30 Ottobre 2024

“L’atroce sfinge”. Tommaso Landolfi e le arti figurative

Nel 1982, con la pubblicazione del celebre Le più belle pagine, Calvino inizia la nota postfazione proponendo «un incontro nuovo tra Landolfi e il pubblico» che potesse allontanarlo dall’aura di scrittore complesso, strano e «per pochi»[1] che per molto tempo aveva avvolto lo scrittore di Pico. Da allora la ricezione dell’opera di Landolfi è aumentata in modo costante da parte del vasto pubblico – espressione che lo avrebbe certamente infastidito –, sperando che Adelphi, uno degli attori principali di questa ascesa, e che deve ancora completare il catalogo dello scrittore, non si fermi ad ascoltare i canti delle sirene di facili guadagni.

Sebbene quindi l’interesse verso Landolfi sia stabile sotto molti aspetti, l’importanza che le arti figurative hanno avuto nella sua produzione letteraria non è stata totalmente approfondita dagli studi. Per lavorare su Landolfi ci si deve abituare però all’inganno e alla dissimulazione: i depistaggi, le false notizie, i mascheramenti non lo rendono oggetto di facile studio; ci si trova sperduti fra la realtà e la finzione, fra la biografia e l’immaginazione. In un testo di presentazione per una mostra personale che Adriana Pincherle inaugurò alla galleria fiorentina “L’Indiano” nel 1963, Landolfi definì lo stile della pittrice in grado di far mutare l’idea che i soggetti rappresentati trasmettono in base ai momenti della giornata, come una sfinge che inganna. Landolfi stesso è come «l’atroce sfinge»[2] di cui parla, una creatura che muta il suo messaggio da ieri a oggi, che instilla in noi un dubbio, una necessità d’interpretazione, che ci trattiene nell’ambiguità e nell’esitazione continua; per citare le parole di Piovene: «Falso un comportamento, e falso il suo contrario; falsi gli scopi, le pretese, gli ideali illusori; false le opinioni, i giudizi»[3].

Tommaso Landolfi è uno scrittore figurativo: le connessioni, i contatti, le vicinanze con il mondo dell’arte sono in lui costanti, sia letterariamente che biograficamente. Si è sempre interessato alla percezione e all’osservazione dell’opera d’arte per goderne come spettatore, per confrontarvisi sul piano creativo e riflettervi dal punto di vista del linguaggio espressivo, per interrogarla riguardo alle differenti modalità cognitive della realtà, fino a volerne conoscere i retroscena e gli aneddoti che da sempre lo divertivano e caratterizzavano la sua personalità (e che in generale lo rendevano allo stesso tempo divertente e temibile agli occhi degli amici). A questo si aggiunge il talento come disegnatore, coltivato da quando era bambino fino a poco prima di morire: realizzò molti schizzi e bozzetti dei quali ha dato più di un indizio sparso nelle sue opere, sebbene di questa passione, confermata a più riprese anche dalla figlia Idolina, i risultati siano ancora inediti.

Il prodotto di questo interesse e di questa sperimentazione si riflette nelle menti dei suoi lettori: le ambientazioni e le atmosfere dei racconti suggeriscono analogie pittoriche immediate, che spaziano dalle desolazioni di Hopper agli eterocliti ambienti affollati di oggetti di De Chirico, dai riverberi cinerini e reticenti di Hammershøi alle presenze allucinate di Ernst, e poi Magritte, a volte indirettamente citato, i simbolisti francesi e tedeschi, gli interni fiamminghi, i sabba di Goya naturalmente e molti altri. Sin da bambino, il padre Pasquale, studioso e grande appassionato della materia (come conferma il figlio in un elzeviro, spesso si trovava «sulla traccia di capolavori pittorici»[4]), grazie alle sue influenze e alle sue amicizie cercò di avvicinare il figlio alle bellezze artistiche intorno a lui. Anche Idolina si riferisce al nonno Pasquale come «cultore d’arte e gran viaggiatore»[5].

