Ogni volta che scriveva, e lo faceva ogni giorno, si sporcava i vestiti d’inchiostro. Iniziò così a scrivere a torso nudo con indosso i pantaloni di un vecchio samue. Solo se qualcuno veniva a trovarlo si metteva anche la casacca. Scalzo però lo rimaneva sempre. Anche oggi scriverà le stesse parole, quelle che ha scritto ieri e la settimana scorsa. Scriverà hin, povertà, scriverà ko, da solo, e hana, fiore. Con i fiori che ha già scritto, mettendoli l’uno accanto all’altro, si potrebbe stendere un tappeto sopra un intero grande giardino.
Fu al Museo d’Arte Contemporanea di Kanazawa che vidi per la prima volta le opere di Yu-ichi Inoue e rimasi stordito dalla loro presenza e forza. Era il 2016 e il museo della città sulla costa del Mar del Giappone aveva allestito un’imponente mostra dedicata al grande calligrafo, uno dei più noti e influenti del Novecento. Il residence dove soggiornavo distava solo qualche minuto a piedi dal museo e quasi ogni giorno capitava che ci passassi davanti e mi fermassi negli accoglienti spazi che offriva, se ben ricordo aperti fino a tardi, a leggere o anche solo a osservare da dietro le ampie vetrate circolari la sera calare sulla città. Era primavera e le giornate avevano cominciato a tendere verso la notte le loro braccia colme di luce.
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Yu-ichi Inoue nasce il 14 febbraio del 1916 ad Asakusa, il vecchio quartiere popolare di Tōkyō. Il padre è proprietario di una botteguccia d’antiquariato. Studia con Ueda Sōkyū, un valente calligrafo le cui innovative opere sono entrate nelle collezioni di importanti musei. Rimane con lui otto anni prima di iniziare a esporre in mostre di calligrafia e arte contemporanea in Giappone, Europa, Stati Uniti, Brasile. L’ultima a cui parteciperà avrà luogo alla Seibu Hall di Shibuya nell’aprile del 1985. Si intitolerà Adam in the future.
Nel 1952 fonda con Shiryū Morita ed altri allievi di Ueda Sōkyū la Bokujin-kai – la compagnia degli uomini dell’inchiostro – con l’obiettivo di prendere le distanze da una tradizione stagnante e far incontrare lo shodō – la via della scrittura – con l’arte contemporanea. L’atto di costituzione avviene nelle sale del Ryoan-ji di Kyoto, tempio conosciuto soprattutto per il suo karensansui, il famoso giardino secco. Il gruppo inizia a dare alle stampe la rivista Bokujin. Dice Yu-ichi:
“Dobbiamo scrivere come vogliamo e cosa vogliamo, senza esclusione di colpi. Spalmare inchiostro sui volti dei vecchi maestri. Smascherare senza pietà l’ipocrisia e la doppiezza che si nascondono in ogni angolo di questo piccolo e stretto paese. Sono strangolato dai soldi. Questo non mi impedirà di fare ciò che voglio. Nessun compromesso, qualunque cosa dicano”.
Nudo o vestito che fosse Yu-ichi non offriva comunque uno spettacolo elegante. Stava chino o accovacciato sopra il grande foglio che aveva steso sul tatami e pareva una specie di enorme ragno, anche gli occhiali che portava sembravano quelli di un ragno. Faceva poi quei suoni con la bocca, grugniti e belati che certo non erano belli da sentire. Un critico d’arte ha scritto che il cuore – kokoro – che ha fatto colare sulla carta sembra un pitone che morde un lupo e che la sua luna – tsuki – non smette mai di spargere in giro gocce di pioggia. Forse cercava il segno di un bambino perduto, forse una specie di innocente idiozia. Quando non scriveva Yu-ichi faceva il maestro in una scuola elementare della Shitamachi.
Ci fu però quel breve periodo a metà degli anni Cinquanta in cui smise di scrivere. Seminava invece intrichi di linee scure su grandi fogli di carta da pacchi. Era come se in quel momento le parole fossero esplose e i loro frammenti si fossero sparsi in giro, dentro e fuori il confine della carta. Un giorno, era l’8 giugno 1955, annotò sul suo diario:
“Mi cola il sudore negli occhi e non riesco più a vedere i miei piedi. Sono appiccicosi di smalto. I giornali che ho steso a terra mi si attaccano sotto alle piante quando cammino, sto finendo la carta, sto finendo lo smalto. Ne ho sulle mani, metto altra carta sopra quella che già c’è, la calpesto e continuo a muovere il pennello. L’inchiostro è schizzato sulle porte scorrevoli, non posso farci niente anche se il padrone di casa non ne sarà contento. Non c’è orizzontale né verticale, non c’è dritto né curvo. Va oltre e non è niente”.
