05 Giugno 2019

“Ne avevo piene le tasche delle persone, così ho abitato in una casa galleggiante sul Po”: Gianluca Barbera dialoga con Davide Bregola di burattini, verità, letteratura e scrittori di successo (i più simpatici)

Davide Bregola sembra un angelo, nell’aspetto e nei modi. Ma chi lo conosce bene (è il mio caso) sa che in lui c’è un diavoletto corrosivo e implacabile sempre pronto a balzare fuori. Al suo occhio non sfugge nulla. Di ogni persona o situazione sa cogliere in pochi tratti l’essenza, il lato comico o se preferite grottesco (tutti ne abbiamo uno, nonostante l’importanza che a volte ci diamo). Il suo sguardo di scrittore si situa tra Leskov (Il viaggiatore incantato), Eichendorff (Vita di un perdigiorno) e l’Huckleberry Finn di Twain. Ma naturalmente risente anche di molto altro, come spiega lui stesso nell’intervista. Bisogna però fare attenzione alle sue parole, perché a volte ci si scotta. Bregola è uno scrittore di strada, un osservatore panico, dotato della capacità di trasferire ogni cosa sulla pagina con meraviglia e incanto, e una certa dose di imperdonabile felicità. È un globetrotter della letteratura, che girovaga da una parte all’altra della penisola, infaticabile, solare, eterno Peter Pan, con la sua disarmante umanità sempre tra le mani. Questo e molto altro, credetemi, è Davide Bregola, scrittore mantovano (ma nato a Bondeno, in provincia di Ferrara), vincitore nel 2017 del Premio Chiara coi racconti La vita segreta dei mammut in Pianura padana (Avagliano), e che vanta un esordio rimarchevole: nel 1996 esce nella storica antologia Coda con due racconti (Frenchi Fagiano è un tecnovillano e Gioventù sonica); tre anni dopo si aggiudica il Premio Tondelli, vero e proprio segno di riconoscimento per un autore.

Caro Davide, in esergo a Fossili e storioni, tua ultima opera, è riportata una frase di Robert Macfarlane che mi ha fatto riflettere. Davvero un luogo può insegnarci qualcosa su di noi? E come?

La citazione è tratta da un libro e non dice esattamente “insegnare” dice “cosa so io di un luogo che non posso sapere da altre parti…” dice “sapere”, quindi. C’è molta differenza tra insegnare e sapere. Io non sono per l’insegnamento ma per la sapienza.

Che cosa ti ha spinto a trascorrere sette mesi su una casa galleggiante ancorata lungo il Po? Dimmi la verità.

Dovevo fuggire da qualcuno, forse dai miei stessi demoni. Inoltre ne avevo piene le tasche delle persone. Ho viste e ascoltato veramente troppa gente in questi ultimi due anni. Dovevo purificarmi, ripulirmi dal blabla generale. Molto faticoso, per me, incontrare molte persone senza idee. Mi spossa.

Ci trascorrevi anche la notte? Non avevi paura?

C’erano rumori sconosciuti, bui diversi dalla città. Fatta l’abitudine poi a un certo punto diventa tutto rassicurante. C’è da dire inoltre che lì la golena e il paese sono molto vicini. Il Po in altre città è molto lontano dai centri abitati. A Sermide, Felonica e tutto il ferrarese spesso il campanile della chiesa si rispecchia nell’acqua del fiume. Non fa paura dormire su una brandina cullati dalla corrente dell’acqua.

Da quella esperienza è nato Fossili e storioni. Notizie dalla casa galleggiante, edito da Avagliano e uscito da poco. Che bilancio trai di quella esperienza? Qual è la cosa più importante che hai imparato e che ti resterà?

Ho scritto il mio primo reportage narrativo. È una scrittura molto diversa da quella di un romanzo perché non c’è una trama a orologeria. C’è quel che accade. Accadono molte cose, bisogna affinare i sensi per capire cosa riportare e cosa scartare. Ti accorgi che tante cose che pensi, tante parole che senti, sono inutili. Scrivere da lì significa trovare subito soluzioni coerenti ed efficaci per provare a riportare tramite la scrittura qualche descrizione, dialogo, narrazione, sensati. Alla fine mi resteranno le storie narrate dagli avventori.

I luoghi cambiano la prospettiva? O contano di più le persone?

A me è il luogo e la voglia di stare in quel luogo che mi aiuta a trovare interessanti le persone. C’è un genius loci in ogni luogo. Ognuno di noi ha una predisposizione migliore in alcuni luoghi rispetto ad altri. Lì ero a mio agio, anche il becchettio di un picchio mi ispirava. Bastava poco per far scaturire la narrazione.

