Troppe parole forbite… Piccolo discorso sull’opera di Alessandro Piperno
Letterature
Edoardo Pisani
Morli si chiamava così perché un’anziana signora l’aveva soprannominato con quel nome quando lui era un bambino di cinque anni e viveva con una governante svizzero-tedesca a Torino alla pensione Europa in piazza Castello.
(Alain Elkann, Il silenzio di Pound, Bompiani 2024, pag. 13)
Per dire qualcosa di sensato sull’ultimo “romanzo” dell’arcinoto Alain Elkann, esponente della famiglia che da un secolo comanda l’Italia, grande seduttore di donne del jet-set e a tempo perso giornalista, docente, consigliere di ministri della Cultura e presidente di istituzioni, bisogna andare indietro di un anno: quando Elkann si trovò sciaguratamente a condividere una carrozza del treno Italo diretto a Foggia con un gruppo di giovinastri rumorosi che gli impedirono di «scrivere il diario con la penna stilografica», traumatizzandolo al punto da fargli raccontare l’accaduto al direttore di Repubblica, il quale, fiutando lo scoop, gli ordinò di farci un articoletto “pittoresco” che risultò una mezza cretinata scritta da un ragazzino di terza media, mettendo così in ridicolo l’intero giornale. Ne seguì una polemica ad ampio raggio, che si fece aspra quando il Comitato di redazione di Repubblica, in aperta polemica col direttore Maurizio Molinari, emanò un comunicato sindacale in cui si deprecava il classismo del pezzo di Elkann e si rivendicava l’impegno quotidiano dei giornalisti a favore della gente svantaggiata, e non dei ricconi sprezzanti come il padre del padrone del giornale. Per inciso, è notizia dei giorni scorsi che Molinari è stato infine esautorato dalla direzione di Repubblica proprio dal figliolo di Elkann, stanco dei risultati sempre peggiori nelle vendite e nel gradimento dei lettori.
Se quell’articoletto che fece discutere per una settimana era a livello di terza media, in termini di costruzione e di sintassi, oggi dobbiamo riconoscere che nel breve “romanzo” appena pubblicato da Bompiani, Il silenzio di Pound, la prosa di Alain Elkann segna qualche miglioramento, potendosi ascrivere a un quattordicenne che in prima liceo comincia a prendere confidenza con la redazione di un testo. Peccato, però, che l’intera operazione risulti vergognosamente disonesta, a cominciare dalla veste editoriale del libro, la cui consistenza esteriore di 160 pagine è tutta fittizia, trattandosi in realtà di un “racconto lungo” dilatato nella carta e inframmezzato da enormi spazi bianchi e finti capitoletti di cinque o sei righe. Se la canonica “cartella” editoriale si misura in 30 righe e 60 battute, che nella stampa di un libro viene assorbita in pagine più dense che diventano meno numerose, qui la pagina stampata viene addirittura espansa in modo truffaldino, contando 24 righe e 50 battute in caratteri grandi, con capitoli brevi che occupano lo spazio in maniera studiata per lasciare una quantità di mezze pagine bianche. Una disonestà – condivisa da autore e editore – che dà ai nervi, soprattutto per la pochezza del contenuto, per la sua pretestuosità, per le sequenze di frasi che suonano meccaniche, senza stile, quasi idiote nella loro elementarità inconsapevole.
Va da sé che il giornale di famiglia, La Stampa, all’indomani dell’uscita del libro lancia la sua marchetta recensoria a firma della decana Mirella Serri, dove si decanta lo “scrittore che è stato anche il grande biografo di Alberto Moravia”, che attraverso il racconto “intreccia” la sua vita con quella del poeta Ezra Pound, cercando “di cogliere il significato più profondo dell’esistenza del protagonista del modernismo e dell’imagismo e l’essenza del suo rapporto con Thomas Stearns Eliot” (poffarbacco!). Naturalmente, l’intera recensione è piena di millanterie, a cominciare dalla definizione del protagonista del libro come “docente universitario, scrittore, conduttore di programmi radiofonici”: guarda caso la fotocopia di Alain Elkann, che nelle sue note biografiche elenca le stesse cose. Ebbene, in questo romanzetto non si trova nulla del genere: solo un riferimento a passate docenze, ma nessuna università, nessuno studente, nessuna lezione, niente di niente. Di radio neanche l’ombra, solo una frase buttata en passant; rimane solo la velleità del protagonista di scrivere un romanzo su Ezra Pound, l’artista maledetto che esaltava Mussolini e Hitler. In realtà il protagonista – che si è dato uno dei nomi più stupidi che poteva trovare, si veda in epigrafe – non è nulla di tutto questo: egli è semplicemente uno sfaccendato che gironzola qua e là, sta a casa a ciondolare durante la pandemia, fa qualche passeggiata, chiede ad amici e conoscenti se Ezra Pound è da condannare in toto perché nazi-fascista oppure se l’opera va separata dall’autore eccetera. Cose così, in un procedere che oscilla fra la noia, la supponenza e l’atteggiata ossessione puerile.
