30 Maggio 2019

Sellerio ripubblica Graham Green: ben fatto! Qui un inedito in cui il sommo scrittore inglese ricorda il suo incontro con Borges: “si fermò sul filo del marciapiede e recitò una poesia di Stevenson per me…”

Ben fatto, Sellerio! Ottima la decisione di rilanciare Graham Greene (1904-1991) col romanzo del 1973 Il console onorario. Una classica storia di quel periodo, tra rapimenti e ricatti a generali, ripassata in salsa argentina per gli amici di Greene di quel periodo, capeggiati dalla generosa matrona letteraria Victoria Ocampo e faceva sdilinquire Garcia Marquez. Prima de Il console c’era stato un più breve romanzo, In viaggio con la zia, che sarebbe bello veder nuovamente disponibile invece nada. Prima di questo la leggenda, Il nostro uomo all’Avana, utilissimo per capire come le invenzioni della scrittura anticipino gli avvenimenti. Il romanzo è del 1958, l’invasione della baia dei porci seguì di lì a tre anni. Questo era il Greene affermato come autore, quello che si fece il piedistallo che non gli serviva con Il fattore umano nel 1978 che si apre e si mantiene nel segno di Conrad, facendoti respirare l’aria di Londra come con la bombola d’ossigeno.

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Tutti questi racconti si sono obliati nei ‘Meridiani’ Mondadori, precisamente nel secondo dei due volumi. Quanta cura e premura. Sellerio non ha in animo di riprenderli: giustamente. Occorreva rilanciare le cose un po’ meno note, quelle giovanili del primo mattoncino dei ‘Meridiani’: Una pistola in vendita, Il potere e la gloria (traduceva Vittorini per gli aficionados), Il nocciolo della questione (che mandava in visibilio l’ultimo Orwell) e poi Il terzo uomo e L’americano tranquillo, opere che spaziano dal Messico al sudest asiatico passando per la Vienna della prima guerra fredda. Per tutti i gusti. Però sarebbe stato utile avere di nuovo con Sellerio Missione confidenziale e Quinta colonna. Il tempo farà giustizia a Greene, ma siamo a buon punto per il risarcimento.

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Il suo primo romanzo, L’uomo dentro di me, uscì esattamente novant’anni fa, non è incluso nei Meridiani né Sellerio prevede di ristamparlo. Altra notizia curiosa prima di andare al punto: Greene era molto amico di Mario Soldati che gli dedicò un bestiario di fantasmi, Storie di spettri. Greene passò molto tempo a Capri a scrivere lettere fedifraghe (l’ha raccontato anche un documentario Rai andato in onda poche settimane fa, in seguito a quelli su Dick e Saint-Exupéry). Insomma i legami tra Greene e l’Italia erano tutt’altro che tenui, ma dopo le edizioni ‘storiche’ di Mondadori il nostro ha patito questa marmorizzazione nei Meridiani, cinto da introduzioni alle introduzioni, e buona notte. Chi s’è visto s’è visto. Chi lo leggeva fino a pochi anni fa? Era mai possibile che con una ventina di romanzi, un paio di autobiografie, dei resoconti conradiani di viaggi in Africa e una vita magnetica che attirò le attenzioni del suo biografo inglese (tre volumi in totale) di lui si scrive e si dica poco? Facciamo chiarezza.

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Greene è un autore. In UK le sue prime edizioni vanno a ruba in tutti i negozi di antiquariato. Piace ancora quella copertina da libro popolare che dopo mezzo secolo ancora tiene. Nel tube di Londra mi capitava di incontrare seduto tranquillo un uomo in giacca di velluto e occhiali di tartaruga il quale leggeva Secret Agent di Conradè un buon libro, gli dico uscendo e lui con notevole spocchia (overstatement), con quella sciatta superiorità coloniale, mi risponde lo sto rileggendo. A Londra ci sarà meno nebbiolina che per il passato, ma l’aria è sempre quella della diffidenza e le Carré difficilmente rimpiazzerà i classici Greene e Conrad. E la filosofia degli Inglesi qual è? La menzogna. Soprattutto quella rivolta a se stessi. Se non sai nasconderti la verità, lei scappa e gli altri te la afferrano, ti prendono. Così si capisce meglio la citazione da Conrad che apre Il fattore umano: “Soltanto so che chiunque formi un legame, è condannato”.