Nel libro compaiono diversi personaggi. Hermes il barcaiolo, che sembra sapere tutto di quei luoghi e col quale compi delle scorribande sul fiume. Jenny la cantante, che si presenta ogni tanto per “parlarti di sogni” e per interrompere il tuo romitaggio. Sono i momenti più belli. E alla fine sembra che sia sempre l’uomo a illuminare le cose, perfino la natura.

Sì, per noi è sempre l’uomo a fare andare avanti la trama. Penso sia il nostro pregio e la nostra condanna pensare all’universo antropocentrico. “Dopo di noi, il diluvio!” diceva Madame de Pompadour a Luigi XV che guerreggiava contro i prussiani. È un po’ così per ognuno di noi. Non pensiamo che se l’uomo sparisse la natura non farebbe nessun dramma. Non ci pensiamo mai che se ne frega di noi, è matrigna!

A un certo punto parli di spleen padano. Tu ne sei da sempre un cantore, fin dai tempi dei “tecnovillani” (termine da te coniato) e dei tuoi primi racconti, per arrivare alla tua ultima opera narrativa, La vita segreta dei mammut in Pianura padana (Premio Chiara 2017). Puoi fissare in pochi tratti, con un’immagine o un aneddoto quella particolare atmosfera che caratterizza gli stralunati abitanti della Pianura padana, celebrati anche da Celati?

Baudelaire aveva avvalorato nella seconda metà dell’Ottocento la poetica dello spleen di Parigi. Erano piccoli poemi in prosa, scritti con arguzia e precisione, nei quali emergeva un sentimento di malinconia, insoddisfazione e noia ammantate di poesia e grazia, leggerezza e sorpresa. È un registro che mi si addice assieme alla figura del Flâneur. Direi che se dovessi dire in due parole quel che sono, direi: ho l’indole del Flâneur che, invece di vagare senza fretta tra le vie cittadine, osserva e ascolta, con calma, a volte oziando, l’Italia profonda, fatta da piccoli paesi sperduti e campagna. I personaggi, assieme al paesaggio spesso “corrotto” dal lavoro dell’uomo, mi incuriosiscono e mi viene voglia di scrivere. Guardo uno un po’ strano e mi viene voglia di costruirci sopra la sua vita, vedo una statua gigante del Cristo Redentore di fianco a un Motel a Bergantino (Ro) e mi viene da chiedere perché? Provo ad associare l’uomo “strano” al Cristo sul modello del Monte Corcovado, e scatta la narrazione… Mi faccio sempre due domande: Perché? e In che senso? Se le risposte non sono ovvie parto con la scrittura.

Tieni atelier di scrittura a casa tua e in giro per l’Italia e organizzi spettacoli di burattini per i bambini. Burattini che si sei fatto costruire su misura. Dirigi anche delle collane per alcuni editori. E insegni all’università, se non sbaglio. Puoi parlarci di queste tue esperienze?

Sì, tutto il mio progetto ha un fine ben preciso. Non agisco random, ma ogni aspetto del mio procedere sottende l’idea della forza generativa della narrazione. Al POLIMI, alla Facoltà di architettura, ho un contratto annuale di 100 ore in cui insegno ai ricercatori, non agli studenti, a raccontare le ricerche che stanno compiendo. Sono persone già laureate che hanno intrapreso temi di ricerca e devono provare a raccontarli. Spesso all’università si arriva a un tale grado di specializzazione e linguaggio settoriale da essere incomprensibili. La narrazione aiuta a sbrogliare il bandolo della matassa e a riformulare i propri pensieri e le teorie. La narrazione è un esercizio mentale che auguro a tutti di incontrare nella propria vita perché può mettere chiarezza dentro di sé. Rientra nell’idea del potere della narrazione anche tutta la serie di seminari e atelier che tengo in giro in biblioteche, scuole, enti pubblici e privati. A casa mia non li faccio più, perché ora ho un mio spazio, un ufficio, e ogni 4 mesi organizzo lì seminari per il fine settimana con un ristretto numero di persone selezionate. I temi sono antichi: Miti, Archetipi, Origini delle parole. Tutto finalizzato alla scrittura. Sono temi fuori moda, argomenti che non si ritrovano sui manuali di scrittura creativa o alle scuole di scrittura, però sono i temi fondativi dell’immaginario che porta alla scrittura. Ci sono argomenti che non possono essere trattati sui libri, hanno bisogno dell’oralità, e io da qualche anno a questa parte faccio questo. Non grazie ai libri, ai manuali, ma nonostante i libri e i manuali.

E i burattini?

