16 Agosto 2022

“Ho conversato con la morte e pulito i cristalli del cielo con i più tristi veleni”. Su Mario Sironi

Aspirare alla grandezza è un peccato?

Fra le qualità oggi più in voga c’è senz’altro la leggerezza, il sapersi prendere poco sul serio. Tutto è ridotto a farsa, in caricatura, e la serietà stessa, delle persone e delle cose, è vista con sospetto. I grandi uomini della storia sono riletti in chiave ‘leggera’, nella loro intimità, rovistando fra lettere e diari, denudandoli, potremmo dire. Ci insegnano che i grandi uomini e le grandi imprese nascondono un lato comico o deplorevole, un lato “umano” dicono, quasi che la grandezza non avesse nulla a che vedere con l’umanità; ma è quell’idea, quell’aspirazione, che ci differenzia dagli altri esseri viventi: la volontà di trascendere, di compiere l’Impresa. Eppure, a ogni grandezza corrisponde, quasi sempre, una grande tragedia, e con un certo godimento ripercorriamo le vite straordinarie dei grandi personaggi solo per arrivare al momento della caduta, al fatidico tonfo sordo.

Ma la domanda resta: aspirare alla grandezza è peccato? Oppure è proprio in questo binomio, grandezza/tragedia, che si compie la nostra vera umanità? Il destino tragico dell’umanità non è forse quello di contenere in sé la possibilità e allo stesso tempo l’impossibilità alla grandezza?

Nel nostro paese soltanto un artista ha incarnato alla perfezione l’aspirazione alla grandezza e la conseguente tragicità da essa scaturita: Mario Sironi. Anche qui occorre precisare: grandezza che solo in un passaggio finale comportò l’abbandono della tela in favore della grande parete, solo alla fine trova una felice espressione nell’arte muraria. La brutalità primordiale, quella “squadratura duttile e sottile che, non disperdendosi dietro elementi secondari della forma ne raccoglie in sé la totalità essenziale” (M. Sarfatti), quella periferia tragica e cupa, i palazzi ridotti a scatole forate, sono tutti elementi che insinuano già dal principio l’aspirazione a una totalità.

Dopo un inizio confuso, Sironi approda a una sua personalissima pittura, interiorizzando sia l’esperienza futurista, sia quella metafisica, e oggi è principalmente conosciuto per i suoi paesaggi urbani. Già queste vedute, questi scorci di periferia, suggeriscono una cupa esigenza di grandezza. Trasmettono severità e inquietudine.

“L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica… ma esige grandezza”.

E simpatico Sironi non doveva esserlo poi molto, per nulla incline ai compromessi, sdegnoso verso gli arrivisti, netto e senza alcuna pietà nei confronti di certa arte compiacente sempre pronta a genuflettersi al regime di turno. Nemmeno al Duce risparmiava critiche per la piega presa dal mondo dell’arte, e soffriva per quell’ideale di rivoluzione fascista finito fra le mani di opportunisti senza alcun senso del pudore. Come scrive Elena Pontiggia, massima studiosa dell’autore, l’arte di Sironi non sarà mai realmente utile al fascismo; è come se dentro di sé contenesse già il tragico epilogo del regime; come se le sue opere contenessero allo stesso tempo l’aspirazione e l’impossibilità di raggiungere tale agognata grandezza. Nonostante condividesse le istanze del regime, una sofferenza e un pessimismo intimo gli impedirono di cantarne le gesta e la gloria. Nulla a che vedere, infatti, col realismo socialista; questo “realismo fascista” di Sironi è tragico nella sua impossibilità:

“la concezione dolorosa dell’esistenza e la solennità fuori tempo che Sironi esprimeva nell’arte monumentale gli impediscono di dar vita a un realismo fascista sulla falsa riga del realismo socialista”.