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Gli esordi di Greene non furono semplici. Imperava la cricca di Bloomsbury sia in prosa che in poesia. Guarda caso la Woolf spregiava Conrad, taceva di Dickens con la scusante dello stile, mentre Greene idolatrava entrambi questi numi, al punto da lanciare questo giudizio: “quei signori e quelle dame ti portano in un mondo sottile come i fogli delle carte da gioco, e lì Bloomsbury si aggira come re, donna, fante”. Non male. Greene era in fondo abbastanza tormentato, non era uno snob superficiale. Di lui ha scritto il premio Nobel Golding che “era il perentorio cronista dell’ansia di coscienza nell’uomo del XX secolo”. Forse per questo nel 1967 fu a due passi da vincerlo anche lui, il Nobel.

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In ogni caso Greene non era il tipo da mollare la presa. Pubblicò un libro di poesie, Babbling April (Aprile parolaio) nel 1925 e fu stroncato. Il rischio c’era fin dal titolo, che ripeteva un verso della poetessa Edna St. Vincent Millay (Pulitzer per la Poesia in quel giro d’anni): “non basta che una volta all’anno, giù per la collina / Aprile / arrivi come un idiota, blaterando e spargendo fiori”. Insomma una scelta arrischiata, non scontata. E il libro fu bistrattato dal Times che lo definì “pieno di fatterelli inconseguenti e irrilevanti, e pure di qualche parolaccia”.  Greene capì che doveva finire di laurearsi. Materia scelta: storia. La stroncatura presa dal Times a 21 anni non lo disarcionò.

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Tra le poesie di Greene giovane si salva senza pericolo questa, Infanzia : “Dovessi scegliere fra una vita impagliata, / e la poesia / la vita, un bus che trema in una confusione dorata, / luci che salgono al cielo formando una corona mobile, / folla e vetrine di negozi, lampioni, meraviglia; / e poesia  piccolo cavallino di legno / dalle zampe inamovibili / e criniera sempre fuori posto / la mia scelta ti sorprenderebbe e molto, presumo. / Ma di qui: mai persi la mia infanzia”. Interessante questa presa vitalista, poco compassata, poco a sangue freddo puritano – e che somiglianza con il gesto e l’accetta di Majakovskij, quando consigliava a chi volesse scrivere poesie d’amore di prendere un bus dal tragitto tutto buche e scossoni – perché lui Majakovskij avrebbe fatto uscire dal tempo la gente come se si trattasse di scendere da un pullman. Ma sono altre atmosfere.

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Qualche dato sulla famiglia. L’ambiente domestico di Greene è composto da una sorella già dentro il Servizio Estero: era lei la pecora nera e cattolica della famiglia che fa convertire Graham al cattolicesimo a 25 anni (anche) per sposarsi. Poi da vero cattolico avrà pochissimo rispetto per l’istituzione: un donnaiolo, un uomo di mondo, le foto lo ritraggono a suo agio col cocktail in mano. Green non si fermò più. Fu reclutato in MI6 dalla sorella. Fine dell’inciso. (In realtà per doveri di ‘servizio’ fu in Sierra Leone nel 1936). L’autore della biografia di Greene in tre volumacci era Norman Sherry, un professore nordamericano che al terzo volume appone una nota finale di pugno di Greene: poche ore prima di morire, rendeva ufficiale che i materiali privati andavano pubblicati interamente. Lezione di finezza inglese per noi italioti. Tra i documenti: una nota stesa a mano, timbro Whitehall, dove Greene elenca cinquanta donne libere o meno assoldate al piacere. La numero 46 è descritta in modo singolare come ubicata a Piccadilly e di stato ‘single’. Credo che dal cattolicesimo arrivasse a Greene questo senso di pulizia poco puritana che gli fece consegnare ogni possibile traccia al biografo, per il quale è pappa pronta, la via del successo tracciata in mezzo ai relitti.

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Il nemico in Greene è sempre fluido, mentre le Carré lo fissa nel carattere russo (orientale?) di Karla. Però anche Greene arrivò alle stesse conclusioni di Greene, cioè ebbe poche certezze. Guarderà nello specchio, ci scaverà dentro e troverà il nemico: elegante, potentissimo, mentre Greene è una povera rotella di una intelligence occidentale, più impiegato che operatore assoluto della Ragion di Stato (come Misha ne La spia che venne dal freddo, manuale di spionaggio per principianti). Invidia suprema dei britannici, ma invidia intelligente, per l’Oriente. Una delle ragioni per cui molti inglesi andarono con il KGB, a parte quelle di gusti privati, fu che una spia del Comitato era infinitamente più potente di un piccolo e emarginato, fin da allora, operativo delle intelligence occidentali, trattato malissimo da politicanti che lo stanno già immergendo nella merda che loro stessi hanno prodotto.