I burattini nascono come idea didattica attraverso i quali insegno ai bambini della scuola Primaria a immaginare, inventare, creare poesie, raccontini, rime. I burattini e in genere il teatro di figura, sono delle grandi macchine narrative. Divertono e insegnano allo stesso tempo. C’è tutta una scuola didattica su questo, e grazie a magie, pupazzi, burattini, mi ritrovo a scuola davanti a centinaia di bambini, a parlare di Toti Scialoja, Queneau, Palazzeschi, e tanti grandi artisti che ho il piacere di proporre ai più piccoli.

Del tuo lavoro di consulente editoriale che mi dici?

Dirigo un paio di collane per due differenti editori. La Daimon per Il Rio editore è una collana in cui inserisco dentro rarità e fuori catalogo di classici: Saint-Exupéry, Rimbaud, Twain, Jerome, Austen, Maupassant e molti altri. In francese li traduco io, in altre lingue trovo i testi e li passo a qualche traduttore. Mentre per Oligo ho fatto partire una collana di narrativa chiamata χρυσός in cui cerco autori che rispetto per la loro scrittura, per la loro biografia, per il loro immaginario. Ho già i primi due titoli del 2019 che sono inediti di Roberto Piumini e di Helga Schneider. Il primo è già uscito, la seconda uscirà in autunno. Insomma una gioiosa macchina narrativa che prende forma dalla scrittura e si sviluppa anche nel resto.

Sei una strana figura di scrittore, un vero outsider, nel nobile senso dato al termine da Colin Wilson e non solo. Prova a descriverti: che tipo uomo e che tipo di scrittore sei?

Sai quante volte provo a guardarmi estraniandomi dalla mente? Mi guardo con un processo metafisico, da fuori. Ho l’indole di chi vuole sapere le ragioni di ciò che accade e avviene. Da sempre dove c’è la massa guardo, e mi sposto. Nei gusti culturali, artistici, nelle scelte di vita… guardo dove vanno tutti, guardo dove va la maggioranza, e cambio strada. La maggioranza non ha mai ragione, nel senso che ha “ragione” sul momento, e solo per certi argomenti. Ma il momento dura poco. Adesso sembra che un algoritmo possa capire tutto di noi. In verità l’algoritmo si basa su statistiche matematiche e valuta l’individuo come consumatore. Mai come essere umano. Così, da ragazzo, mi appassionavo in ciò che veniva pubblicato da Shake editore, dalla casa editrice underground Nautilus di Torino: Burroughs, Hakim Bay, le culture alternative, i pirati, il Situazionismo, le zone temporaneamente autonome, le BBS (i siti ante litteram, prima dell’avvento di Internet), la Mail-Art, Mille Piani di Deleuze e Guattari, Raoul Vaneigem, Alfred Jarry, Artaud. Seguivo la cosiddetta controcultura, perché la cultura dominante non mi stimolava per niente. La controcultura mi faceva venir voglia di fare cultura e così fin da ragazzo organizzavo associazioni culturali, incontri, dibattiti. Sempre lontano dalle istituzioni, lontano dalla politica convenzionale. Penso che il mio tratto più significativo sia di assumere per partito preso opinioni e atteggiamenti contrari o in contrapposizione a quelli della maggioranza.

Già, ti conosco abbastanza bene per sapere che è così…

Naturalmente è una posizione scomoda e poco redditizia. Funzionano i Gialli? Io scrivo reportage narrativi. Vanno i romanzi? Io scrivo racconti. Tutti si occupano di montagna? Io scrivo di acqua. Bisogna fare una sola cosa per essere riconoscibili e fidelizzare? Io ho un disegno totalmente diverso e dissipo, sparpaglio, consumo, regalo idee a chi non ne ha senza recriminare alcunché. È di moda la scrittura idiomatica? Io scrivo in un italiano letterario. Non è una presa di posizione razionale, è la mia natura, è un’attitudine. Così facendo non si ottiene nulla, solo che si precorrono i tempi. Spesso si sanno cinque anni prima i gusti della massa o i posizionamenti individuali nel mondo culturale. Direi che è una forma di preveggenza…

Sei stato per molti anni direttore artistico del Festival del racconto di Carpi. Hai conosciuto molti intellettuali e scrittori, italiani e stranieri. Conoscendoti, immagino che la maggior parte ti abbia deluso, incontrandoli. Quali sono quelli che ti sono sembrati all’altezza della loro fama o che ti hanno folgorato? Un paio di nomi…

