Il contesto: l’Italia durante gli anni di piombo nei secondi anni settanta.
La situazione: dopo la seconda guerra mondiale, si era creata una tregua camuffata da pace; l’Italia era riuscita a rimanere nell’Occidente, ed era divenuta un membro della NATO. La sinistra italiana non poteva accettare questa realtà, né poteva farlo il blocco sovietico. Ma il boom economico degli anni cinquanta e sessanta aveva distrutto qualsiasi speranza realistica di una rivoluzione marxista. Con l’economia che peggiorava nei tardi anni sessanta, e poi con la crisi del petrolio, la sinistra, i sindacati di sinistra, e la sinistra extraparlamentare cercarono tutte di trarre vantaggio dalla situazione. A suon di picchetti, scioperi, dimostrazioni sempre più frequenti e tumultuose, edifici occupati, e di tutti i mezzi a loro disposizione, un certo numero d’italiani, ingenui ma duri, si persuasero che il destino dell’Italia fosse nelle loro mani piuttosto che in quelle delle due superpotenze e dei loro alleati. Perciò, fecero tutto quanto poterono per realizzare una rivoluzione marxista. I simpatizzanti dell’estrema sinistra – i radicali, quelli che tiravano bombe Molotov e facevano fuoco durante le dimostrazioni – e i terroristi in piena regola, decisero di prendere una scorciatoia, e si dettero alla lotta armata, trasformando le principali città della nazione in zona di guerra.
Tali convulsioni riaccesero la miccia, e cominciò così la “strategia della tensione” – con bombe presumibilmente esplose da agenti italiani (ma non necessariamente), i quali seguivano l’agenda delle organizzazioni straniere o dei governi che non comparivano (“stay-away-gornments”).
Logistica dell’autore: giusto nel mezzo di tutto ciò, da ragazzo, nel liceo più caldo di Milano. Il nuovo anno scolastico poteva cominciare trionfalmente, con uno sciopero, seguito da un’assemblea generale.
Il liceo scientifico Leonardo da Vinci era dotata di quella che oggi è conosciuta come la sala dei congressi della provincia di Milano, un auditorio che accoglie cinquecentoventicinque ospiti ma, allora, con sedili più striminziti, di più. Era sottoterra, proprio sotto la scuola. Gli attivisti politici lo avevano requisito, e trasformato nell’aula magna delle loro assemblee generali.
Io saltavo le assemblee ogni volta che le circostanze me lo permettevano, ma era
prudente non saltarle tutte, poiché eravamo osservati dalla Psicopolizia (per usare il termine coniato da Orwell in 1984), e un saltatore seriale poteva essere un qualunquista o, peggio ancora, un apolitico, passi falsi entrambi.
I relatori alle assemblee avevano preso a cuore la massima latina repetita iuvant. Erano i leader o rappresentanti di vari gruppi di ultra sinistra, come Movimento Studentesco, Lotta Continua, Il Manifesto, Avanguardia Operaia e altri, oltre alla Federazione Italiana Giovani Comunisti.
Il primo oratore esprimeva sdegno per questo o quello (di solito qualcosa di molto topico, che interpretavano come una provocazione fascista o borghese), quindi giurava sostegno alla tale o talaltra causa, e finiva con un elettrizzante incitamento a combattere per tutti i compagni. Dopo un applauso non proprio fragoroso, l’oratore successivo esprimeva sdegno per questo e quello (lo stesso argomento del suo predecessore), poi giurava sostegno alla tale o talaltra causa, e finiva con un elettrizzante incitamento a combattere per tutti i compagni. Dopo un applauso ancor meno fragoroso, l’oratore successivo esprimeva sdegno per questo e quello, (lo stesso argomento del suo predecessore / dei suoi predecessori), poi giurava sostegno a questo e quello, e terminava con un eccitante incitamento a combattere per tutti i compagni. Siccome c’erano diversi gruppi di ultra sinistra, ogni capo rappresentante sentiva che fosse suo dovere politico parlare, così il tutto andava avanti per ore.
Ogni tanto, un roboante “Lenin-Stalin-Mao-Ze-tung!” si frapponeva (per darci la sveglia?); suonava sia ideologicamente appropriato sia ritmicamente accattivante.
Se qualcuno fuori dei ranghi esprimeva un modicum di dissenso, gli o le veniva istantaneamente urlato “boo”, e gli o le veniva tolto dalla bocca il microfono altrettanto velocemente. Se qualcuno esprimeva dissenso effettivo, un accadimento molto ma molto più raro, che da solo valeva la partecipazione all’assemblea, veniva pestato a sangue. E perciò l’armonia regnava suprema nell’aula magna durante tali maratone di libertà di parola.
Quando questa particolare assemblea terminò, lasciai l’aula tutto anchilosato e, come se mi stesse aspettando, m’imbattei in Fletcher (un attivista di estrema sinistra che alla fine diventò un terrorista a tutti gli effetti e che, per ragioni che non capivo, visto che di certo non lo avevo mai incoraggiato, aveva deciso che mi avrebbe fatto da mentore in questioni rivoluzionarie). Avevo cercato di stargli lontano dopo la sua lezione sulle molteplici categorie umane che dovevano essere spazzate via per poter ottenere l’ideale società marxista senza classi, ma inciampare l’uno nell’altro di quando in quando sembrava inevitabile.
“Ehi, compagno!” disse.
Ancora quell’appellativo. “Ehi, come stai?” risposi.
“Sto bene – ma sono preoccupato.”
“Oh, no! Per cosa?” chiesi, mostrandomi interessato.
“Può darsi che ci siano dei neofascisti nei gabinetti,” disse indicandoli. “Vai a controllare, compagno, e fammi sapere cos’hai scoperto.”
