibilità della autobiografia stessa, a voler essere irriverenti, è come se qui avessimo il percorso che fa entrare nella selva oscura, il voler sapere come vi si entra quando si è in quel sonno dove i sensi mancano o sono un’illusione. In questo smarrimento, al suo interno, Somelli trova infine la possibilità di una visione, che non è tanto l’uscirne fuori, quanto il rendersi conto di starci dentro, il dantesco mi ritrovai:
Ed era un po’ che non dicevo io. ….
Ma voglio dirvi cosa ho visto ieri.
Era una zattera, era in mare aperto.
Nella bonaccia io remavo incerto.
…Ed affondavo
per metri e metri fino a un’altra luce.
Un altro sole, e un nuovo mare aperto.
Sceso per cerchi concentrici, i cerchi
ora partivano da me, a me attorno fino all’ultimo orizzonte,
si raddoppiavano, decuplicavano….
Finché non iniziarono a ritrarsi
verso di me, con moto inverso, capro
espiatorio di quella catarsi,
l’uno nell’altro fino a farsi un punto.
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È inevitabile il richiamo all’ultima visione dantesca quanto alle parole iniziali del Paradiso, anche perché inizio e fine coincidono nel regno senza tempo, la zattera di Somelli è il mio legno che cantando varca; tutto si avvicina e allontana dall’io recuperato che rifonda un mondo, pure Somelli in fondo ritrova la nostra effige come sommo mistero, lo trova in ciò che non ha voce e a cui bisogna darla, in quello che appare insensato ma è la realtà che ci circonda. Queste parole che parlano per altri che non possono, non faranno uscire dalla selva, ma ci permettono di abitarla, togliendoci dalla cecità della nostra vita e queste parole non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata. Certo qui accade dopo un naufragio più che dopo una traversata, come se fosse riuscito a sopravvivere alla follia del mondo con la sua zattera, ma forse ogni viaggio deve partire da un disastro avvenuto.
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Al termine, come nella Commedia, contenuto e contenente coincidono, non nello splendore dantesco certo, ma nella approssimazione inevitabile della lingua, nel suo essere sempre un accostarsi alla verità.
Chissà se mi sentite come vedo,
se abbracciate i bambini e ne assaggiate
il sale delle lacrime se piangono,
se tutto è assurdo come sembra vero.
E forse in questa conclusione si può leggere una terzina camuffata, tre più uno, come nei finali di ogni cantica, ma, incastonata dal rimando vedo/vero è la conquista di una visione, di una comprensione.
E la forza di quel chissà apre una voragine e improvvisamente ‘io’ vuol dire ritrovare il noi, dunque ci coinvolge, ci interroga, costringe a riprendere da capo per capire come quel è successo ci riguarda o forse viviamo senza rendercene conto. Quelle parole di altri, il sale delle lacrime che ora i sensi percepiscono e ne fanno una propria esperienza, non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata, e il vedere corrisponde alla verità. Siamo smarriti in questo mondo e in questo mondo dobbiamo far parlare il dolore non comprensibile, che ci appare ingiustificato e inammissibile: l’unico ‘oltre’ delle nostre parole, diventate finalmente vere, perché, e comprendiamo il titolo, sono “Le Parole di nessuno”: sono le nostre parole.
Paolo Del Colle
*In copertina: Odilon Redon, “Armatura”, 1891