Nel 1956 il Premio Strega va a Giorgio Bassani con Cinque storie ferraresi. Nulla da eccepire: quarantenne, Bassani aveva lavorato per “Paragone” e “Botteghe oscure”, scriveva, occasionalmente, per Luchino Visconti e Mario Soldati; ottimo consulente per Feltrinelli, qualche anno dopo avrebbe pubblicato Il giardino dei Finzi-Contini. In sostanza, non vi fu gara: Guglielmo Petroni – scrittore ora in disfatta – e Carlo Levi (con Le parole sono pietre), lo tallonarono per un po’, ma Bassani, come dire, faceva gara a sé. Tra i concorrenti allo Strega, piuttosto, si segnalano, in quella annata, Angelo Del Boca con Viaggio nella luna e Leonardo Sciascia con il primo libro importante, Le parrocchie di Regalpetra, edito da Laterza. Tra i concorrenti, tuttavia, l’autentico outsider – che dice, anche, di un clima letterario, ideologizzato, magari, ma avventuriero – era Alfonso Vinci con Samatari, viaggio “nella foresta vergine sulle tracce di tribù sconosciute”, edito da Leonardo da Vinci.
Il libro è un reportage anomalo, dal piglio narrativo, non privo di ironia, lungo il Paragúa, in zone fino allora inesplorate dell’Amazzonia, al cospetto dei Samatari, appunto, tribù isolata e aggressiva afferente agli yanomamö. Il libro è il primo e il più importante di Vinci: tradotto, tra l’altro, in Francia, Inghilterra e Germania; ha avuto un’edizione ridotta – e di successo – per Feltrinelli, nel 1960. Vinci si pone con il profilo dell’avventuriero, dell’autodidatta, dell’uomo senza confini e senza filtri, rispetto alla perizia degli accademici:
“Capita sovente che spedizioni di scienziati o esploratori o qualcosa del genere, si avventurino in zone abitate da primitivi, con l’intenzione di studiarli. Si presentano davanti a questi con i preconcetti e le sapienti presunzioni di colui che ha letto tutto su di loro, ed ogni essere umano che appaia sulla riva del fiume diventa un selvaggio, catalogato come una farfalla… I dati scientifici confinano i Sanemà e i Soto in denominazioni barbariche, appellativi di disprezzo, e l’umanità non ha appreso alcuna nozione da questi esploratori di casco di sughero, i quali, appena ritornati nella civiltà, dopo qualche mese di foresta, hanno tutto conosciuto del mondo dei selvaggi e scrivono libri, che se fossero letti e compresi dalle popolazioni primitive delle quali discettano, frutterebbero agli autori una nuvola di frecce”.
Nato a Dazio nel 1915, morto trent’anni fa, nel 1992, Alfonso Vinci inizia come scalatore. Allievo di Riccardo Cassin, membro del Club Alpino Accademico Italiano, aprì vie nel Màsino-Bregaglia e nell’Agnèr. Galvanizzato, da ragazzo, dai romanzi di Emilio Salgari, laureatosi alla Statale di Milano con un lavoro su Friedrich Nietzsche – a cui sommò una laurea in Geologia –, alpino durante la Seconda guerra, partigiano in Valtellina come “Bill”, le imprese più grandi le realizzò in America Latina.
Nel ’46 Vinci molla l’Italia, lietamente schifato, percorre l’Orinoco, si abitua alla foresta; nel 1950 vince il Pico Bolívar, la montagna più alta del Venezuela, impresa che replica l’anno dopo, diventando una specie di eroe nazionale. Gli anni precedenti li passa a cercare – e a trovare – diamanti: impresa fantasmagorica, che fonde scaltrezza a utopia, il talento del mercante e quello del sognatore. Alfonso Vinci pare una specie di Maqroll, la creatura evocata da Álvaro Mutis, trascinata da un destino polimorfico, a remi, che ti dorme sul petto in forma di canoa. Nel 1952 Vinci organizza una spedizione tesa a solcare le grandi vette di Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia; l’anno dopo s’immerge tra i meandri amazzonici.