(Elena Pontiggia)

Sironi esprime così, meglio di chiunque altro, questo ambiguo sentimento che tende alla grandezza, generando così un dramma, una tragedia. E una volta caduto il regime e sperimentati gli orrori della guerra, di quella volontà di grandezza non restano che spettri, reliquie, lapidi. Di particolare interesse viene quindi a essere l’ultima produzione di Sironi, la produzione di uno sconfitto, di un esiliato, un uomo che vede il dopoguerra attraverso una lente tutta peculiare e che merita rispetto e una qualche riflessione.

“La Storia è la storia della piccolezza umana – questo schizzo di fango lo spazio i secoli e la luce del sole su questa terra di melma disseccata”.

Questo, come altri scritti del dopoguerra, ci riportano Sironi intrappolato fra le macerie del paese, rovine non solo materiali, ma soprattutto spirituali; un dedalo spettrale ben lontano dalla ripresa economica della ricostruzione. L’Italia post-bellica di Sironi è una cripta.

“Ma quello che è venuto dopo è stato veramente una cosa spettrale con una aureola paurosa di delusioni e di bocconi amari che mi sono rimasti nella gola. Ora sono più selvaggio più duro di prima di questa prova terribile. Ho visto cose che tutta la mia amara filosofia non mi avrebbe mai fatto immaginare ho visto l’atrocità della vita e la bestialità umana. Bene. Ora vorrei trovare la forza di rimettermi lo zaino in spalla e ripartire col mio nero bagaglio per la mia immensa solitudine. Gli uomini stanno bene all’osteria. Se Dio non mi darà altre pugnalate! Ho conversato con la morte e pulito i cristalli del cielo con i più tristi veleni ma ora sono più limpidi lucenti come il mattino”.

Questi pensieri, scritti probabilmente nel suo studio milanese squarciato dai bombardamenti, si riflettono immancabilmente nei lavori di quegli anni: alle vedute urbane, ai blocchi di caseggiati o alle imponenti figure, fanno ora seguito personaggi scalfiti nella roccia o schiacciati contro pareti granitiche, opere che lasciano un senso di angoscia e morte. La pittura, dopo la caduta del fascismo e al suicidio della figlia (1948), si fa tetra, angusta, prigioniera di una fissità; i personaggi incastrati nelle pareti o racchiusi in tane o cunicoli sono la testimonianza visiva dell’impossibilità della pittura murale, a simboleggiare quanto sia breve il passo che separa il monumento dal sepolcro. Gli spazi sono confusi, pericolanti, instabili: dal mondo di architetti, al mondo senza progetti, e questa assenza di progettualità trasmette un senso di sfiducia, di disperazione: “dipinge manichini che vegliano città deserte, frammenti di architetture incongrue e solidi platonici rovesciati, stanze dell’assurdo abitate da totem senza vita: un mondo senza spiegazioni e senza risposte, inospitale e ostile” (E. Pontiggia).

Alla luce della parabola sironiana, vien da chiedersi se a cercare grandezza non si faccia poi la fine di Icaro, fracassato al suolo con le ali ridotte in cenere; e questo vale per i personaggi come per l’arte. La ricerca di grandezza conduce inevitabilmente alla tumulazione?

Ma in fondo è proprio questo che manca alla vita d’oggi: uno scopo, una meta. La meta sognata da Sironi è grandiosa e la strada da lui intrapresa, difficile e rovinosa, l’ha percorsa a testa alta, senza vendersi, senza inchinarsi. La grandezza dovrebbe essere la meta a cui aspirare, non soltanto nell’arte, ma nella vita stessa; allora si vedrebbero in giro più uomini e meno insetti.

* Le citazioni di Sironi sono tratte da M. Sironi, Scritti e pensieri (a cura di E. Pontiggia), Abscondita, Milano, 2000.

* Le opere sono tratte da Mario Sironi. Sintesi e grandiosità. Catalogo della mostra (Milano, 23 luglio 2021 – 27 marzo 2022).

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