
“Avevo otto anni e scrissi una poesia su uno yeti. Tutto faceva rima con yeti”. Leontia Flynn, poetessa irlandese
Poesia
a cura di Emma Magnanini
Ad Andrea Temporelli piacciono le metafore calcistiche. Così, a Smarcamenti, affondi e fughe (Ladolfi, 2016) segue Assist, rovesciate e autogol (Fara, 2024). Nel primo caso, Temporelli ha raccolto gli editoriali pubblicati sulla rivista “Atelier”, incubatrice di talenti e di tradimenti, da lui diretta fino al 2013. Per l’ultimo libro, ci è d’aiuto il sottotitolo: “La letteratura presa a calci”.
Nella breve nota biografica, Temporelli ricorda di aver “giocato nelle giovanili del Borgomanero”. Ricorda anche che “alla prima occasione, ha obbligato la redazione di poeti a cimentarsi in una partita a calcetto”. Ricordo che in una di queste partite – epiche per linearità con l’effimero – Federico Italiano giocava con improbabili scarponi, Simone Cattaneo era un difensore centrale d’erculea violenza, mentre Angelo Crespi – all’epoca poeta, aveva da poco pubblicato la seconda raccolta, Primo oltre, per Lietocolle; ora è direttore della Pinacoteca di Brera – si muoveva con invidiabile leggiadria, fece un gol leggendario. Io correvo – come sempre – a inni e a endecasillabi.
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In questa storia di lirica calcistica non so bene cosa c’entri Marco Merlin, critico letterario di aurea severità, autore di libri dai titoli a tratti esoterici: Poeti nel limbo (Interlinea, 2005), Nodi di Hartmann (Atelier, 2006), La tentazione del metodo (Moretti & Vitali, 2016). Per quel che ne so, Merlin, piagato dai libri, non gioca a calcio.
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Si gioca a calcio come si spezza il pane, per fare comunità, per dare all’atelier la natura del pasto.
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I titoli dei libri di Andrea Temporelli, invece, sono volutamente vintage, risalgono ai tempi e ai lemmi di Gianni Brera, li vedo bene nell’era di Zico, Van Basten, Platini. Nell’era degli individui – non certo degli influencer.
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A differenza di Marco Merlin, Andrea Temporelli – per lo più, poeta; nel 2023, per Interlinea, ha raccolto i suoi testi come L’amore e tutto il resto – non scrive di critica. Egli è un moralista della letteratura, nel senso che condivide l’estro con Seneca e con Zhuang-zi e magari con Giovanni Battista più che con – faccio per dire – Asor Rosa, Berardinelli o Cortellessa. Forse Andrea Temporelli è l’ultimo scrittore morale della letteratura italiana – cioè, uno che ha a cuore la “scienza dei costumi”, la “regola”.
Assist, rovesciate e autogol, infatti, prima di tutto, è una “regola”. Proprio come le regole di vita intorno a cui si impenna e si impernia una comunità di monaci. Se l’atelier è l’officina dove officiano i poeti, atelier ha qualcosa a che vedere con la parola convento. Opera comune. Per fondare una comunità, è necessaria la regola.
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Sfogliando il dizionario etimologico, leggo che uno dei significati per morale è “Pratica del bene”. Ecco a cosa mirano i libri anomali e guerreschi di Temporelli. Anche quando Andrea Temporelli sembra un apocalittico, pronto a lanciare al massacro i suoi angeli bisonti, egli ha sempre come orizzonte il bene. Non il bene astratto – per il quale siamo disposti a compiere ogni male – ma la “pratica del bene”. La messa in pratica. Tirarsi su le maniche e lavorare – con vanga, uncinetto o coltello. Insomma: atelier.
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Da quando conosco Andrea Temporelli – se poi lo conosco – avverto la sua urgenza da ultimo giorno. Andrea non ha un’arca di Noè da aggiogare e su cui imbarcarsi: vuole affogare, vuole sentire il bacio della sirena e il canto della megattera. Vuole sperimentare tutto – soprattutto: lo smarrimento.
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Per dare l’idea di questo libro in quanto “regola”, ricalco alcuni brani:
“La letteratura non è governata dal Mercato, perché ciò che adesso riempie gli scaffali dei supermercati e foraggia le discussioni buone per i quotidiani non è letteratura… Perché non si scrive per compiacere il lettore, ma per attraversare sé stessi e sbucare dall’altra parte, facendo maramao allo spettacolo e persino al successo, alle comodità, all’inerzia del mestiere e della propria identità consacrata”.