Non durò a lungo il periodo in cui non scrisse, neanche un anno. Forse finì perché, se fosse andato avanti, prima o poi sarebbe esploso anche lui a forza di far esplodere le parole. E perché il padrone di casa stanco di passare le notti sveglio per quello che combinava il suo inquilino – l’andare avanti e indietro come un ossesso, le grida da bestia ferita che lanciava – gli diede lo sfratto. Per non parlare delle macchie d’inchiostro che lasciava dappertutto. Fu quindi costretto a cercarsi una nuova abitazione. Per un po’ rimase in silenzio, poi riprese a scaraventare parole sulla carta. Scrive sha, buttato via, scrive gu, stupido, scrive ancora hana, fiore.
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Con i fiori che ha scritto, mettendoli a seccare tra le pagine, si potrebbero riempire grossi libri. Ma ha anche scritto delle bombe incendiarie che nel 1945 gli aerei americani sganciarono sulla Shitamachi in quello che verrà chiamato il grande raid aereo su Tokyo.
“Scuola di Yokokawa, più di mille persone vi si sono rifugiate, ma adesso l’edificio è circondato dalle fiamme. C’è luce come se fosse giorno. I vetri delle finestre vanno in frantumi, le esplosioni sono terribili. La scuola prende fuoco, è impossibile scappare. I genitori tengono tra le braccia i figli. I figli si aggrappano ai genitori. Solo gemiti giungono in risposta alle grida dei bambini. Le persone inciampano l’una sull’altra, vengono arse vive nelle aule e nel cortile. All’alba finalmente il fuoco si spegne. Cenere e macerie sono tutto ciò che rimane. Le mille persone che c’erano sono tutte morte. Anch’io sono morto quella notte. Mi trovavo in un magazzino rimasto miracolosamente in piedi mentre il resto dell’edificio è crollato. Sono soffocato nel fumo, ma grazie agli sforzi premurosi del preside e di quanti abitavano nelle vicinanze sette ore dopo ho fatto ritorno dalla morte. Questi sono i miei appunti sul raid aereo del 10 marzo 1945 quando le zone residenziali della città furono bersaglio di bombardamenti incendiari indiscriminati che uccisero centomila persone. Come potrei mai cancellare dalla memoria le grida di agonia di uomini, donne e bambini che ho sentito quella notte. Firmato Yu-ichi”.
Sulle punte dei suoi kanji si può udire ancora l’urlo che attraversa le nuvole. Lungo le salite e le discese dei suoi kana si possono ancora vedere i bambini che scappano cercando riparo sotto fragili tettoie d’inchiostro, sentire i loro cuori battere all’impazzata e a poco a poco acquietarsi tra le pieghe della carta. A lungo Yu-Ichi ha scavato tra le macerie con i grandi pennelli che da solo si costruiva, diceva per liberarsi di un oscuro passato, diceva per lasciar libero lo spirito riducendo a zero il Sé.
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Saigusa Takayuki, poeta nato nel 1944 a Kofu nella prefettura di Yamanashi scrive che per rimettersi in piedi, per provare a rinascere, l’uomo deve scavare tra le macerie. Takayuki nomina Hiroshima che un anno dopo la sua nascita viene soffiata via da una nuvola che oscura il cielo del mattino, nomina Nagasaki a cui capita lo stesso tre giorni dopo, pensa ad ogni posto che la follia dell’uomo continua a ridurre in macerie.
Quando la sua salute iniziò a peggiorare Yu-ichi mise da parte, sembra su consiglio del medico, i pesanti pennelli con i quali era solito scrivere per passare a segni più sottili e formati più contenuti. Ma l’impeto con cui utilizzava carboncini e matite non gli permise dl risparmiare energie come il medico avrebbe sperato. Troppo furiosamente scriveva, fino a farsi sbriciolare il carboncino tra le dita e spezzare le mine alle matite. Se sbagliava una parola la cancellava tirandoci sopra una riga e andava avanti senza interrompere il movimento della mano. Guardando quello che ha scritto sembra di sentire ancora l’affanno nel suo respiro.
