02 Aprile 2021

“Compagno Berija, mi rivolgo a Lei per sapere di mio marito e di mia figlia…”. Una lettera di Marina Cvetaeva

Lavrentij Pavlovič Berija era georgiano, come Stalin. Entrato nella Čeka nel 1920, diventò l’esecutore spietato dello stalinismo, dirigendo, dal 1938, l’NKVD, il ministero degli affari interni, ovvero la polizia segreta. Fu ucciso, senza processo, due giorni prima del Natale 1953; Stalin era morto in marzo e lui, in privato, si vantava di averlo avvelenato. Quell’anno “Time” gli dedica la copertina: sotto il mezzo busto francamente feroce, la dida, Enemy of the people. Marina Cvetaeva scrisse, tra il 1939 e il 1940, tre lettere, “su grandi fogli a righe in stampatello perché fossero facilmente leggibili”, a Berija per perorare la causa del marito e della figlia, arrestati nell’ottobre del ’39, l’anno in cui, con il figlio ‘Mur’, la poetessa ritorna in Unione Sovietica. Le lettere, rintracciate tra le carte dell’NKVD da Mael Fejnberg e Jurij Kljukin, nel 1992, costituiscono una pagina importante nella storia, lacerante, dei rapporti tra il regime sovietico e i suoi scrittori. Una di queste lettere – che qui è ricalcata in larga parte – è stata edita su “Millelibri” (numero 59, dicembre 1992), nella traduzione di Claudia Sugliano (che nel 1987, per Archinto, ha tradotto l’epistolario tra Boris Pasternak e Ariadna Efron, la figlia di Marina). Di fronte a Berija, con severa nobiltà, Marina Cvetaeva redige una stilizzata autobiografia, testa a dimostrare – fin dalle radici – la ‘fedeltà’ all’Urss da parte sua e del marito. I dettagli, la passione, il desiderio di proteggere i cari (e il seguente destino di perdizione) commuovono. Marina, d’altronde, è la donna dei carteggi mutilati, delle ininterrotte relazioni interrotte: l’epistolario con il marito, “144 missive conservate in un’unica busta, fu sottratto a Efron durante la perquisizione che ne precedette l’arresto”. Russo ‘bianco’, pare che Efron, all’estero, fosse stato coinvolto in azioni di controspionaggio. In ogni caso, a dispetto della lettera di Marina, “Efron fu condannato a morte il 6 luglio 1941 e fucilato insieme con altre 135 persone il 16 ottobre dello stesso anno, giorno in cui i tedeschi si stavano avvicinando a Mosca” (Sugliano). Serena Vitale, in Deserti luoghi (Adelphi, 1989) riporta la voce secondo cui “sarebbe stato lo stesso Berija a tirargli un colpo di pistola dopo un interrogatorio”; fosse così, la tragedia sarebbe multipla. Qualora l’eco dell’ombra della lettera della Cvetaeva fosse giunta al cospetto di Berija, essa ha agito forse da grilletto, da detonatore? Dalla lettera si comprende, piuttosto, l’estraneità di Marina Cvetaeva dalla Storia, con integrale violenza: inaccettabile in Russia, era male accetta nei gruppi dell’emigrazione russa. Come si sa, sola, la Cvetaeva si uccide, il 31 agosto del 1941. “Sono molto malata, non sono più io. Ti voglio un bene infinito. Capiscimi: non potevo più vivere. Di’ a papà e ad Alja – se li vedrai – che li ho amati fino all’ultimo momento, e spiega loro che ero finita in un vicolo cieco”, lascia scritto al figlio. Sembra una lotta impari quella tra il potere, celebrato dalla crudeltà, e il poeta, che arde nel vuoto, fino all’ultima sottrazione, la più intima. Questa lettera ha una dignità regale: il poeta è il riscatto.

***

23 dicembre 1939

Compagno Berija, mi rivolgo a Lei per la questione di mio marito, Sergej Efron-Andreeev e di mia figlia, Ariadna Sergeevna Efron, arrestati l’una il 27 agosto, l’altro il 10 ottobre 1939.

Ma prima di parlare di loro, vorrei spendere alcune parole su di me. Io sono la scrittrice Marina Ivanovna Cvetaeva. Nel 1922 sono andata all’estero con il passaporto sovietico e vi sono rimasta – in Cecoslovacchia e in Francia – fino al giugno del 1939, vale a dire 17 anni. Non ho assolutamente partecipato alla vita politica dell’emigrazione, vivevo della mia famiglia e dei miei scritti. Ho collaborato soprattutto con le riviste “Libertà della Russia” e “Annali Contemporanei”, ho anche pubblicato sul giornale “Ultime notizie”, ma ne sono stata allontanata per aver dato apertamente il benvenuto a Majakovskij. Insomma, fra l’emigrazione sono stata ed ero considerata un’isolata (“Perché non torni nella Russia sovietica?”). Nel 1936 durante tutto l’inverno ho tradotto per il Coro rivoluzionario francese (Chorale Révolutionnaire) canti rivoluzionari russi, vecchi e nuovi, fra cui la Marcia Funebre (“Voi siete caduti vittime della lotta fatale”), e tra le canzoni sovietiche, quella tratta da “Ragazzi allegri” e molte altre. Le mie canzoni sono state eseguite.