“Il mondo degli indios, nella loro primitiva concezione, è un bosco senza limiti, attraversato in tutti i sensi da fiumi e corsi d’acqua di ogni genere, la cui destinazione finale non è compresa e neppure pensata. Al centro del bosco ci sono loro, più in là altri indios che pochi hanno conosciuto e dei quali si parla di tanto in tanto. In un certo punto della foresta ci sono gli indios di barba e vestito, di motore e fucile, indios terribili, di alta statura e sempre cattivi e arrabbiati, perché questa è la prima impressione che destano gli occidentali tra le apatiche popolazioni selvagge”.
Ossessionato dalle spirali dell’Orinoco, dalla vita rude, sconfinata, sotto scacco del rischio, nell’egida del giaguaro, Vinci sondò le montagne sacre agli indios, le sorgenti remote. La notizia dello Strega lo trovò che stava organizzando la scalata del Cerro Marahuaca, in Venezuela. Mentre mollava l’epopea delle grandi esplorazioni – ormai irripetibile nell’era documentata, dei viaggi supersonici e del turismo ‘emozionale’ – Vinci scoprì la vena divulgativa: dopo Samatari pubblica Diamanti (Leonardo da Vinci, 1956), L’acqua, la danza, la cenere (Rizzoli, 1973), Lettere tropicali (Mondadori, 1982).
Sulla scia di una grande tradizione che va da Marco Polo a Folco Quilici, da Pietro Sacconi e Giovanni Battista Cerruti a Fosco Maraini, da Giuseppe Tucci a Walter Bonatti, gli editori, all’epoca, cullavano gli avventurieri, consapevoli che la letteratura esiste per sondare l’ignoto. I libri di Vinci, ormai inutili all’antropologo, hanno una freschezza narrativa che salva da un presente inacidito, virtuale, e l’ingenuità di una visione ‘da dentro’:
“Il sapulì, presente in tutte le tribù scirisciana, è lo stregone e medico d’ordinaria amministrazione. Il lahalla è il suo superiore, una specie di sommo pontefice, rarissimo a trovarsi, il quale possiede facoltà taumaturgiche di potenza inaudita… Dotato di poteri inimmaginabili, io ero diventato il lahalla. Lahallatuàn ero chiamato, mentre l’orologio, con il quale io vedevo le ore, predicevo il tempo, studiavo gli itinerari e curavo certe malattie applicandolo alla parte, aveva ottenuto il suo scatto di grado”.
Sapeva dilapidare l’esito delle sue aurifere scoperte, Vinci; su tutto, preferiva la libertà, il dominio sopra la cresta tempo, un’equazione di ombre. Nel 1960, in Olanda, aveva sposato la figlia dell’ambasciatore dei Paesi Bassi a Caracas; diciotto anni dopo tentò la traversata del Borneo, per il gusto di incontrare i Daiacchi, i mitici tagliatori di teste. Nel 2012 il Cai ha prodotto un docufilm, diretto da Michele Radici, sulla sua vita; rari editori di settore – Vivalda, Alpine Studio –, sporadicamente, recuperano i suoi testi, ormai dimenticati.
Paolo Monelli, critico avvezzo alle liete crudeltà, alpino durante la Prima guerra, scrisse di Samatari:
“Non conosco alcun libro, della recente letteratura narrativa o di viaggio, che possa avvincere tanto il lettore, scritto in uno stile semplice e insieme colorato da una persona che prende interesse a tutto, al linguaggio degli indigeni, alle pietre, ai riti, all’andamento dei fiumi, alle formiche, alle termiti, ai serpenti”.
Parola sparpagliate nella gola dell’oblio. D’altronde, chi si ricorda perfino di Paolo Monelli? Alla sua morte, il “New York Times”, era il 1984, scrisse che “per mezzo secolo è stato uno dei giornalisti e degli scrittori più noti e autorevoli d’Italia”. Oggi non lo si pubblica quasi più.