Gli scrittori che apprezzo di più sono gli scrittori defunti. Hanno scritto, hanno vissuto. Non possono deluderti umanamente perché non li conoscerai mai di persona. Sinceramente, avendo fatto per dieci anni prima parte del comitato scientifico di un festival e poi il direttore artistico, li ho conosciuti tutti. Quelli che mi sono più simpatici sono gli scrittori di successo. Quelli che arrivano, come Valerio Massimo Manfredi, in Maserati con interni in pelle rossa, fanno il loro incontro davanti a centinaia di persone e si va assieme, dopo l’incontro, a parlare di Adriano o Marco Aurelio o della Mètis di Zeus. Oppure come quelli alla Sveva Casati Modignani che arrivano con l’autista, parlano di trame davanti a lettrici infervorate ed esigenti e si cena con due foglie d’insalata scondita e un bicchiere d’acqua a temperatura ambiente. Li adoro. I più deludenti, che assurgono a valore di mediocrità, sono quelli senza patente, che arrivano in pullman, devi andarli a prendere alla fermata del bus, non hanno i soldi per il caffè. Magari un libro l’hanno pure azzeccato. Di solito è il libro d’esordio. Ma è fortuna, non c’è nessun disegno nel loro operare. Adoro gli scrittori ricchi, appagati.

Qualche amore a prima vista?

Eccome. Sono stato folgorato dalla poetessa Mariangela Gualtieri. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Come sei bella/o!”. Anche con Tahar Ben Jelloun è stato amore a prima vista: ad andare in giro con lui per l’Emilia tra interviste, risate, torte e aceto balsamico, c’è da divertirsi. Magari vincerà pure il Nobel, vuoi mettere? In generale, ora come ora, apprezzo molto le persone ricche e gli imprenditori. Mediamente hanno molto più gusto e intelligenza rispetto alla media. Se dovessi pensare a chi ce la farà in futuro, con questa crisi, potrei scommettere sui ricchi e gli imprenditori di successo. I poveri si scanneranno tra loro, i ricchi e i sapienti, come fece Noé, s’innalzeranno sopra al diluvio, galleggiando sopra a tutti gli altri.

Viste tutte le relazioni che hai sviluppato in ambito letterario, dovresti essere una addentro alle cose, invece mantieni una tua distanza. Perché? Cosa pensi del mondo editoriale italiano e dei premi letterari?

Quando vado a una fiera del libro impiego dieci giorni per riprendermi. Non ci vado più. Vedere ciò che per te è vitale buttato lì come la mozzarella nel reparto frigo o una vite della Brico, ti mette una tristezza infinita. Il mondo editoriale ha poca immaginazione, le persone meno creative che abbia mai conosciuto appartengono a un ambiente che dovrebbe avere l’invenzione e la creatività come stile di vita. Invece… ognuno deve prendere ordini da qualcun altro che è un po’ più in su e così tutto è bloccato. Intanto il mondo va avanti.

Quali sono i tuoi autori di riferimento, se ne hai?

Alla fine mi sono sempre stancato di tutti gli autori. Ne faccio una fissazione, poi l’interesse scema. Nel frattempo ho appreso qualcosa. Una decina di anni fa per fare lo snob dicevo persino che i miei autori di riferimento erano Richard Bach, quello del Gabbiano, e Sergio Bambarèn, l’autore de “Il Delfino”. Lo dicevo perché sono scrittori da milioni di copie vendute e sono sempre stato affascinato dagli autori di pochi libri di successo: Saint Exupéry, Collodi, Gibran. Seriamente invece, adesso apprezzo molto René Daumal sia come studioso che come narratore e amo la poesia di Osip Ėmil’evič Mandel’štam. Mi nutro molto di poesia negli ultimi anni, anche la poesia in prosa. Il decadimento della nostra società italiana è andato di pari passo col disinteresse nei confronti della poesia. Sicuro.

Quanto conta per te la felicità? O hai bisogno di essere malinconico, depresso o arrabbiato col mondo per scrivere, come capita a molti?

Una felicità ha senso se porta da qualche parte, cioè se apre possibilità. In inglese, happy, “felice” e happen, “succedere”, sono parole apparentate. In italiano felicità, felicitas in latino, deriva da una radice indoeuropea, e dall’accadico, ma in definitiva ha a che fare con la mammella e l’atto di succhiare. Per cui felicità, semplificando, indica l’appagamento del bambino quando succhia il seno materno. Già svezzato, per fortuna! Quando scrivo devo essere semplicemente entusiasta.

Cosa sono per te il bene e il male, se esistono? E nel mondo c’è più dell’uno o dell’altro?