Un’altra menzogna spacciata nella marchetta di Mirella Serri è che Alain Elkann “racconta con stile essenziale e anche ironico”: nulla di più falso, perché la prosa di Elkann non è che un susseguirsi di frasi brevi che vorrebbero dare un andamento paratattico, ma riescono solo a cucirsi l’una all’altra con l’elementarità del temino di scuola. Mai una subordinata, mai una consecutio, mai un inciso, mai un’ispirazione o una sfumatura dei concetti, mai una parvenza di stile. Tutto è A o B o C, appiccicato lì con la colla. E l’ironia è completamente sconosciuta, ve l’assicuriamo. L’unico tentativo di lirismo descrittivo risulta patetico, a pagina 9:
“Finiva lentamente l’inverno e nascevano i primi germogli, poi tenere foglioline, i campi diventavano verdi, poi gialli di colza e poi rossi di papaveri e la primavera scoppiava avvicinandosi all’estate. La natura esplodeva, c’erano uccelli di ogni genere che cinguettavano e i conigli selvatici parevano essersi moltiplicati come non mai”.
Qui ci rendiamo conto della balordaggine espressiva, soprattutto nel riferimento ai conigli, che sembra tradire lo spirito del femminiere impenitente di cui narrano le cronache.
Questo protagonista di cui fatichiamo a pronunciare il nome, perché è un nome talmente idiota da farci sentire idioti a nostra volta, “fin da bambino nutriva una passione per i personaggi che avevano influenzato la storia, che erano diventati famosi per aver inventato o fatto cose speciali e per essere definiti genii”. L’ha scritto con due i, avete notato? Oltre all’erudizione qui Elkann ci somministra una piccola saggezza:
“Lui avrebbe voluto essere un genio, una persona con un nome universale, ma sapeva che era un desiderio assurdo perché non si diventa un genio”.
Ad ogni modo, dobbiamo ammettere che a pagina 12 l’autore ci regala una piccola soddisfazione, visto che in Pangea ci si è occupati molto di Ezra Pound: “Per caso Morli aveva cominciato a interessarsi a un personaggio che secondo varie persone influenti era stato un genio” (ringraziamo per la citazione implicita).
“Un uomo che fin da giovanissimo era stato un ribelle, un pigmalione, uno scopritore di talenti e aveva lui stesso un grande talento. Ma prima di proseguire in questa storia è necessario spiegare chi era Morli”.
Ecco, finalmente arriva la spiegazione su chi è questo protagonista. Tenetevi forte:
“Morli viveva a Londra e mangiava quasi sempre al ristorante. Aveva con sé matite ben temperate, una gomma, un temperino e una o due penne stilografiche. Preferiva quelle a stantuffo e spesso viaggiava con una boccettina di inchiostro blu o nero nella vecchia cartella che aveva ereditato da suo padre e che conteneva le cose per lui essenziali: chiavi, quaderni, analisi cliniche, passaporto, medicine, una castagna, due paia di occhiali”.
Sembra il ritratto sputato di Alain Elkann, ne converrete, ancor di più quando si entra nello specifico femminino.
“Il filo rosso della sua vita, a parte i suoi figli, che ormai erano grandi e sposati e avevano a loro volta dei figli, erano state le donne. Attraverso di loro scopriva il mondo, e ognuna gli aveva regalato il suo mondo, la sua storia. Sono le donne che fanno il tessuto della vita e della società, e le donne lo avevano traghettato da una città all’altra, da un’esperienza all’altra”.
