“Uomini siamo, più stanchi che vili”. Sulla poesia di Sandro Penna
Poesia
Giorgio Anelli
La vendetta, si sa, si consuma fredda – l’uomo è anche questo, ha il malato desiderio di funestare i cadaveri oltre a quello di ammazzare i poeti. Cinquant’anni fa Rodolfo Quadrelli, insieme a Quirino Principe, Sergio Quinzio e Armando Plebe, pubblicava un pamphlet micidiale, I potenti della letteratura, che fu una sorta di manuale per ribelli, il bigino di chi non cantava nel gregge gramsciano. “La letteratura contemporanea è oppressa da coloro che bisogna pur definire i ‘potenti della letteratura’: cioè i critici di professione, la cultura industriale e l’avanguardia”, si leggeva, in copertina.
Quadrelli, nato a Milano nel 1939, amava Manzoni e Ezra Pound, dialogava con Sergio Solmi e Guido Ceronetti, traduceva Shelley, era essenzialmente poeta e in una nota biografica, senza eufemismi né ermetismi, si scagliava contro la “brutalità del ‘miracolo economico’… obbiettivamente una tragedia”, identificando “i tratti della società moderna” nella “cancellazione di ogni traccia di sacro”. Si era laureato in Statale su Shakespeare – sull’Antonio e Cleopatra per la precisione: relatore Agostino Lombardo – e trafficava con il grande Vanni Scheiwiller. In un ciclostile del 1972 scriveva che “La cultura della quale intendiamo parlare non è la cultura degli indios o dei polinesiani, sulla quale ora indugiano anche i rotocalchi, con ipocrita pietà… parliamo invece della cultura italiana ed europea per dire che l’Autostrada del Sole era evitabile”.
Reazionario? Antimoderno? Profeta del bel tempo andato? Nello stesso anno, sull’Espresso, Umberto Eco ascriveva Quadrelli tra gli “ultras della sottocultura”. Peccato che in quella Rusconi, di cui Quadrelli fu l’anima e la mente, passarono autori allora schifati e ora di moda, sventolati nei salotti conformisti: Cristina Campo, René Guenon, Mircea Eliade, Pavel Florenskij, Ernst Jünger, Elémire Zolla, il fatidico Tolkien. Rodolfo Quadrelli a dispetto di costoro – la vendetta, si sa, si consuma a cadavere lambito dai lombrichi – non diventò mai di moda, anzi, su di lui agì la mannaia che annienta gli anticonformisti, la maledizione postuma, il sale sopra l’opera del nemico. Eppure, per dire di sconvenienti convergenze, il 3 novembre del ’75 Quadrelli “piange la scomparsa di Pier Paolo Pasolini come se fosse un fratello, pur non avendolo mai conosciuto. Uomo libero e grande poeta, lottò, da solo, per l’antica sacralità e per l’antica dignità dell’uomo”. Una fratellanza lirica lega Quadrelli a PPP: entrambi si ostinano a pensare in versi, a penare e a polemizzare.
“Vi odio, mercenari dei giornali,/ facce composte, cuori normali,/ prostitute dell’ambiente milanese,/ e romano, fate i fini e gli eletti, ma le spese// vanno sul conto altrui, sul conto dei/ disperati che vi reggono, o nuovi dèi/ del falso in atto pubblico, del fermo/ proponimento di dire mezze verità”, canta Quadrelli, con la ferma ironia di un Giovenale in metropolitana, Agli amici giornalisti (ed editori, e professionisti, e scrittori premiati, e industriali che li premiano). Pubblicò due raccolte di poesie, Quadrelli, per Vallecchi (Apologhi e filastrocche) e Scheiwiller (Commedia), poi confluite in Ironia (Rusconi, 1980), tiepidamente ignorate nelle antologie della poesia che conta (eppure Silvio Raffo nel recente repertorio Muse del disincanto, edito da Castelvecchi, gli dedica pagine importanti), ora raccolte, finalmente, da Effigie in Tutte le poesie. 1960-1984. Il suo zenit era Thomas S. Eliot (“l’incontro con Eliot, che solo a vent’anni potevo cominciare a leggere nell’originale, fu decisivo”), che usò – come scrive in Poesia contro filosofia: una poetica – come ariete per sbriciolare i costumi della lirica italiana: “fu allora che potei riscoprire di bel nuovo certi poeti del passato, da Dante a Shakespeare a Manzoni, opponendoli alla tradizione petrarchesca dominante nella nostra letteratura”.
Con lingua autarchica, da autentico intellettuale in versi, Quadrelli verseggia Leggendo Solzenicyn (“Ma non è nostro merito/ se siamo devastati dalla Sua grazia”), confrontandosi con Manzoni (“La debolezza che alla fin scopriamo/ esser segreta amica della forza…”), ammettendo la Nostalgia di Flaiano (“La vita pure esiste ma lontano;/ se si avvicina si allontana il mondo”). Certo, quelli sono gli anni in cui si formula un nuovo canone: escono le raccolte decisive di Mario Luzi, di Giorgio Caproni, di Andrea Zanzotto e di Vittorio Sereni; ma in poesia non hanno senso le classifiche, conta la catastrofe del linguaggio, il suo lignaggio. Quadrelli appartiene, in questo senso, a una primigenia aristocrazia: fu il cadetto di una eredità rubata, di una Arcadia brutale. La poesia al Dio vivente è magnifica (“Vorrei sapere se esisti anche ove il male/ che gli altri fanno a noi è il solo originale/ dato ce ricordiamo e se il presente/ ci dona avare gioie ed il futuro niente”), ma chi può capirla oggi che “i potenti della letteratura” si sono tramutati in iene, in canaglie? Dimenticavo. Quadrelli si fece odiare da tutti. Dai poeti, soprattutto (“I poeti italiani contemporanei mi apparivano come dei singolari e candidi ‘ignoranti’”, aveva scritto). Non gliela perdonarono. Per questo, leggere oggi Quadrelli, per fortuna, è un atto sovversivo. (d.b.)
*L’articolo è uscito su “il Giornale” il 6 settembre 2020; in copertina, Rodolfo Quadrelli in un ritratto di Dariush