03 Maggio 2024

André Malraux: scrittore, mistificatore, avventuriero. Critica impura di un antieroe

André Malraux è inseparabile dal suo personaggio e dunque da colui che edifica nei decenni centrali del “Secolo breve” il proprio monumento con il mito dello scrittore avventuriero, compagno di via dei comunisti nella Guerra di Spagna e nel Maquis col nome leggendario di Colonnello Berger, poi militante gollista e infine depositario dei valori repubblicani incarnati, alla maniera di una laica teofania, dalla figura di Charles de Gaulle di cui diviene collaboratore e confidente elettivo. E nulla toglie al rilievo della sua fisionomia la fama di astuto mistificatore nel racconto dei propri trascorsi che leggendo le pagine dei tardi Antimémoires (editi a un anno appena dal maggio del 1968, nel momento di sua massima distanza dai movimenti democratici e dalle lotte giovanili) più d’uno associa a una vera e propria forma di mitomania.

E però lo scrittore, giusto lui che si è sempre tenuto lontano dal contenzioso del dada-surrealismo, ha fatto suo il distico di Charles Baudelaire che chiude Les Fleurs du Mal inaugurando l’età dell’Avanguardia il cui scopo esclusivo è, letteralmente, andare in fondo all’Ignoto per trovare il Nuovo. Due termini, questi, che Malraux traduce nella metafisica dell’azione e perciò di un coinvolgimento (conflitto, colluttazione, lotta in campo aperto) con le cose del mondo dove biografia e bibliografia si richiamano e reciprocamente si intridono rendendosi talora indistinguibili. Non si tratta tanto di una proiezione narcisistica alla classica maniera degli esteti (e troppe volte, in proposito, si sono fatti per lui i nomi di d’Annunzio e di Lawrence d’Arabia) né della riduzione della pagina scritta a pròtesi dei trascorsi biografici, quanto si tratta di un’avventura dello spirito, di un atto di conoscenza in cui l’io e il mondo sono, di volta in volta, mezzo e limite a se stessi.

André Malraux (1901-1976) nella sua casa a Boulogne-Sur-Seine, 1956

Ciò spiega intanto il fatto che la sua immagine pubblica, già all’avvio, svela un credo umanistico del tutto originale perché refrattario alla conservazione di un passato che non sia discernimento e cernita, vale a dire critica in atto e scelta di un’eredità. Malraux non è più un esordiente (da due anni è uscito il suo grande romanzo, bibbia delle generazioni antagoniste, La condizione umana) quando dalla tribuna della Mutualité (nel giugno del 1935 al congresso dell’AEAR, l’organizzazione internazionale degli autori antifascisti) con orgoglio rivendica la sua personale poetica che il tempo non avrebbe in sostanza smentito:

“Un’opera d’arte è una possibilità di reincarnazione. E il mondo della storia non può che acquisire il suo significato nella volontà contingente degli uomini”.

Costruzione di sé e mitopoiesi, Bildung ed espressione artistica entrano in intersezione sia perché lo scrittore getta inesorabilmente un’ombra molto lunga sulla pagina (ed è l’ombra rifrangente dell’intellettuale cosmopolita, del militante, infine del ministro in carica) sia perché la pagina non può che essere da lui ritenuta il frutto di un’azione, differente dalla vita ma consustanziale a essa.

Nella lettura di un saggista che gli fu amico, Nicola Chiaromonte, egli incarna appieno la figura che nel Novecento sembra aver acquisito il tradizionale ruolo del saggio e del santo e cioè l’intellettuale:

“Ma bisogna agire – scrive Chiaromonte –. Il faut parier. Perché, risponde Malraux, non ci si ritira da un’azione nella quale ci si è impegnati: e ritirarsi significherebbe riconoscere che si è recitata una parte, che si è un commediante e non un uomo”.

Prendere la parola, parlare in pubblico, tempestivamente intervenire non è per lui un’obbedienza alle parole d’ordine dell’engagement ma un atto di compiuta vitalità o, meglio ancora, è la testimonianza di una sua personale verità. L’arte oratoria (un’arte di cui Malraux è maestro supremo come testimonia la presente raccolta di discorsi) ne è lo specchio e costituisce la necessaria interfaccia tra la vita e la letteratura propriamente detta, convogliando i ricordi e più spesso i fisici reperti di un vissuto incandescente nei confini di una retorica che riattiva lo stile solenne e la cadenzata gravità di un Bossuet.