Le donne, le donne, le donne: ecco la quintessenza del patriarcato d’antan. Si racconta che in una biografia dedicata a LouLou de La Falaise – musa di Yves Saint-Laurent e celebre modella, che col nostro ebbe una tresca – a un certo punto l’esperta di moda Katell le Bourhis arriva a esclamare: «Ma chi è che non è andata a letto con Alain Elkann? Franchement».
Il vero cruccio di Alain-Morli, in realtà, è la consapevolezza di non essere un genio. “Questo lo tormentava da anni; si domandava se fosse colpa del fatto che non aveva lavorato abbastanza o non aveva creduto abbastanza in sé stesso”. Allora chiede lumi: “Decise di parlarne con Luke, che era il più anziano dei suoi amici, ed essendo un filosofo e un critico dell’architettura capiva meglio di tutti l’architettura di un essere umano”. Più si va avanti nella lettura di questo pseudo-romanzo, più ci si rende conto di quanto infantilismo ci sia nelle soluzioni narrative. Sembra davvero di essere al cospetto di un ragazzino di settantaquattro anni. Ed è imbarazzante trovare un’ulteriore falsità nella recensione-marchetta firmata da Mirella Serri sul quotidiano di famiglia: “Questo libro di Elkann ci offre un bellissimo ritratto della vita quotidiana negli anni bui della pandemia: Morli e la sua compagna viaggiano alla ricerca delle tracce di Pound in un mondo desolato e spopolato. Si spostano da Londra alla campagna toscana a New York e a Venezia, bellissima e completamente deserta”. Ma di quali bellissimi ritratti sta favoleggiando? Anche quando parla delle città l’autore non sa darne un’atmosfera, un barlume di scenario, un’idea, una suggestione, un accenno che abbia qualche consistenza, ne cita solo i nomi: sono a Londra, ora sono New York, e adesso eccomi a Venezia. Le città sono assenti, come anche il resto. Lo stile non c’è, oltretutto la meccanicità della paratassi e l’elementarità del vocabolario indicano come Alain Elkann non riesca a darsi uno stile anche perché non è un madrelingua italiano, quindi non ne ha acquisito lo spirito, gli manca la sensibilità evocativa e discorsiva per poter creare una narrazione nella nostra lingua, quel quid impalpabile che ci rende una cultura.
Ma il capolavoro della marchetta di Mirella Serri su La Stampa arriva verso la fine: “Le conclusioni di Elkann decodificano la sostanza del genio e chiariscono il vero senso dell’opera di Pound, quello più spettacolare e legato alla società contemporanea”. Ebbene, volete sapere come fa Elkann a chiarire il vero senso dell’opera di Pound? Ecco come fa: visto che il poeta è morto, finge di fargli un’intervista e immagina di sedurlo tramite l’amicizia con un personaggio inventato di nome Alfio.
“A Morli interessava il suo Pound, un Pound diverso, immaginato da lui; un Pound umano, fragile, destinato a essere ricordato in modo negativo dalla storia e dalla letteratura. (…) A cosa serviva a Morli fare tante ricerche? Cosa voleva scoprire che non fosse già stato scoperto? Voleva cominciare a scrivere un dialogo inventato con Pound, una lunga intervista immaginaria che doveva essere spontanea come se fosse davvero avvenuta. Il lettore doveva leggere l’intervista come se fosse vera. Era un’impresa complicata, perché la poca disposizione di Pound a parlare rendeva la cosa allo stesso tempo più facile e più difficile (?). Più facile perché Pound sarebbe stato parco di parole; ma quelle parole dovevano essere particolarmente incisive. Cosa voleva sapere Morli da lui? Voleva lasciarlo parlare liberamente e sarebbe emersa la verità che voleva raccontare di sé stesso, raccontata da lui con la sua voce e con le sue parole, non da un estraneo. Voleva sapere chi era, non quello che i biografi, gli storici e i giornalisti avevano detto di lui o quello che si conosceva dalla sua biografia”.