Nel 1937 ho riacquistato la cittadinanza sovietica e quindi, nel giugno 1939, ho ottenuto l’autorizzazione a fare ritorno in Unione Sovietica. Sono tornata insieme al mio figlio quattordicenne, Georgij, il 18 giugno 1939, a bordo della nave “Marija Uljanova”, che trasportava profughi spagnoli.

Le ragioni del mio ritorno in patria sono l’ardente desiderio di tutta la mia famiglia: di mio marito Sergej Efron, di mia figlia Ariadna Efron (partita per prima nel marzo 1937) e di mio figlio Georgij, nato all’estero, ma che fin da piccolo sognava l’Unione Sovietica; il desiderio di dargli una patria e un futuro, il desiderio di lavorare a casa mia. E la totale solitudine nell’ambito dell’emigrazione alla quale ormai da molto tempo non mi legava più nulla.

Alla consegna dell’autorizzazione mi venne riferito verbalmente che non c’erano mai stati ostacoli al mio ritorno.

Se è necessario partire dalle mie origini, io sono la figlia di Ivan Vladimorovič Cvetaev, professore emerito dell’Università di Mosca, filologo di fama europea (scoprì un antico dialetto, sono opera sua le Iscrizioni in lingua osca), fondatore e curatore del Museo delle Belle – ora Museo delle Arti figurative. L’idea del museo è sua, come tutto il lavoro legato alla creazione di esso: la ricerca di mezzi finanziari, la raccolta di collezioni originali (fra cui una di pittura egiziana tra le migliori al mondo, ottenuta dal collezionista Mosolov), la scelta e l’ordinazione dei calchi e di tutta l’attrezzatura del museo sono opera di mio padre, l’opera gratuita e amorevole degli ultimi 14 anni della sua vita. Uno dei miei primi ricordi: i miei genitori che vanno negli Urali a scegliere il marmo per il museo. Ricordo i campioni che riportarono indietro. Rifiutò l’appartamento che gli spettava in qualità di direttore, e ne fece quattro abitazioni per gli impiegati. Tutta Mosca partecipò ai suoi funerali – tutti i suoi innumerevoli allievi e allieve dell’Università, dei Corsi femminili di istruzione superiore e del Conservatorio, e gli impiegati dei suoi due musei (per 25 anni fu direttore del Museo Rumjancev).

Mia madre, Marja Aleksandrovna Cvetaeva, nata Mejn, era una valente musicista, il più importante collaboratore di mio padre nella creazione del museo, e morì in giovane età. Questo per quanto riguarda me.

Ed ora mio marito – Sergej Efron. Sergej Jakovlevič Efron è figlio della famosa populista Elizaveta Petrovna Durnovo e del populista Jakov Konstantinovič Efron (in famiglia si conserva una sua fotografia giovanile in prigione, con il timbro: “Jakov Konstantinovič Efron, criminale di Stato”)… L’infanzia di Sergej Efron trascorre in una casa di rivoluzionari, tra continue perquisizioni e arresti. Quasi tutta la famiglia finisce in carcere: la madre nella Fortezza dei Santi Pietro e Paolo, i figli maggiori – Pjotr, Anna, Elizaveta e Vera Efron – in prigioni diverse. Il figlio maggiore, Pjotr, fugge due volte. Rischia la pena di morte ed emigra. Nel 1905 Sergej Efron, un ragazzo di 12 anni, riceve già dalla madre degli incarichi rivoluzionari. Nel 1908 Elizaveta Petrovna Durnovo-Efron, che rischia l’ergastolo, emigra con il figlio minore. Nel 1909 muore tragicamente a Parigi – si suicida – il figlio tredicenne, che a scuola era stato insultato dai compagni, e poco dopo si suicida anche lei. Della sua morte riferisce “L’Humanité” di quel giorno.

Nel 1911 io incontro Sergej Efron. Abbiamo rispettivamente 17 e 18 anni. Lui è malato di tubercolosi. È distrutto dalla tragica fine della madre e del fratello. È molto più serio della sua età. Decido subito di non lasciarlo mai più, qualsiasi cosa accada, e nel gennaio del 1912 lo sposo.

Nel 1913 Sergej Efron si iscrive all’Università di Mosca, alla facoltà di filologia. Ma inizia la guerra e lui va al fronte come infermiere. Nell’ottobre del 1917, dopo aver appena terminato la scuola militare a Peterhof, combatte a Mosca nelle file dei Bianchi e subito va a Novocerkassk, dove arriva fra i primi. Durante tutto il Servizio di volontariato (1917-1920) è sempre in prima linea, mai nel quartier generale. Viene ferito due volte.

