“Il mio amante ha le virtù dell’acqua”. Una poesia di Victor Segalen
Poesia
Giorgio Anelli
Forse esiste una qualità ‘termica’ dei termini. Olocene significa rinnovamento, vuol dire che ‘tutto’ è ‘nuovo’, è la totale novità, la novità tutta che abbaglia ogni altro angolo. Questa novità – stappata poco più di 10mila anni fa – si chiama uomo e dura – in diversi gradi del cristallo – ancora oggi. L’uomo, ritaglio divino, figura ‘nuova’, porta aratri e apocalissi alle caviglie. Ieri sfogliavo una ingombrante enciclopedia rilegata in pelle, avida eredità di qualche nonno.
L’Enciclopedia Motta, reperto degli anni Cinquanta il cui possesso dava il miracolo ignaro di annientare ignoranza e imbarazzo – apri un libro e lì è raccolto tutto lo scibile umano… – alla voce Olocene specifica, “Particolare importanza in questo periodo ha però soprattutto la rapida diffusione della razza umana, che contribuì largamente anche alla modificazione geografica dei terreni e specialmente cooperò alla scomparsa di alcune specie animali”. Non è ecologismo albeggiante o revisione antropologica: si sa, da sempre, che la novità chiamata uomo porta in sé la ferita, la mutazione, l’ostaggio. Eppure, chissà in quale Olocene – che è poi il nostro tempo, ma l’esigenza che ha nome uomo, ora, suppura materia digitale, è già altro e reclama nuovi ricami verbali – si è conficcata Tiziana Cera Rosco. La sua opera, richiamata Holocene – e hole è il buco, l’incavo, il cunicolo in cui il ‘nuovo’ è spirato, concluso, o da dove è scaturito – più che un residuo d’era desunta e scomparsa è una fondazione. Non sai se nei torsi cornificati, nei busti con membra di falco, in quell’aurora di torsioni sia un annuncio – la buona nuova del tempo nuovo, non più a venire ma avverato – o una deflagrazione – ciò che poteva accadere è scaduto con accortezza di delirio. Nella scansione dei calchi e dei plessi ciò che concerta la replica, in realtà, rimuove la luce e s’incava nel negativo: i calchi, rovesciati, non sono più esercito d’uomini sfacciati ma vasi, divinità sgorbie, icone aliene. Vedendo alcuni brandelli di queste opere d’olocene, ho scritto così, a Tiziana, limitando la ‘comprensione’ allo shock. “Di che cosa è abito questa corazza di ossa? La cosa utile è la privazione del rito – neppure una depravazione; il privato dell’osso, ecco, neppure da dire ‘crudeltà’, giustizia. Giustiziato il corpo, l’osso è libero di farsi piumato e una nuova peluria genealogica ha la certezza di irrompere, da ciò che è celato, smesso. Va detto che sembrano ossa che abbiano vissuto tante vite: oppure, toccate dal canino dell’angelo, abbiano subito smesso la pelle, diluita tra le labbra dello Scarnificatore, il dio. Ora, tutto l’osso può essere vaso, può essere il messo e l’onda o lo stanziale. Importante è che non c’è eco di altro: né passato né rimembranza né ulteriore. Non c’è eco. Perciò c’è parola”. Come sempre, si annaspa. Creatura decimata dalle parole, che nasce in ciò che fu poesia – nei testi Calco dei tuoi arti, Il sangue trattenere, Lluvia, Dio il Macedone, Anatomia del Solo, ad esempio – Tiziana ora trova una santità selvaggia dove la parola non è più nastro, ma benedizione australe dei silenti. Artista disciplinata in un dialogo ininterrotto con i mai morti – Kafka, Rilke, Pico della Mirandola, Nietzsche, ma anche le finiture delle cortecce d’Abruzzo, così a fior di labbra – Tiziana, che pure ha sorrisi quotidiani e benedette banalità, mi impila le vertebre proprio quando il tempo, l’uomo, il mondo le mutano in trenta denari. Del suo antro facebook – di solito, per il resto degli eretti, tisana di ovvietà – Tiziana ha fatto un ambasceria di disciplina. Ad esempio, mi trapana questo: “più di tutto una cosa successa in estate, un momento: l’incontro col Ghiacciaio Nero che mi ha sparato un colpo di silenzio nel cervello e nelle ossa. E così mi sento di augurarvi questo: di trovare anche voi un ghiacciaio che azzeri un linguaggio, come si azzera un grande amore. Senza il silenzio di un elemento è difficile essere crudi, senza cultura, selvaggiamente. Spero se lo ricordino le persone che custodiscono le cose come curatori e galleristi, critici, ogni figura medium, noi che siamo teleferiche. Svegliatevi, svegliamoci. Senza cultura ragazzi, selvaggiamente”. L’artista ha un viso da uccello, un cuore piccolo come un cucchiaio, una purezza sfinita, avida. Scavarsi fino a diventare il reperto del futuro remoto, è un’opera. (d.b.)
L’opera di Tiziana Cera Rosco raccolta in “Holocene” è visibile dal 13 gennaio – dalle ore 17 – a Genova, in Piazza Stella 5, presso Via Privata Home Gallery in Satura Art Gallery.