“Vacci tu,” pensai, ma invece mi sentii dire: “Consideralo fatto,” e all’interno dei gabinetti marciai stoicamente.
Non si muoveva una foglia, e comunque a dire il vero non ce n’erano. I gabinetti erano piuttosto grandi. Mi sarei preso tutto il tempo per ispezionarli. Non avevo paura, ero piuttosto sul riflessivo, forse come risultato della stimolante assemblea alla quale avevo partecipato.
Nei gabinetti c’era puzza di urina e di quell’altra secrezione umana; inoltre, altra cosa prevedibile, non c’era traccia dei fantomatici neofascisti.
Quando uscii, trovai Fletcher esattamente dove lo avevo lasciato. “Allora?” mi chiese, ansiosamente.
“Non c’è nessuno lì dentro,” dissi. “I neo fascisti se la sono squagliata. Che peccato, compagno.”
Mi riservò lo stesso sguardo dell’insegnante compiaciuto dei progressi del suo allievo.
Mentre tornavo a casa, a piedi, poiché i mezzi pubblici erano spesso inutilizzabili per via degli scioperi, fui fermato dalla polizia. Niente d’insolito in questo; succedeva tutti i giorni, a volte anche due volte al giorno.
La polizia e i carabinieri come categoria erano uno strano gruppo. Molti venivano dal mezzogiorno rurale e poverissimo, dove la scelta era fra arruolarsi o morire di fame. Avevano subito un acuto shock culturale mentre, nello stesso tempo, erano già traumatizzati. Esili, bassi, spaventati, confusi, e di solo pochi anni più grandi di noi, o in alcuni casi ragazzi come noi, ci odiavano perché, a differenza di loro, ci stavamo facendo una cultura (insomma, di tanto in tanto); perché non eravamo contadini; e perché parlavamo italiano senza il loro pesante accento, del quale erano diventati acutamente consapevoli, poiché a casa parlavano esclusivamente nel dialetto del loro paese d’origine, e di cui erano ora imbarazzati. Ci percepivano come esseri privilegiati di un altro universo, il che non faceva che fomentare il conflitto di classe e il razzismo. Ad esempio, il termine usato da molti settentrionali per definire i meridionali era terroni, termine tanto offensivo quanto nigger in America; i poliziotti e i carabinieri l’avevano sentito raramente o addirittura mai quando vivevano ancora nel mezzogiorno.
E c’era di più, la cosa più importante di tutte – il sospetto strisciante che dovevano provare di essere dalla parte sbagliata delle barricate: anche loro erano proletari, forse erano i veri proletari ma, durante le dimostrazioni, dovevano sopportare la furia distruttiva di una moltitudine di militanti invasati, e per poche lire.
Nessuna meraviglia, quindi, se la polizia e i carabinieri erano abbattuti e attoniti allo stesso tempo. Non c’era possibilità che potessero contrastare ogni reato, e ciò comportava che la criminalità comune prosperava. E – ci credereste? – non amavano affatto la gioventù. Si basavano sull’equazione: giovane maschio abile, capelli lunghi, blue jeans = più che sospetto. La cosa arrivava fino a ciò che oggi si chiama “profiling razziale”, un serio passo falso nel decalogo della correttezza politica. A quei tempi la correttezza politica significava che ti avrebbero sparato alle gambe invece che al petto, come gentile avvertimento che t’inducesse a desistere dalle tue attività. Tali attività potevano consistere nell’esprimere il tuo dissenso come professore d’università, investigare alcuni compagni-che-sbagliavano come giudice, o ficcare il naso dove non dovevi come giornalista. Molta di questa gente veniva gambizzata (sparata nelle gambe), mentre altrettanti venivano direttamente ammazzati.
Io, e decine di migliaia di altri ragazzi della mia età, subivamo il profiling razziale giornalmente. Ecco perché la polizia fermava me e la mia criniera ondulata, talvolta puntandomi una mitraglietta, chiedeva la mia carta d’identità, e poi mi faceva aspettare per una mezz’oretta. Inoltravano via radio i miei dati al quartier generale per vedere se ero o meno su qualche loro lista nera. Nel frattempo, mi prendevano in giro nel loro accento pittoresco, e parlavano fra loro in un dialetto a me misterioso, sperando che reagissi in qualche modo. Qualunque cosa avessi detto diversa da “Sì, signore” o “No, signore” avrebbe dato loro un pretesto per arrestarmi e trascinarmi fino alla più vicina stazione di polizia per accertamenti, ovvero ulteriori investigazioni. Ben indottrinato dalla Psicopolizia dell’estrema sinistra, tuttavia, riuscivo sempre a rimanere calmo. Alcuni amici e mie conoscenze non erano altrettanto composti e, portati in qualche stazione, sperimentavano la loro parte di brutalità poliziesca, sebbene non avessero fatto alcunché.
Perché non mi tagliavo i capelli? Perché, in quel caso, i militanti dell’estrema sinistra mi avrebbero potuto scambiare per un neo-fascista, e mostrare ancor meno civiltà della polizia. I capelli corti erano un altro passo falso del decalogo. La scelta era fra essere vessato dalla polizia o finire col cranio fracassato. Era più sicuro sembrare un attivista di sinistra.
Guido Mina di Sospiro
*Guido Mina di Sospiro è l’autore, tra l’altro, di “L’albero” (Rizzoli, 2002), “La metafisica del ping-pong” (Ponte alle Grazie, 2016) e “Sottovento e sopravvento” (Ponte alle Grazie, 2017). I suoi libri sono tradotti nel resto del mondo.
**l’articolo, in origine, è stato pubblicato in inglese su “New English Review”, tradotto in italiano da Patrizia Poli