È un problema antico, no? Che va di pari passo col giusto e con lo sbagliato. Nel secondo e terzo capitolo della Genesi Dio dice: Quell’albero lì lasciatelo stare. L’albero del giusto e dello sbagliato, lasciatelo perdere. Non cascateci anche voi… ragionate in base a quello che sentite e che non sentite. Ragionate in base a quello che sentite così così o sentite meno. Moltiplicate i fattori di giudizio, non riportate tutto a questa sciocca dicotomia giusto e sbagliato, bene e male, perché vi rovinate tutte le storie del mondo. Poi vi sentirete bloccati e non saprete più cosa fare. Finirete che anche vedendo una zanzara vi chiederete se è giusto ammazzarla oppure no, così vi sentirete stupidi, non in grado di giudicare le cose, e vi potranno fregare come vogliono, in tutti i modi, perché sarete talmente confusi sulla semplice alternanza bene e male che vi imbroglieranno, vi faranno ingoiare tutte le schifezze del mondo prendendovi in giro come quelli che fanno il gioco delle tre carte. Qui invece c’è il gioco delle due carte: giusto e sbagliato. Bene e male. Purtroppo non hanno ascoltato Dio. Dicono che è stata Eva a cascarci per prima. Comunque hanno assaggiato e siamo nei guai per quello. Quell’albero lì, quella mela, in una ipotetica analessi, non sarebbe da assaggiare, l’uomo dovrebbe disinteressarsene completamente.

E la verità? Esiste? Ed è così importante o contano di più altre cose: per esempio l’etica?

Anche la questione legata alla Verità è uno di quei temi “trappola” come “Amore”, “Realtà”, “Cultura”, “Morale”… sono parole che sentiamo e usiamo ogni giorno, così facilmente comprensibili che sembrano ovvie e scontate per tutti. Se però ci addentriamo nelle sfaccettature di questi termini, scopriamo che non si arriva a una situazione definitiva. Sono trappole, sono parole vuote. Veritas ha una radice come Var– che significa “credere”. Capisci che se verità significa credere, non è più quel che pensavamo significasse, ma Verità è un atto di fede. In russo fede si dice vera… Quando dico: Quella è la verità, nel profondo è come se mi dicessero: credici. Abbi fede. Ma io non voglio credere, io voglio la verità… ma verità significa “credere” e io allora a cosa devo credere? Di cosa devo aver fede per sapere la Verità? Se un politico o un creatore di opinioni mi dice: “La verità”, e io non la metto in discussione, come società alimento tutti quegli idola theatri legati alla cattiva comprensione, e la verità diventa una credenza, un atto di fede. In Italia, quindi Verità significa “fidarsi”, ma anche l’inglese true cioè vero nella lingua antica è “fidarsi”. Capisci come agisce nella mente delle persone la “verità” come “fede”, come fiducia? È un concetto dispotico, che non dipende da te, ma dall’esterno. È impositivo, dittatoriale. Per quanto riguarda l’etica, sarebbe un’abitudine, un costume, una consuetudine, un carattere. Per chi lavora con l’immaginazione, con l’arte, con la creazione di storie, con una visione, l’abitudine, il costume, dovrebbero essere letali come la peste nera. Parlare di “etica” include un senso di colpa di fondo. Etica non è la Morale, bensì presuppone un comportamento individuale. C’è un’etica del criminale, con delle sue razionali espressioni, rispetta certe sue personali esigenze, che non sono quelle della Morale. Mi viene da pensare che nella costruzione di un personaggio bisognerebbe lavorare sull’edificazione di una sua etica. Se uno è privo di etica, rischia di obbedire a una morale, ossia a un comportamento dettato dagli altri. È chiaro che farà molta fatica a vivere perché cercherà sempre l’approvazione degli altri e ne sarà imprigionato. Nella nostra vita la morale e l’etica sono un’ansa del fiume in cui è meglio non ficcarsi!

A cosa stai lavorando: puoi dircelo? Parlo di nuovi libri o progetti letterari…

Ho appena finito di scrivere una novella di 80.000 battute ambientata dal 1979 al 1981. Sto scrivendo un romanzo lungo, con una trama a capitoli alternati in cui ci sono marionettisti, gitane che gestiscono un circo, leggi razziali e Giorgio Bassani ventenne.

Quale vorresti che fosse il tuo epitaffio? Come vorresti essere ricordato?

C’è un bellissimo libro sugli epitaffi greci del periodo ellenistico. Una Spoon River di tanto tempo fa. Da me sarebbe bello leggere: “Ha cercato di sedurre la Musa Calliope”.

Ah ah, molto bello! Che altro dire, se non che ti ringraziamo per ogni tua parola. C’è molto sale, in te. Alla prossima. E che il tuo bosco cresca rigoglioso come promette, sempre di più.

Gianluca Barbera

Gruppo MAGOG