Temprato dai trascorsi in Indocina, dalla guerra civile spagnola e dalla Resistenza contro il nazifascismo, l’uomo che pronuncia (nel giugno del ’46 alla Sorbona e per conto dell’UNESCO) uno dei suoi discorsi più tesi e infiammati è appena scampato al momento in cui l’Ignoto e il Nuovo del suo secolo, dopo una lunga incubazione, sono venuti al mondo con violenza squassante. Un filmato di repertorio mostra lo scrittore, pochi mesi prima, all’ingresso della Cattedrale di Strasburgo per il Te Deum della Vittoria: è in giaccone canadese, magro, scavato con la barba di tre giorni, mentre lo sguardo fisso pare si rivolga a un altrove o piuttosto a un pensiero dominante. Il Malraux della Sorbona parla viceversa da un apice istituzionale (egli è stato Ministro dell’Informazione nell’immediato dopoguerra e fino a pochi mesi avanti) ma ben più articolata è la sua posizione di antifascista, più meditato il suo stesso umanesimo. Un tempo vicino ai comunisti, se durante la Resistenza ne ha conosciuto l’eroismo degli attivisti di base, prima in Spagna e poi al momento del Patto Molotov-Ribbentrop, ha invece potuto appurare il cinismo di Stalin e dei dirigenti dei partiti satelliti quali il PCF di Thorez e Duclos. Rivolgendosi specialmente agli studenti, richiama l’universalismo dei valori repubblicani per collocarli oltre gli antagonismi di classe e al di là delle divisioni sociali e politiche. Al momento, sente che proprio l’eredità umanista è minacciata, ipotecata dall’incipiente Guerra fredda e perciò, lui perfettamente laico, osa definire alla maniera di Benedetto Croce “cristiana” e pascalianamente “tragica” quell’idea sopravvissuta alle macerie, tuttora esposta a un mondo diviso, ostile, armato fino ai denti:

“è assolutamente indifferente, per voi studenti, il fatto di essere comunisti, anticomunisti, liberali o qualsiasi cosa d’altro, perché l’unico vero problema è sapere, al di là delle strutture, secondo quale forma possiamo ricreare l’uomo. […] L’erede di un cristianesimo propizio è Pascal. L’eredità dell’Europa è un cristianesimo tragico”.

Se interpretato a posteriori l’incontro tra Malraux e de Gaulle sembra avere del predestinato. L’uno è infatti il responsabile di una letteratura nativamente vocata all’azione (tanto da far equivalere per proverbio le due attività, come afferma La condition humaine in un passo celeberrimo), l’altro è innanzitutto un soldato ma nello stesso tempo è lo scrittore, e qui va aggiunto un raffinato scrittore, che compone l’imponente ciclo dei Mémoires simulando con eleganza cartesiana lo stile dei Commentarii di Giulio Cesare. L’approdo al gollismo di Malraux non è affatto un’abiura ma, al contrario, è un compimento. Perché certamente Malraux è stato nel decennio anteguerra vicino ai comunisti ma senza essere né un dottrinario né, tanto meno, un osservante stalinista: semmai, ha potuto riconoscersi nel libertario marxisant con qualche venatura di trotzkismo. Adesso, ai suoi occhi, il Generale è la République in cammino ed è il vivo suggello della storia inaugurata da Giovanna d’Arco come afferma a chiare lettere nel discorso di Orléans (maggio 10 del ’61) pronunciato da Ministro degli Affari culturali o, piuttosto, da ambasciatore itinerante del suo Generale: perché l’uomo che vi esalta l’epica della divina Pulzella (“Fu più facile bruciarla che strapparla all’anima della Francia”) è il ministro che il suo grande committente incarica di visitare da ambasciatore le figure eponime dei paesi in via di sviluppo, quali Nehru e Mao Zedong di cui pure largamente si discorre negli Antimémoires, un’opera, sia detto per inciso, di straordinaria complessità ma in genere così sottovalutata e vilipesa da indurre il sospetto non si tratti invece del capolavoro in cui l’autore, al costo di essere sgradevole e prolisso, fornisce al lettore con astuzia deliberatamente autolesionista la chiave per decostruire la mitografia che gli ha appena presentato.