Penso che tutto questo sia noto dai suoi precedenti formulari, ma ecco che cosa non può non essere noto: non soltanto non ha mai fucilato un prigioniero, ma ha salvato dalla fucilazione tutti quelli che ha potuto – li prendeva nella sua squadra di mitragliatori. La svolta nelle sue convinzioni fu causata dall’esecuzione di un commissario, avvenuta davanti ai suoi occhi, e dal viso con cui egli andò incontro alla morte: “In quel momento compresi che la nostra causa non era quella del popolo”. Ma come mai il figlio della populista Liza Durnovo si trova nelle file dei Bianchi e non dei Rossi? Sergej Efron lo riteneva l’errore fatale della sua vita. E io voglio aggiungere che si era sbagliato non soltanto lui, ragazzo ancora giovanissimo, ma moltissime altre persone dal carattere già formato. Nel Servizio volontario egli vedeva la salvezza della Russia e la verità; quando si ricredette ne uscì del tutto e non guardò mai più in quella direzione.

Ma ritorno alla sua biografia. Dopo l’armata bianca, la fame a Gallipoli e a Costantinopoli e, nel 1922, il trasferimento in Cecoslovacchia, a Praga, dove si iscrive all’Università per terminare la facoltà di Storia e filologia… Trasferitosi a Parigi nel 1925, si unisce al gruppo degli “Euroasici” ed è uno dei redattori della rivista “Werste”, dalla quale tutta l’emigrazione prende le distanze. Se non sbaglio, già dal 1927 Sergej Efron viene chiamato “bolscevico”. In seguito sempre di più. Dopo “Verste”, il giornale “Eurasia” (proprio in esso diedi il benvenuto a Majakovskij, che era a Parigi), definito dagli emigrati come propaganda apertamente bolscevica. Gli Euroasici si dividono in destra e sinistra. Questi ultimi, capeggiati da Sergej Efron, presto cessano di esistere fondendosi con l’Unione per il Rimpatrio. Non so esattamente quando Sergej Efron cominciò a fare attività sovietica, ma questo deve essere noto dai suoi formulari precedenti. Penso verso il 1930. Ma quello che conoscevo e conosco con certezza è il suo sognare con ardore e fedeltà l’Unione Sovietica e il suo servizio appassionato per essa. […]

Tutto è finito in maniera inattesa. Il 10 ottobre 1937 Sergej Efron è ritornato in gran fretta in Unione Sovietica. E il 22 sono stata perquisita e condotta con mio figlio di 12 anni alla Prefettura di Parigi, dove siamo stati trattenuti per l’intera giornata. All’inquirente ho detto tutto quanto sapevo, e in particolare che Sergej Efron è la persona più nobile e disinteressata del mondo, che ama appassionatamente la sua patria, che lavorare per la Spagna repubblicana non è un delitto, che io lo conosco da 26 anni, dal 1911, e che non so nient’altro… Dall’ottobre del 1937 al giugno del 1939 ho corrisposto con Sergej Efron attraverso la posta diplomatica due volte al mese. Le sue lettere dall’Unione Sovietica erano assolutamente felici – peccato non si siano conservate, ma io dovevo distruggerle subito dopo averle lette – gli mancavamo soltanto io e suo figlio.

Quando il 19 giugno 1939, dopo una separazione di quasi due anni, sono entrato nella dača di Bolsevo, ho visto una persona malata. Né lui né mia figlia mi avevano scritto della sua malattia, una grave affezione cardiaca manifestatasi sei mesi dopo il suo arrivo. Venni a sapere che in quei due anni era stato quasi sempre a letto. Ma con la nostra presenza si riprese: nei primi due mesi dimostra che la sua malattia in grande misura era provocata dalla nostalgia per noi e dalla paura che un’eventuale guerra ci avrebbe separati per sempre… Cominciò ad alzarsi, a sognare il lavoro, senza il quale languiva, iniziò già a prendere qualche accordo con i suoi capi e ad andare in città… Tutti dicevano che era davvero resuscitato… E, il 27 agosto, l’arresto della figlia… E dopo mia figlia, il 10 ottobre 1939, proprio nel giorno del secondo anniversario del suo ritorno in Unione Sovietica, fu arrestato anche mio marito, malato e afflitto dalla disgrazia di lei. […]

Non so di che cosa sia accusato mio marito, ma so che non è capace di nessun tradimento, doppiogiochismo e slealtà. Lo conosco dal 1911, da quasi 30 anni, ma quello che so di lui lo sapevo fin dal primo giorno: è un uomo di grande purezza, abnegazione e responsabilità. Lo stesso diranno di lui amici e nemici… Un uomo ha servito la sua patria e l’idea del comunismo con anima e corpo, con la parola e nei fatti. È malato grave, non so quanto gli sia rimasto da vivere, soprattutto dopo un simile trauma. Sarebbe terribile che morisse senza essere assolto. [Sergej Efron, fucilato il 16 ottobre 1941, venne riabilitato soltanto nel 1956, ndt].

Se si tratta di delazione, cioè di materiali consegnati senza scrupolo e per fare del male, faccia controllare il delatore. Se è un errore, La prego lo corregga prima che sia troppo tardi.

Marina Cvetaeva

*Traduzione di Claudia Sugliano

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