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Ultimo dato importante prima di dare voce all’inedito in italiano. Greene lanciò un suo drink alcolico. L’idea gli venne nel 1951 mentre era ad Hanoi. Questa la procedura: riempire lo shaker all’orlo con ghiaccio, poi prendere 25 ml di Vermouth, un bicchierino di Creme de Cassis (o simile) e 50 ml di dry gin. Aggiungere un paio di bacche di ginepro. In seguito, versare Vermouth e Cassis, agitarli intorno al ghiaccio, senza preferenze per senso orario o antiorario, per pochi minuti. Quindi aggiungere il vero proiettile: il gin. Agitare ancora. Agitare per poco e quando la superficie è stabile versare in bicchiere freddo per Martini. Cheers!

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Dal lato materno Greene era imparentato con Stevenson. Ora immaginatevi l’incontro tra lui e lo Stevenson argentino, nonno Borges. La loro amicizia fu un fatto reale solo che le due penne di Baricco e Domenico Scarpa l’hanno tralasciata, mentre presentavano l’ultimo volumetto Sellerio de Il console onorario. Facciamo giustizia ai libri, ogni tanto, e recuperiamo In memoria di Borges da Reflections di Greene, era in origine una nota del 1984 per gli Amici anglo-argentini di Londra. Niente di accademico, si capisce, tutta libertà e fantasia. Did you hear me well, publishing houses?

Andrea Bianchi 

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Graham Greene, In memoria di Borges

Vorrei richiamare l’occasione nella quale incontrai Borges. Ero invitato a pranzo dall’amica Victoria Ocampo e fui incaricato di accompagnare Borges dalla Biblioteca Nazionale dove si trovava fino alla casa di lei, per quella sua cecità. Appena la porta si fu chiusa dietro di noi incominciammo a parlare di letteratura. Borges parlava dell’influsso subito da Chesterton (antico) e da Stevenson (recente). Soprattutto dalla prosa di Stevenson. Lo interruppi. Stevenson aveva scritto una bella poesia, almeno una per me, sui suoi antenati che avevano costruito grandi fari lungo la costa scozzese. Sapevo che gli antenati erano materia borgesiana. La poesia partiva così:

Say not of me that weakly I declined
The labours of my sires, and fled the sea,
The towers we founded and the lamps we lit,
To play at home with paper like a child”

Era una strada di Buenos Aires molto affollata e rumorosa. Borges si fermò sul filo del marciapiede e recitò la poesia intera per me, parole esatte. Dopo un pranzo soddisfacente si sedette sul sofà e citò a blocchi notevoli i poemi anglosassoni. Lì temo di non esser riuscito a seguirlo. Ma guardavo la sua faccia mentre recitava ed ero meravigliato dall’espressione dentro quegli occhi ciechi. Non sembravano affatto tali. Come se guardassero dentro di sé. Curioso. E nobilissimo.

Anche Borges, si capisce, sentiva i suoi antenati. I gauchos. Ne sono pieni i suoi ultimi racconti. Ad esempio là dove dice “noi argentini aspiriamo alle pianure sterminate che sono attraversate dagli zoccoli dei cavalli”. Fu uomo di coraggio. Durante il secondo periodo di Peron viveva con la madre e ci fu una telefonata misteriosa a casa loro. “Veniamo a uccidere te e tua madre”. Lei rispose “Ho novant’anni, meglio se fate presto. Per mio figlio sarà facile per voi, è cieco”. Questo, penso, fornisce un’immagine di cos’era la famiglia.

Per me, Borges parla per tutti gli scrittori. Ancora e sempre nei suoi libri trovo frasi che sono la mia esperienza come scrittore. Diceva che la scrittura è “un sogno che guida” ed ebbe modo di scrivere “compongo per me stesso e per gli amici, e per semplificare il trascorrere del tempo”. Cosa che farà sentire vicino a lui tutti gli scrittori.

Graham Greene

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La poesia di Stevenson che fece divertire Borges e Greene è tratta da Sottoboschi, 38 e suona così:

“Non dite di me che ho lasciato perdere come un debole
Le fatiche dei miei maggiori e me ne sono fuggito per mare,
Quelle torri che ergemmo e quelle luci accese in alto,
Per giocare a casa con la carta come un bimbo.
Ma dite semmai: nel pomeriggio della vita
Una famiglia determinata si è pulita le mani della polvere
Di granito, e mantenendo lontani
Dalla costa che risuona
Le sue piramidi e gli alti memoriali
Laggiù a catturare il sole morente,
Sorrideva tutta contenta, e a questo compito puerile dedicava intorno al fuoco le ore della sera”

* la traduzione è di Andrea Bianchi

**In copertina: Graham Greene, calice in mano, con Carol Reed, il regista de “Il terzo uomo” (1949), capolavoro sceneggiato proprio da Greene

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