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Se tutti si occupano dei vivi, io mi curo dei morti.
Di fronte al corpo di un morto mi assale una pietà vertiginosa. Anzi. Sbaglio. Il corpo del morto s’impone in me come una colpa, una dinamite di lame.
Chiunque, lo so, ne ha fatto esperienza. Il corpo addobbato con eleganza nella bara. Lo tocchi. Gelido. La pelle è quasi blu, nei giorni tra la morte e la tomba, come se nelle vene scorresse liquido angelico. Il paradosso della vita è che scopri di amare una creatura quando la vedi morta. La ami perché ti s’imprime come una colpa: quante cose non gli ho detto quante cose avrei dovuto fare quanto dolore avrei potuto alleviare. Di solito è ai morti che diciamo le cose indicibili – sappiamo che il morto sa sopportare tutto, ha una gola disumana. Può accudire la nostra insania. La nostra debolezza. Per i vivi, per i sopravvissuti, in fondo, finché c’è respiro, c’è gloria.
Nella laida vicenda dei migranti ostaggio della speranza e dell’insipienza, della fuga e del mare, del coraggio e della codardia di uomini che non sanno fare la storia ma ci riempiono la testa di storie, mi azzanna un evento laterale. La nave Trenton, della marina americana, “ha recuperato 40 persone in difficoltà”. Leggo – così evitiamo il tango delle fake news – il dispaccio divulgato dalla U.S. Naval Forces Europe-Africa. Anche nel dispaccio i cowboy fanno promozione, incredibile (“questo dimostra la capacità della marina statunitense in molteplici missioni, e la capacità di agire rapidamente per dare risposte”). Nella nota si fa riferimento a “12 corpi in acqua”, morti. Dopo aver dato soccorso ai vivi, la Trenton ha imbarcato i morti. Nonostante il dispaccio della U.S. Naval Forces ricordi che “se necessario, le navi della marina statunitense sono in grado di preservare i resti in depositi frigoriferi”, così non è stato. I 12 morti, infatti, sono stati restituiti al mare. Secondo la Repubblica “la Trenton della U.S. Navy… ha abbandonato i cadaveri alla deriva perché non ha celle frigorifere”. A proposito di fake: qui qualcuno mente. Ci sono o non ci sono le celle? La domanda sembra laterale – dobbiamo salvare i vivi, lasciamo i morti ai morti – ma a me non sembra.
L’essere umano è tale perché instaura un rapporto letale con la morte. L’uomo esiste quando capisce che muore – e decide di occuparsi dei morti. La letteratura mondiale nasce con un uomo, Gilgamesh, che si ribella alla certezza, biologica, della morte; intorno alla morte è sorta la civiltà, in forma di piramidi, di tumuli, di etruschi sorrisi, di libri dei morti e sulla morte. La religione nasce come risposta alla morte; gli sciamani percorrono gli altri mondi per consolare i morti; i cimiteri hanno uno splendore più clamoroso delle città. Sui sepolcri Ugo Foscolo ha scritto il suo poema fondamentale, d’altronde il Romanticismo inglese nasce grazie a un ispirato londinese, Thomas Gray, che nel 1750 scrive una elegia “in un cimitero di campagna”. Intorno alla morte e alla paura dei morti, la cultura tibetana ha partorito il Bardo Tödröl, il grande libro in cui si spiega come accompagnare il morto verso la beatitudine. Nella civiltà greca, trattare male i morti vuol dire evocare le Erinni, figlie della Notte, ispirate alla vendetta.
A volte mi scopro. Prego per i morti più che per i vivi. Pensatemi idiota. Con la morte non finisce, finalmente, tutto? I morti – lo diciamo come estrema difesa della ragione – non sono forse più felici dei vivi? Io indoro i morti nel pregare, li allineo nell’oro, dono loro parole, come un pasto. Forse è un modo per accudire i ricordi. Un modo per salvarmi – non sono giusto con i vivi, mi aggiusto con i morti e i moribondi. A volte penso che l’estremo sacrificio sia morire per i morti – ma rischio di essere un prestigiatore di astrazioni.
Questi 12 morti, ora, bendati dal mare, cibo per pesci – il Mediterraneo, con questa ziggurat di morti, ormai, è grasso, è spesso, come fosse olio, l’olio per i defunti – come farò a occuparmi di loro? Nessuno mi riferisce i loro nomi. Sono morti muti. Morti meno morti dei nostri morti censiti da epigrafi e da lapidi di marmo. Sono morti mai morti – la più tremenda delle condanne. Morti senza nome. Morti senza degna sepoltura. Come si ‘eliminano’ le formiche quando invadono casa, d’estate. Se non ci curiamo dei morti, con quale respiro sapremo salvare i vivi? Resterò io, oggi, allora, a piantonare i morti e ad arginare l’urlo delle Erinni, a pensare che le ossa possano disfarsi in atto di grazia e gli occhi esumare costellazioni. Chiediamo perdono ai morti. (d.b.)