“Scrivendo, mi sbarazzo di me stessa – poi posso riposarmi”. Clarice Lispector, mia madre. Parla il figlio, Paulo. “Ha descritto esperienze personali ed emotive che nessuno di noi sapeva di possedere, di avere al proprio interno”
Affascinava tutti. Quando passò da Roma, Giorgio de Chirico la fermò in un ritratto – tratti sfuggenti, angolari, inquieti, da donna dell’Est capitata in Brasile, incongruenza purissima, un cabbalista nella giungla – mentre Giuseppe Ungaretti prese a tradurre il suo primo libro, Vicino al cuore selvaggio. Clarice Lispector s’era accasata a Maury Gargel Valente nel 1943, aveva 23 anni, un diplomatico in carriera: lo accompagnò qua e là per il globo. Gli diede due figli, Pedro (nel 1948) e Paulo (1953), depositario dell’eredità ‘sentimentale’ della madre. “Rinuncerei alla letteratura. Non ho dubbi. Come madre sono più importante che come scrittrice”, scrive Clarice. Nel 1959 divorzia dal marito, rientra a Rio de Janeiro con i figli, pubblica i grandi libri, Legami familiari (1960), La passione secondo G.H. (1964). Nel 1966 un incidente domestico – rosa dal sonnifero, si addormenta con la sigaretta accesa, ne scaturisce un incendio – la lacera, rischia l’amputazione della mano destra, con cui scrive. Lei farà letteratura e agiografia dell’incidente: “Il fuoco mi ha parzialmente distrutto la mano. Le gambe sono segnate, per sempre. Ho passato tre giorni all’inferno, quello dove, si dice, vanno le persone cattive dopo la morte. Non credo di essere cattiva, tuttavia, ho visto l’inferno da viva”. Mi affascina il rapporto che una madre così estrema, riconosciuta tra le grandi menti della letteratura del secolo – in Italia la pubblicano Adelphi e Feltrinelli – ha avuto con i figli. Intorno all’anno del centenario – Clarice è nata il 10 dicembre 1920 – Paulo Valente, il figlio, vaga per fiere del libro a raccontare la madre. Per il “Clarín” lo ha intervistato Verónica Abdala. Ecco alcuni stralci del dialogo.
Il ricordo più immediato.
Con una macchina da scrivere in grembo, che batte, nel soggiorno della casa, tra il chiasso dei figli, del telefono… Un giorno le ho chiesto una storia solo per me e lei ha scritto O mistério do coelho pensante [1967; edito in Italia, singolarmente, come “Il mistero del coniglio che sapeva pensare”, 1994; nel 2005 Donzelli ha raccolto in Come sono nate le stelle alcune “storie e leggende brasiliane” di Clarice, ndr], una storia che mescola finzione e realtà su un animale domestico che scappa dalla sua famiglia e ignoriamo come, perché…
Clarice Lispector incarna l’ossessione di chi legge. Esiste una profonda identificazione tra lettore e opera.
Credo che Clarice ci colpisca perché descrive esperienze personali ed emotive che nessuno di noi sapeva di possedere, di avere al proprio interno. Per me, arte è riconoscere che non siamo soli nell’universo e che l’altro non è poi così diverso. Credo ci sia una identificazione con ciò che lei scrive, che va al di là delle parole.
Sua madre è ritenuta una autrice enigmatica, che ha ideato un’opera inclassificabile, insolita. Perché è ancora un mistero?
In realtà, non c’è alcun mistero. Alcune persone, semplicemente, nascono più sensibili di altre e questo comporta conseguenze buone e meno buone, porta con sé piaceri non ordinari ma anche un vertiginoso livello di sofferenza.
In questo senso, una degli episodi più difficili della sua vita è stata la morte della madre, il fatto di essere stata partorita per curare, come si credeva all’epoca, la sifilide. In queste origini, forse, è la ragione della malinconia che definisce molti scritti della Lispector.
Le storie di migranti e rifugiati sono tutte tristi: parti da un luogo per arrivare in una parte remota del pianeta, in cui si parla una lingua diversa, incomprensibile. Non è un’esperienza semplice, felice, è un impegno che condiziona il resto della vita. È una specie di marchio, il marchio del perseguitato. Penso che mia madre abbia incarnato questa tristezza.
Com’era sua madre?
Non era diversa da tutte le madri del mondo per cui i figli sono la cosa più preziosa: la cura verso di noi era costante. Ora in Brasile vengono pubblicate tutte le sue lettere: in una di queste, Clarice mi spiega come è riuscita a immatricolarmi al corso di Economia, narra le code affrontate nel caldo di Rio. In quei giorni ero lontano dal paese. Lo ha fatto perché era fiera che entrassi in università.
In parallelo, ha avuto una carriera come autrice che ha affascinato il mondo. Qual era la sua intenzione predominante quando si metteva a scrivere?
Voleva confessarsi al mondo. Non le piaceva il giornalismo, tutti gli scrittori in Brasile erano giornalisti benché i guadagni fossero modesti. Mia madre ha detto, “Scrivendo, mi sbarazzo di me stessa – poi posso riposarmi”.