10 Febbraio 2020

“La domanda è sovversiva, il silenzio disturba”: nel deserto, insieme a Edmond Jabès

Inalare il deserto. Confortare in labirinto l’alveo dell’alba. Chiudersi nell’anello di una indagine infinita. Non altra è l’iniziativa del poeta se non sporgersi verso la lama della lettera. “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione. Allo stesso modo è sovversiva la domanda. Infatti chi interroga non urla mai, perché è insicuro… La domanda è sempre al di sotto dell’urlo… La parola del libro è sovversiva: perché è una parola dal silenzio”, dice Edmond Jabès, più maestro che poeta, ad Alberto Folin (l’intervista, del 1985, ora è in: Edmond Jabès, Il libro delle interrogazioni, a cura di Alberto Folin, con un saggio di Vincenzo Vitiello, Bompiani, 2015).

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Se Yves Klein è penetrato in modo marziale nel blu, Edmond Jabès, interstellare profeta del mistero, si è conficcato nel bianco.

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Non si è poeta se non nell’attimo del silenzio, dove la parola, a fior di labbra, può fiorire in qualsiasi alfabeto – perché il verbo è gesto prima che senso, canto che precede ogni norma, ogni sfida.

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Nul L’Un, detta Jabès: intrico continuo, serpeggiante, tra Nulla e Uno; farsi nulla per entrare nell’uno. Si è unici unicamente annientandosi.

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Il libro delle interrogazioni è il solo libro ‘di poesia’ che vada interrogato. Così: aprilo a caso, a occhi chiusi, dona sostanza al libro passando le dita, leviga la lingua sui denti, fermati al radioso mignolo.

“Sono la parola alla tua portata

e impaurita.

Tu mi chiami.

Saprei risponderti se tu cessassi di affermarlo?”.

Poco prima:

“Maestro, disse un giorno Reb Vidor a Reb Goetz, è vero che il deserto discende fino all’anima e che la passione, in origine pianta delle sabbie, ci spinge a lasciare il luogo del suo passato per una promessa di foresta o di giardino?”.

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Edmond Jabès fa fiorire, nei suoi libri, rabbini rari, cauterizzati dal sogno, il caglio di una sapienza astrale. Jabès sta all’incrocio tra Borges e Beckett, deviandoli: non celebra la cultura, la infiamma; cava dal non-senso un bagliore da parola ultima, il tremore bianco.

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Nasce al Cairo nel 1912, il 16 aprile, in una famiglia ebraica, abbiente. La sorella Marcelle, più grande, muore nel 1924, “Quel giorno ho capito che c’era un linguaggio per la morte, come c’è un linguaggio per la vita. Non si parla a un morente come a un vivo. La sua parola è diversa”. Nel 1964, a Roma, si suicida il fratello, più grande anche lui. Come la vita, anche la morte sancisce un multiplo esilio nell’esistere di Jabès: “Al cimitero di Bagneaux, nel dipartimento della Senna, riposa mia madre. Al vecchio Cairo, al cimitero delle sabbie, riposa mio padre. A Milano, nella morta città di marmo, è sepolta mia sorella. A Roma, dove, per accoglierlo, l’ombra ha scavato la terra, è sotterrato mio fratello. Quattro tombe. Tre paesi. La morte conosce frontiere? Una famiglia. Due continenti. Quattro città. Tre bandiere. Una lingua, quella del niente”. Dopo l’infanzia di “cielo azzurro – senza ricordi”, gli studi, tra Egitto e Francia, la scoperta di Rimbaud, l’amicizia con Max Jacob. Viaggia a Gerusalemme durante la Seconda guerra – è antifascista, i suoi posseggono passaporto italiano. Lascia l’Egitto, nel 1957, per sempre, per la Francia, optando per una tenda nell’esilio – diventa cittadino francese dieci anni dopo. Nel 1992, la morte. Restano libri esigenti, distillati d’incertezze, radici che sondano le tibie di Dio: Il libro della sovversione non sospetta, Il libro dei margini, Il libro dell’ospitalità, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato.

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Di Jabès hanno scritto in moltissimi, da Blanchot a Derrida, perché la sua scrittura è, in effetti, una abitazione. Vuota. Il poeta ha fatto uno scavo, il vuoto, una raggiera di cunicoli, per far sì che altri lo abitino. Nel 1977 di lui ha scritto Paul Auster, sulla “New York Review of Books”: “Negli ultimi anni nessun poeta francese ha ricevuto più attenzione critica ed elogi di Edmond Jabès… A partire dal primo volume de Le Livre des Questions, pubblico nel 1963, Jabès ha creato un nuovo e misterioso modello di opera letteraria, sbalorditiva, di difficile classificazione. I suoi scritti hanno un posto tanto centrale che Derrida si è esposto a dire che ‘negli ultimi anni nulla è stato scritto in Francia che non abbia il suo precedente nei libri di Jabès’”. In Italia, l’esegeta straordinario di Jabès è Antonio Prete, che ha scritto: “Il Libro per Jabès modula in mille modi l’assenza di Dio, un’assenza irrevocabile, originaria, costitutiva dell’essere, e questa privazione diviene ritmo dell’apparire, anima stessa delle cose. Il Libro replica l’esilio dal senso, l’orfanità delle parole. Un’orfanità da cui muove l’apertura della domanda, lo stato di ascolto lungo il cammino”.