C’è una foto, una delle ultime se non proprio l’ultima che gli è stata scattata. Lo si vede di spalle mentre si incammina verso il posto alla fine del giardino dove bruciava le opere che aveva scartato. Ha decine di fogli accartocciati sotto braccio, una manciata di parole il cui fumo di lì a poco sarebbe salito in alto riunendosi al vuoto del cielo. Ha bruciato migliaia e migliaia di parole, soprattutto nel corso degli ultimi anni, di lavoro, infinitamente di più delle poche che ha tenuto con sé.
Aveva deciso di scrivere quattro racconti per bambini di Miyazawa Kenji. Di lui aveva già scritto Ame ni mo makezu – Non fragile alla pioggia –, la sua poesia più famosa e una delle più conosciute in Giappone. Forse voleva donare quelle tenere favole al bambino perduto che per tutta la vita aveva cercato. Una di esse si intitolava Gli orsi di Nametoko. Cominciò a scriverla a carboncino, ma quando il carboncino gli si sbriciolò un’altra volta tra le dita proseguì con una matita blu. Quando lo portarono in ospedale stava scrivendo di un’orsa che assieme al suo un cucciolo guarda verso una valle lontana. Lasciò sul tavolo un foglio per andare avanti una volta tornato a casa. Il foglio rimase bianco. Yu-ichi Inoue morì in ospedale il 15 giugno 1985 per le conseguenze della cirrosi epatica. Aveva sessantanove anni.
Ma qualche mese prima, con la morte che si era già annunciata alla sua porta, era tornato all’inizio della strada, nel luogo da dove era partito. Aveva fatto quello che ogni calligrafo fa quando comincia a percorrere la via della scrittura, copiare gli antichi capolavori.
“Kong-zi dice – annota Yu-ichi sul suo taccuino – che se non chiedi la strada al mattino, può accadere che tu muoia la sera”.
Scelse la Stele per il mausoleo della famiglia Yan, un’opera di Yan Zhenqing, un maestro cinese vissuto mille e duecento anni prima, in epoca T’ang. Forse tornò al principio per sentirsi meno solo lungo il cammino che di lì a poco l’avrebbe condotto al confine del mondo conosciuto. Intendeva accodarsi alla processione degli uomini che nei secoli l’avevano preceduto lungo la via della scrittura, i grandi calligrafi di Cina e Giappone. Scrisse la Stele per il mausoleo della famiglia Yan senza più nessun eccesso, nessuna colatura d’inchiostro, nessun grugnito o belato. Senza più macchie sui vestiti, nudo infine.
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Uchiko, prefettura di Ehime, Shikoku
C’è un grande Buddha di pietra sulla strada per arrivare al tempio, è entrato nel Nirvana e adesso dorme con il corpo disteso su un fianco e una mano sotto la testa a far da cuscino. Non so dire se sia una statua di buona fattura, ma osservarla così silenziosa e dimentica del frastuono che riempie la mente degli uomini mi procura un senso di pace. Osservo la postazione del calligrafo accanto alla sala principale del tempio, il suo basso tavolo, lo zabuton sul quale si inginocchia per scrivere, i pennelli di differenti misure messi ad asciugare, il suzuri dove prepara l’inchiostro sfregando il bastoncino sulla roccia bagnata.
Sono arrivato fin qui seguendo la scia letteraria che si è lasciato indietro Ōe Kenzaburō nato in un villaggio non distante dalla cittadina in cui mi trovo. Tutto tace a quest’ora del giorno ed è come se il mondo si fosse preso una pausa. Immagino allora di sedermi al chabudai del calligrafo, sciogliere senza fretta l’inchiostro e scegliere il pennello. Voglio far defluire le parole che ho raccolto dal posto inquieto in cui giacciono, per nasconderle – e forse dimenticarle e forse metterle al riparo – nella vallata nevosa che si apre davanti ai miei occhi, tra le pieghe dell’inchiostro che sfrangiandosi si offre al bianco della carta.
Paolo Miorandi
*In copertina: Yu-ichi Inoue (1916-1985); nel testo, alcune calligrafie dell’artista giapponese