A cinque anni dalla morte del Generale, in un’intervista lo scrittore dirà con un’iperbole rivelatrice che de Gaulle è il socialismo “passato attraverso la nazione”. E circa un rapporto così singolare, notando che “non vi è forse esponente della letteratura francese, dopo Chateaubriand e Victor Hugo, che abbia a tal punto badato a edificare da vivo la propria statua”, Maurizio Serra aggiunge con acume che “dopo l’incontro con de Gaulle, Malraux sarebbe diventato il cantore di una resistenza che, a differenza di quella comunista, era nata subito dal rifiuto della disfatta”. Pure se in un primo momento attendista anche lui, Malraux riconosce a France libre e all’Appello del Generale trasmesso dalla BBC il 18 giugno del ’40 un’assoluta primazia, il venire allo scoperto e a mani nude nello stesso momento in cui il Patto Molotov-Ribbentrop disarma per un lungo tempo l’antifascismo comunista che è costretto a ripiegare sulle posizioni di un ambiguo “pacifismo” in quanto tale denunciato da Paul Nizan (immediatamente espulso e diffamato dal Partito comunista francese), lo scrittore che era stato suo compagno nell’AEAR ma anche un severo recensore della Condition humaine. Perciò il discorso di Chartres (10 maggio del ’75) scritto per il trentesimo anniversario della Liberazione dai Campi assume, sia detto ora per allora, anche il valore di un testamento.

Affilato nella dizione, teso e scandito come una grande preghiera dei morti, Malraux, tornando ai tempi della disfatta e dell’occupazione nazista, rivede in una luce livida i suoi martiri, i compagni caduti del Maquis, quel popolo di ombre di cui dice alla lettera il film L’Armée des hombres (in italiano – titolo improvvido – L’armata degli eroi, 1969), autentico capolavoro di Jean-Pierre Melville che di France libre fu un affiliato della prima ora. Commosso, nel suo discorso il vecchio resistente rammenta che allora l’ideale del boia era che le vittime si impiccassero da sole per orrore di se stesse e intanto rivede il suo Generale, appena dopo la catastrofe, mentre aspetta in solitudine sul marciapiede della Gare de l’Est l’arrivo del “primo convoglio di spettri”. Lì André Malraux ritorna al legame primordiale e lì confessa il vincolo che decide il senso della sua scrittura e della vita stessa, a futura memoria:

“Ascolto frusciare intorno a me l’immenso sciame dei morti. Non l’ho abbandonato”.

Massimo Raffaeli

*L’autobiografico Antimémoires è edito in Italia come Antimemorie, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 1967, mentre il saggio di Nicola Chiaromonte, Malraux e il demone dell’azione, è in Credere e non credere, Bompiani, Milano 1971, p. 144. Il ciclo autobiografico di Charles de Gaulle s’intitola Mémoires, édition de Marius-François Guyard, introduction de Jean-Louis Crémieux-Brilhac, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 2000. L’intervista di Malraux su de Gaulle (“L’Appel”, n. 13, 1975) è in Jean-Claude Perrier, De Gaulle vu par les écrivains, La Table Ronde, Paris 2000, p. 197, mentre il rilievo di Maurizio Serra è contenuto nel suo Fratelli separati. Drieu-Aragon-Malraux, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme 2008, pp. 186-187. Del rapporto fra Malraux e Nizan tratta la biografia a firma di Annie Cohen-Solal e Henriette Nizan, Paul Nizan communiste impossible, Grasset, Paris 1980, pp. 167-173; del film L’Armée des hombres la monografia di Bertrand Tessier, Jean-Pierre Melville le solitaire, Fayard, Paris 2017, pp. 171-184.

*Si riproduce, per gentile concessione, l’introduzione di Massimo Raffaeli a: André Malraux, “Occidentali, quali valori difendete? Discori”, De Piante, 2024, a cura di Maura Baldini

**In copertina: André Malraux con ‘Jackie’ Kennedy, gennaio 1963

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