“Così anch’io scrivo per dimenticare, per concedermi la grazia del non essere che dischiude lo spazio e lo slancio del non ancora”.
“Si scrive, per lo più, accettando le logiche del sistema. E tutti si credono titani, solo perché osservano la loro ombra allungarsi verso le montagne dei classici. In verità, si tratta di un’illusione ottica: il confronto con i classici è rimosso o ridotto in termini postmoderni, e il giganteggiare delle ombre segnala soltanto il tramonto di una civiltà. Il buio azzererà ogni vanagloria”.
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Andrea Temporelli ha la lucidità di un maestro millenario: a me sembra il depositario di un’antica arte marziale, ormai deposta, e resta nascosto, al refrigerio della propria solitudine.
Da quando lo conosco, Temporelli addestra alla disillusione, a diffidare dal mondano, per concentrarsi nella pratica del bene. Costruire e contemplare. Unico sguardo: quello dello sconosciuto, quello dell’altissimo. Ora et labora. Atelier.
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In questa sorta di libro marziale – Il cielo di Marte è, tra l’altro, il libro d’esordio di Temporelli, uscito vent’anni fa per Einaudi – costruito per capitoli spesso brevissimi, breviario della grande caccia, preferisco Narciso incompiuto. Due pagine di magnetica mischia. Ricopio alcune frasi:
“La strada della carriera letteraria non è il sentiero della ricerca letteraria radicale, profondamente necessitata. La prima è una scelta, la seconda un destino”.
“Chi sceglie di non battere le strade (spesso affollate) della carriera letteraria, con i suoi compromessi, le sue logiche clientelari ecc., deve però combattere contro le rivendicazioni del proprio ego in cerca di compensazioni, alibi, risarcimenti. Non c’è peggior superbo di chi è consapevole della propria nullità”.
“Lamentarsi per la mancanza di successo quando si è perseguita la seconda via, quella della ricerca radicale, è quantomeno un segno di incoerenza. Direi che è il sintomo di un nodo interiore non risolto”.
“Bisogna abbracciare la propria miseria ed essere, francescanamente, felici, allegri come creature dell’infinito, leggeri nell’indigenza, compiuti nella propria fragrante nullità”.
“La scelta di chi davvero si dedica alla letteratura, anziché alla carriera letteraria, è quello di sparire, di bruciare davanti alla propria opera”.
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La prosa assertiva, a misura di katana, di Temporelli, ricorda l’antica trattatistica zen: i testi di Linji, quelli di Dogen. Prosa, cioè, che serva per ammutinare i discepoli – per ammutolire i troppi.
Nel punto più vertiginoso del suo ragionamento, Temporelli scrive che bisogna accettare “di buon cuore, la possibilità di non aver mai brillato di vero talento… ma soltanto di aver contribuito al contesto della ricerca, di essere diventato humus per il genio che verrà”.
È proprio questo, da anni, l’insegnamento più alto e più chiaro di Temporelli. Lavorare disoccupandosi di sé: farsi cibo per chi verrà. Se non è nostro – e non lo è – essere incendio, restiamo almeno coloro che consegnano la fiamma, che passano la torcia. Se non siamo il fuoco, siamone il testimone. Anche questo vuol dire lignaggio, carità nel linguaggio.
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Mi viene in mente che dei poeti-padri della poesia italiana spesso non sappiamo nulla, biografia smangiata dalle brume, per lo più iniqua. Dietro a quelle poesie aurorali, un vero fuoco, un fiammante velo, appaiono ombre, volti in briciola. Penso, ad esempio, a Jacopo Mostacci, forse nato a Pisa, forse tra i falconieri di Federico II – andava ad approvvigionarsi di rapaci a Malta. Penso a Compiuta Donzella, dietro il cui nome, fittizio, si nasconderebbe la prima donna, fiorentina, ad aver composto rime in volgare: di lei ci sono tramandati soltanto tre sonetti, non inferiori in pregio da quelli di troppi rimatori coevi, maschi. “Ché d’Amor sono e vogliolo ubidire”, scrive questa donna che “lasciar voria lo mondo e Deo servire”: cristallina è la sua audacia, esistenza che ghiaccia in sepoltura.
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Ispirazione: imparare a sparire.
*In copertina: Giuseppe Arcimboldo, Il fuoco, 1566