“Perché Dio sa l’amore dei dirupi”. Sulla poesia di Giammarco di Biase.
Libri
Roberto Masi
C’è una singolarità, una bestia da poco miniata, incerta tra il lapislazzulo e il sangue.
Intendo dire: è inutile ripercorrere la carriera accademica di Antonio Prete, è araldica d’alto lignaggio. Francesista – ha tradotto Baudelaire, profonda la fratellanza con Edmond Jabés – è tra i critici letterari (meglio: pensatori attraverso le lettere) più fecondi, risonanti in questo tempo di cupi echi (tra i libri, oltre agli studi su Leopardi, citiamo, ad esempio, Trattato della lontananza, e le storie “di un sentimento”: Nostalgia e Compassione). Nella sua poesia, dunque, si sente il rigore intellettuale, l’apoteosi della mente. In Convito delle stagioni – Einaudi, 2024 –, titolo che pur nel disincanto reca solenni stole, il Notturno rimanda a Pascoli, la Luna gigante a Leopardi; piante e fiori sembrano una pittura di Botticelli, ma c’è una poesia dedicata a Cézanne, Morandi (“Il colore, formaluce del meditare”); una lassa in prosa, Lezione di tenebre, risillaba l’alfabeto ebraico, una poesia – per altro, assai suggestiva – si articola Su traccia neoplatonica, potrebbe essere estratta – non fosse per “il monitor del computer” – da uno studio alessandrino del III secolo dopo Cristo. Il suono della neve sembra conservare reminiscenze di Yves Bonnefoy, il grande poeta che ‘appare’, letteralmente, insieme ad altri spettri – quello, ricorrente, di Jabés e quello di Mario Luzi – in Passi d’ombra. “Per un bestiario” è la sezione del libro più laconica, forse la più bella: con pochi cenni – una sestina – ci si affaccia sopra uno zoo di emblemi, dalla Lucertola all’Airone, dalla Lupa alle Caprette. Questo è Un cervo:
“Fu dove curva un torrente, sui Vosgi,
nel meriggio. Beveva. La foresta
intorno. Un lampo: nella sparizione
lasciò il cervo un biancore di corna,
un’orma nivea nell’aria, il disegno
dell’angelo tornato già nel regno”.
Che apparizione mirabile: di questa bestia percepiamo il simbolo, auscultiamo i remoti significati, la sua trasmutazione angelica; non ne sentiamo l’odore, la brutale brama. Il poeta Prete è miniatore, cronachista dei minuti respiri del cosmo, mica sciamano. Meglio ancora – come dice la prosa poetica a pagina 47 – è “cartografo celeste”: disegna galassie, costellazioni e pianeti finché
“avverto… un grande turbamento davanti all’abisso che separa il nome dalla cosa, la fissazione visiva di una stella dal vortice fiammante del suo corpo”.
Eccola, allora, la bella contraddizione. Poesia di cristallo, levigatissima, questa, a favor di canone, che chiede al lettore partecipazione intellettuale; eppure, nata sotto lo stemma di Eraclito, “fuoco sempre vivente”. Così bisogna divinare i versi: tra rogo e reggia retorica, tra carne e corazza, ferita e feritoia. Gli “ammassi stellari” si riassumono nei “versi di uccelli”, il cosmo s’insinua nel microscopico; spesso un aforisma leopardiano dona al tutto un’etica ad ascia: “Corre la terra con il suo dolore/ negli spazi, tra mondi innumerabili” (così in Il pianeta dalle molte lune).
Durante l’intervista pubblicata in calce, Prete racconta di quando Jabés gli recapitò un nastro con i versi registrati di René Char: il sommo “poeta eracliteo” compiva ottant’anni, era il suo regalo agli amici. Dono di dono, parole registrate, regesto di amicizie, opera da custodire tra modanature d’ombra: forse è questa la poesia. Inaspettatamente, piuttosto, Prete ci dice che “Il poeta sta nel suo tempo, ma contro il suo tempo”. Ancora una volta, un invito alla contemplazione che sa di lotta.
Le ultime poesie del ciclo sono scritte nel dialetto di Copertino, in Salento. Sono soltanto tre; la più estrema, La cumeta, parla di un aquilone. È inevitabile – anche qui – pensare a Pascoli – e a Seamus Heaney, che così tanto amava L’aquilone pascoliano. Eppure, c’è qualcosa che non regge. L’aquilone di Prete si commisura alle vele, in mare, e alla notte, incipiente. Soprattutto, è la sfasatura nel nome – nella Nominazione, citando un’altra poesia – ad affascinare. Aquilone, cometa… E dunque, ancora: il cosmo e la terra, gli spazi interstellari e il nostro domestico vento-cagnolino, l’albume di Saturno e questo volgare fango, il fuoco che arde e l’infantile levità di un telo che imita il rapace.
A ‘scortare’, per così dire, il libro, nella vedetta dell’esergo, Eraclito e Paul Celan: come mai?