Quindi, per sapere chi era veramente Ezra Pound, per far emergere la verità sul poeta l’intervistatore Alain Elkann – con sprezzo del ridicolo – non trova di meglio che inventare un classico gioco da bambini: facciamo che tu sei il grande poeta e io vengo a farti delle domande, dice all’amichetto, e tu, che sei Pound, rispondi sinceramente mostrando tutto te stesso. Ma non vi sembra sublime? È così che può emergere la verità, dall’invenzione di sana pianta, non certo dalle ricerche degli studiosi o degli scrittori o dei giornalisti che lavorano seriamente. In pratica, si passa dalla protervia inconsapevole all’infantilismo supponente, senza fare una piega. E la sciagurata recensione-marchetta della Serri esplode nel finale: “Elkann si concede la libertà che si può permettere chi lavora con l’immaginazione. E quindi infligge a Pound un’esemplare punizione per il suo antisemitismo, per la compromissione con il nazismo e il fascismo. Una punizione che noi certo non sveliamo qual è”.
Tranquilli, la sveliamo noi la punizione esemplare che Alain Elkann infligge a Ezra Pound. Si trova a pagina 112:
“Fin da piccolo soffriva di noia e anche la sua amicizia con Pound era quello che dalle sue parti si sarebbe definito uno sfizio. Era riuscito a conoscerlo, a sedurlo, a diventargli amico e a far ingelosire Olga, ma poi era andato via. Andato via per sempre perché non voleva legarsi. Sapeva benissimo che il suo rapporto con Pound era unico. E se quel suo allontanarsi avesse fatto soffrire di solitudine l’anziano poeta? Non aveva importanza. Come tutti i seduttori, lui seduceva, e poi la persona che aveva sedotto gli veniva a noia. Aveva bisogno d’altro, di una qualsiasi altra cosa che fosse diversa e nuova. Odiava i ricordi, la nostalgia, il rammarico. Lui non aveva mai avuto paura di perdere perché aveva sempre lasciato un attimo prima”.
Avete capito? Inesorabilmente, emerge ciò che all’autore sembra riuscire bene: sedurre e abbandonare. Dall’infantilismo si ritorna all’adultità tossica. Ora, quando avete smesso di ridere vogliamo mostrarvi un paio di capitoletti-lampo – uno fatto di quattro capoversi a pagina 29 e uno di sei a pagina 30 –, per capire meglio cosa abbiamo di fronte.
Morli chiese a Luke: “Hai conosciuto Pound?”
“No, era già morto quando sono andato a vivere a Venezia. Ho conosciuto a Siena Olga Rudge, la sua amante. Ho conosciuto bene anche suo figlio Omar, eravamo a scuola insieme, ma non aveva simpatia per me.”
“Com’era?”
“Ne parliamo quando ci vediamo.”Morli chiese anche a Pietro cosa pensasse di Pound.
“Come poeta non so. Lui ha aiutato Eliot.”
“Secondo te Eliot era un poeta più importante?”
“Penso di sì. Pound ha scritto un libro bellissimo negli anni trenta, How to read. Se non l’hai letto leggilo. Spiega in modo chiaro e speciale come si deve scrivere. Ma perché ti interessa Pound?”
“Non lo so, è legato al fatto che vorrei capire… poi ti dirò… Tu come stai?”
“Angosciato. Sono in Svizzera e vorrei andare a Parigi a trovare Ada, ma vorrei fare prima il vaccino e non riesco a capire se me lo faranno o meno.”
Infine, non resta molto da dire. Per riassumere in poche parole, abbiamo Alain Elkann che nel 1990 pubblica per Bompiani Vita di Moravia e due anni dopo diventa giornalista. Poiché a quei tempi Alberto Moravia era la Bompiani e la Bompiani era Alberto Moravia, questa biografia gli garantisce honoris causa la pubblicazione presso questo editore di qualsiasi cosa scriva. Una posizione rafforzata dalla sua simbiosi con la famiglia Agnelli, l’unica vera Casa Reale italiana che da cent’anni dispone del Paese a piacimento, e i cui rampolli portano il suo cognome. A questo punto concludiamo, salvo chiedere all’editore Bompiani, sinceramente, se e quante volte si è vergognato.
Paolo Ferrucci