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Per talento di Gianni Scalia, Il libro delle interrogazioni viene in Italia nel 1982, nella traduzione di Chiara Rebellato, edito da Marietti. L’introduzione a quei tomi è di Massimo Cacciari che in un saggio dal titolo sbilenco (Il bianco e il nero) scrive: “La scrittura di Jabès è assolutamente lontana da quella ‘mistica’ cui siamo abituati, che è una scrittura procedente per aneliti, desideri, rimandi, attraverso l’emotività profonda dell’alludere. Quella di Jabès accosta parola a parola, proposizione a proposizione; la sua sonorità è mono-tona; ‘guarda vivere la parola’ distaccata dalla frase; fa-deserto intorno ad ognuna; distende un interminabile, accecante bianco tra nota e nota”. Piuttosto, la poesia di Jabès non è ‘liturgica’: egli dispone l’aula al rito, senza saggiarne le leggi e gli analecta, sarai tu, lettore, a doverlo adempiere.

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Intendo dire che la poesia di Jabès non è poesia – è canto ininterrotto. Non c’è possibilità di indulgere nel giudizio, non c’è indulgenza. Bisogna animare il canto per far accadere qualcosa – si è nella gola del canto, ingoiati.

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Non si viene a capo di nulla, non c’è cima ma l’incipit dello smarrimento – come si sonda, se non snodando l’alfabeto fino a una millesima quota d’acqua, una pozza, dove ghepardo e angelo, specchiati, sono lo stesso?

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Tutto sta a definire il diverso tra deserto e ghiaccio, tra esodo e Antartide – da un lato Dio inspira, dall’altro espira. Scrivere come costruire una sedia – senza comodità, nel quadrivio del comando. (d.b.)

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Nuovi dialoghi tra sapienti e invitati occasionali con la partecipazione di Yukel Sérafi

Disse: Il bene ci colma, il male fa il vuoto. E pensava: Il niente è il male.

Disse: Il male è talvolta l’abito del bene. E pensava: La stella è l’ornamento e il bottone dell’ampio manto delle notti.

Disse: Il bene è la nudità – per opposizione al manto. E pensava: Il bene è il dono del vuoto; il male, l’abbandono.

Disse: Il niente votato al niente, è il male. E pensava: Il vuoto allacciato al vuoto, è il bene?

Disse: Il male è il naufragio, l’incendio. E pensava: L’acqua non è il bene? E il fuoco?

Disse: Il fuoco non brucia il cielo? La pioggia non affoga il cielo? Così, il fuoco, la pioggia, l’ombra sono il male. E pensava: Il bene è il mattino degli occhi, la pioggia fertilizzante e l’ombra del sonno.

Disse: Il bene e il male hanno le stesse carte, godono delle stesse complicità, possiedono le stesse armi. E pensava: Il male è l’avversario del bene. Nemici giurati, gemelli nell’uomo e nel mondo, il loro potere è uguale. La loro astuzia, la loro temerarietà, identiche.

Disse: Possiamo essere il male o il bene. Siamo l’uno e l’altro; ora la punta della spada, ora la venatura della foglia. E pensava: Così, il disordine è lo sradicamento dell’ordine; così la menzogna è il vento contrario che la verità affronta. L’ordine nasce dalla piaga medicata e la verità, dalla ferita inferta alla tempesta.

Disse: Così, l’amore è la fortuna dell’amore.

Disse: La rivolta, colle della collera – Reb Assayeh non ha scritto: Guarda. Il colle è il vaso dove si schiude il pugno di Dio? – domina le nostre esistenze. E pensava: Si può raggiungere la cima del colle?

Disse: Il pugno di Dio, minacciando il sole, abbaglia la morte. E pensava: La rivolta è la vertigine del sogno, dove fonde l’acciaio dell’ascesa.

Disse: Più in alto, dove l’oggetto s’innamora del bastimento, prossimo ripiano di virtù. E pensava: Dove il culmine contesta la propria altezza, la morte abolisce l’assurda misura.

Disse: L’oggetto è l’alba, il getto. E pensava: La rivolta che si nutre di eccessi è figlia della morte.

Disse: La vita riduce la rivolta a grano di riso. E pensava: La morte abbraccia la risaia.

Disse: È l’uomo capace di un vasto respiro? E pensava: Il petto dell’uomo è prigione di vita.

Disse: L’uomo si compie nel superamento di sé. La morte lo rende l’uguale di Dio. E pensava: Là dove la morte ci trascina, l’impossibile diventa possibile.

Disse: Non sorridere più, non è essere morti? Cessare di pensare, non è esere morti? Avere gli occhi chiusi, tacere, seppellire le mani, non è non vivere più? Rinunciare al cammino, non è aver perduto la terra? E pensava: Abbiamo camminato senza segnare il suolo. Abbiamo fatto il giro del mondo. La morte ci ha confuso. Lo sguardo, il sorriso, il gesto sono faro, ripiano, tappa, dove la vita ci consuma.

Disse: La morte è la vita piena proposta a chi dispera di vivere. E pensava: La morte, dove Dio va miracolosamente incontro a Dio.

E Yukel disse:

Il cerchio è riconosciuto. Spezzare la curva. Il cammino raddoppia il cammino. Il libro consacra il libro.

Edmond Jabès

Gruppo MAGOG