Sì, per esergo ho scelto il frammento di Eraclito (89 dell’edizione di Giorgio Colli) che dice: Il sole è giovane ogni giorno. Per un libro di versi in cui le stagioni – stagioni della vita e della natura – sono evocate nel tempo di un convito, di una compresenza, la protezione di Eraclito, della sua parola, mi sembrava opportuna. Sotto il sole, che “è giovane ogni giorno”, c’è il transito delle stagioni, e c’è il pulsare del tempo umano, con il fremito della mutazione e l’ombra del declino, ma anche con l’incantamento della metamorfosi. Eraclito è anche il filosofo del mondo come “fuoco sempre vivente” e dell’“armonia nascosta più forte di quella manifesta”, per citare altri due frammenti sui quali mi è accaduto talvolta di riflettere. Devo dire che l’evocazione liminare di Eraclito veniva anche dalla mia frequentazione di un poeta eracliteo come René Char, che ho avuto occasione, purtroppo solo per exempla, di tradurre, ma con il quale ho avuto un rapporto mediato da Jabés: per la festa dei suoi ottanta anni Char convocò gli amici poeti e artisti e a loro regalò la lettura di alcune sue poesie incisa su nastro. In quell’occasione Jabès, che era uno degli amici convocati, chiese al poeta una copia della registrazione per me. Ho ascoltato spesso quella voce di un poeta, giuntami per mano di un altro poeta. Quanto a Celan, anche sulla sua poesia mi accade spesso di tornare (e alcuni suoi versi mi sono azzardato a tradurre). In Celan la lingua – lingua ferita – nomina il tragico del tempo e non può farlo se non dando alla poesia il compito di levarsi, nell’inferno dell’epoca, come un’oasi di conoscenza e di invenzione.
In diverse poesie appare l’ombra di Edmond Jabès; in una, insieme a lui, appaiono Bonnefoy e Mario Luzi. Che rapporto ha la poesia con i morti – che rapporto ha lei con gli andati?
Sì, Edmond Jabès è presente anche in queste pagine, come in altri miei scritti, in prosa e in versi. Averlo frequentato e averlo tradotto è stato per me un fatto tutto interno al mio cammino. Un vero incontro, un dialogo assiduo, anche in sua assenza. C’è nella prima sezione una poesia, la più lunga del libro, nella quale, in una sorta di apparizione mentale, o di dantesco oltremondo, mi trovo davanti alle ombre di tre poeti di un’altra generazione che mi fecero il dono della loro amicizia: appunto Jabès, Luzi, Bonnefoy. Ognuno mi appare, di là dal confine della vita, con il sigillo più proprio della sua ricerca, e del suo interrogare l’epoca e la poesia stessa. Sul rapporto della poesia con i morti: direi che la poesia, come può fare dell’assenza una presenza, dell’impossibile un ritmo, dell’invisibile un’apparizione, così può accogliere nella vita pulsante del verso una figura che più non c’è, con il suo suono, con l’onda del suo passaggio. La poesia, da Dante in poi, è una restituzione di presenza, di voce, di timbro, di pensiero, di gesto. Una rivelazione non solo di quel che è sottratto alla vista, ma anche di quel che è tolto alla vita. Quanto al mio rapporto soggettivo con gli “andati”, sento fortemente – ma credo sia un sentire di tutti – i riverberi, le tracce, le risonanze del loro passaggio: l’assenza lascia tra noi delle forme particolari di nuova presenza. E soprattutto ci fa sentire che tutti siamo nello stesso cammino, sotto le stelle.
Resto in Jabès, reduce da una recente rilettura. Come si installano nella sua ricerca poetica e dunque esistenziale alcune parole-faro di Jabès come ospitalità/ospite e deserto/esilio?
Sono, appunto, parole chiave dell’interrogare di Jabès, un interrogare affidato al frammento, alla micronarrazione, al verso, alla meditazione per immagini e per aforismi ma anche per affabulatoria esegesi della tradizione talmudica propria della diaspora. Dell’ospitalità su cui riflette l’ultimo libro di Jabès – ospitalità propria del nomade, di chi è in cammino – ho cercato di scorgere i riflessi nella lingua della poesia. La poesia è ospitale: accoglie quel che è cancellato, disperso, negato, o oltraggiato, o confinato in un altrove inattingibile. Interpretare una poesia di Baudelaire come Il Cigno sotto il segno dell’ospitalità – le Souvenir che nel bosco della dimenticanza chiama a sé quel che la città moderna, la civiltà, ha dislocato ai margini o soppresso – oppure cercare di dare ai versi che scrivo il compito di accogliere i riverberi della lontananza, i frammenti del ricordare, le tracce del vissuto e le ombre del non vissuto, sono per me due momenti della stessa ricerca. Una ricerca in cui l’ospitalità è la figura più rilevante. Così è per altre parole proprie di Jabès come deserto e esilio. Nella terra della poesia il deserto è il luogo del silenzio, dell’ascolto, della spoliazione di sé, del sé esteriore, per poter ospitare il passaggio del vento (di quel che viene da lontano, dell’“ispirazione”?). Così, l’esilio è l’esperienza dell’esser fuori dal domestico, dal proprio, dall’appartenenza alla convenzione del sentire e agire, l’essere nel margine del possibile, e del visibile, cioè in quel confine dal quale la parola della poesia può muovere verso il dire, e verso il pensare nel dire poetico.
Nel suo libro appaiono bestiari, cartografi celesti, poesie che rincorrono il sillabario ebraico: il ‘presente’ – se poi esiste e in quale foggia – è tutto intimo, trascolorato nella propria singolare esperienza, del cosmo come della lucertola. Che rapporto ha il poeta, a contrario, con la Storia, con ‘l’attuale’?
Credo che i due movimenti possano essere vissuti simultaneamente, anzi la poesia ha, secondo me, questo doppio respiro: da una parte l’interrogazione di sé e il riflesso del visibile – fiore o stella, strada o animale, finestra o tramonto – nella propria interiorità, dall’altra lo sguardo, e il giudizio, sul proprio tempo. Che spesso è un tempo, come il nostro, lacerato da conflitti, un tempo che non riesce a pensare l’insensatezza della guerra, delle guerre, e continua a vederle come una necessità politica, strategica, di relazione tra stati, e non come, anzitutto, trionfo della distruzione, distruzione implacabile di corpi viventi, di natura, di futuro. Il poeta, dal mio punto di vista, ha a disposizione una lingua, e un sapere, che può invece dislocare lo sguardo proprio sul vivente e sulla sua esposizione alla distruzione, sul dolore, sulla ferita, sulla privazione. Simone Weil aveva uno sguardo da poeta quando leggeva nell’ Iliade non la nientificazione del nemico, ma la sua elevazione a eroe, non l’autocelebrazione, ma la compassione. Quanto alla considerazione del tragico, in Convito delle stagioni, la sezione Lezione di tenebre accoglie testi che vanno in questa direzione meditativa. In particolare la poesia omonima è fatta di brevi prose ciascuna delle quali muove da una lettera dell’alfabeto ebraico, secondo la tradizione liturgica e musicale del genere Lamentazioni, per svolgere una riflessione, per immagini, intorno ai fatti tragici della nostra epoca, del nostro presente.
Chi è la ricorrente “Luna, lupa”? E, in estrema sintesi, come si è venuto a comporre questo libro?
Luna era il nome di un cane femmina che per undici anni, prima a Milano, poi a Siena, è stata mia assidua compagna quotidiana. Un “lupo italiano”, dalla folta coda, dagli occhi profondi e vigili, dal mantello bellissimo. Ho avuto altri cani, ma l’affezione per Luna, per la sua attenzione, o malinconia, o intelligenza di quel che era intorno a lei, è stata fortissima. Nel 2000, subito dopo la sua scomparsa, le ho dedicato il libro di racconti L’imperfezione della luna, uscito per Feltrinelli. Quel titolo riguardava l’altra luna, quella celeste, ma nel libro c’era anche un racconto in cui era la Luna animale a prendere la parola e a dettare a me, silenziosamente, alcuni passaggi della sua autobiografia. Qui torna sia nella poesia Nominazione, insieme al gatto Rouge, sia in una delle sestine del piccolo Bestiario, dove faccio riferimento a una sua fuga per l’inseguimento di un capriolo nei boschi della Montagne Noire, nel sud ovest della Francia, fuga che durò diverse ore, prima del ritorno.
Mi chiede come si è venuto a comporre questo libro. Sono poesie scritte dopo la consegna all’editore di Tutto è sempre ora, cioè dopo il 2016. L’aggregarsi nelle sette sezioni ha seguito anche un ordine musicale (dal largo all’adagio al grave e così via).
Nella sua poesia può più la nostalgia, il disincanto, l’esegesi delle ombre o l’assalto, il cane di fuoco gettato nelle fauci del futuro?
Direi che mi sento più prossimo alla prima sequenza che nomina. Ma la nostalgia, sentimento di cui mi sono occupato in un saggio, è di fatto non desiderio di un ritorno ma evocazione di parvenze che si staccano dal loro tempo e prendono presenza qui e ora, il disincanto è forse consapevolezza di stare nella finitudine ma con la risorsa dell’immaginazione di molti oltre, l’ esegesi delle ombre (espressione che mi piace molto) è intrattenimento con le immagini che salgono da quel che è stato e dal non ancora, insomma dialogo con l’assenza, con i suoi riverberi.
Nell’oggi che deprezza il poeta, lo disprezza a inerme inutile arnese (ruolo che forse gli concede l’eccesso di libertà), nel cui dire nessuno più si ‘riconosce’, a che pro la poesia? Qual è il suo arcano senso, la sua nuda resistenza?
Sì, appunto come lei dice, “nuda resistenza”: testimonianza di una relazione possibile con l’alterità, e con l’altrove, ma anche con un’esistenza possibile, liberata in immagini e affidata al miracolo della lingua, delle sue invenzioni, non incrostata dai realismi d’ordine civile, politico, storico. Il poeta sta nel suo tempo, ma contro il suo tempo. Ho sempre ritenuto programmatica una frase del giovane Baudelaire:
“La poesia è quel che c’è di più reale: essa è completamente vera soltanto in un altro mondo”.
*In copertina: Simone Berti, Cervo, 2010