Sin da piccolo Landolfi dimostrò grande interesse per le opere d’arte che incontrava durante le vacanze e gli spostamenti familiari (sempre la figlia riporta «la vivace impressione»[6] che gli affreschi di Correggio a Parma stimolano nella mente puerile di Tommaso), le giornate in giro per musei in compagnia degli amici del padre, fra i quali lo scultore Giovanni Prini e lo storico dell’arte Adolfo Venturi, sino ai viaggi estivi con le zie per visitare le più belle città d’arte del nord in Istria, in Veneto e in Romagna. Una volta cresciuto, ad una educazione familiare sensibile alla bellezza si sono aggiunte le importanti frequentazioni con artisti a lui contemporanei: a Roma entrò in contatto con gli artisti della Scuola Romana alla Galleria (e casa editrice) della Cometa; a Firenze con i più grandi maestri che incontrava al Caffè delle Giubbe Rosse e alla Villa Malafrasca a San Domenico di Fiesole, residenza artistica gestita dai coniugi Carena. Con Maria Chessa, sua amante e moglie del pittore Felice Carena, nonché l’Adele di LA BIERE DU PECHEUR, Landolfi accennò addirittura di volersi lanciare nell’editoria d’arte. Le amicizie, gli incontri, le discussioni con Guttuso e Colacicchi (che voleva realizzassero per lui la copertina de La pietra lunare), con i coniugi Martinelli (ad Onofrio è dedicato l’elzeviro Dovere nella raccolta Del Meno; la moglie Adriana Pincherle, sorella di Moravia, aveva ritratto Tommaso e Idolina), con Maccari, Rosai, Bongi, che spesso sono stati scelti per le copertine delle sue opere, avvicinarono lo scrittore ad un confronto con l’arte che non poteva rimanere sterile.

La Deposizione del Rosso Fiorentino del 1528; sullo sfondo compare la scimmia

Le prove di questo confronto, i luoghi fertili in cui si è manifestata la relazione fra la letteratura e le influenze delle arti figurative non sempre sono immediatamente visibili all’interno del corpus landolfiano. Nei suoi testi i riferimenti vengono spesso semplicemente accennati e solo raramente introdotti con dichiarato rimando alla fonte. Le arti assumono in certi casi il ruolo di termine di paragone in una descrizione, come nel caso della curvatura del corpo di Rosalba in La morte del re di Francia[7], che assomiglia a una Madonna da dente, piccola scultura in avorio che sfrutta la naturale curvatura della zanna dell’elefante per conferire all’opera un forte dinamismo – si tratta di un elemento tipico del gotico, l’hanchement o ancheggiamento – e che Landolfi poteva aver visto nell’esemplare di Giovanni Pisano al Museo dell’opera del Duomo di Pisa[8].

Altre volte, per imprimere meglio la descrizione di un fotogramma della scena nell’immaginario del lettore, introduce un elemento pittorico, come nel caso del paragone con cui si apre La pietra lunare. Al suo arrivo, i parenti del protagonista Giovancarlo si affacciano allungando le teste dietro allo zio «come in un affresco del Ghirlandaio»[9]. L’affollamento di teste è una caratteristica tipica della pittura del Quattrocento fiorentino, e tanti sono gli artisti che l’hanno adottata, da Filippo Lippi a Benozzo Gozzoli. La scelta ricade sul Ghirlandaio, dove la caratteristica poteva essere a quel tempo notata da Landolfi a Roma, nella Vocazione dei primi apostoli della Cappella Sistina; a San Gimignano, nell’affresco delle Esequie di Santa Fina della collegiata della città; oppure a Firenze, nello Sposalizio della vergine della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. In ognuno di questi affreschi si riscontra la caratteristica di un affollamento di teste che spuntano in secondo piano rispetto ad una scena principale, ma solo in uno sono protagoniste, al centro della scena, così da imprimersi nella memoria dello spettatore. Si tratta delle teste dei figli di Lorenzo il Magnifico e dei loro precettori (Pulci, Poliziano e Matteo Franco) che compaiono in primo piano mentre salgono delle scale nell’affresco della cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze. Sulle medesime teste ha insistito anche Aby Warburg nel suo studio La rinascita del paganesimo antico[10], testo fondamentale sulla collaborazione tra verbale e visuale, che Landolfi poteva aver letto in lingua durante la sua permanenza a Berlino, l’anno dopo la pubblicazione dell’opera postuma (1932).

In alcune circostanze Landolfi ha bene in mente il riferimento figurativo ma non lo cita, come in La piccola apocalisse con il mosaico della Teoria delle Vergini di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna. Nel racconto, la «teoria di svelte camerierine»[11] che entra nel ristorante spinge il narratore ad attuare un processo di trasfigurazione iconografica che nasce proprio dal mosaico della chiesa romagnola: le cameriere hanno il capo coronato da un prezioso diadema, vestono bianche tuniche avoriate, hanno occhi sottili e allungati. La «teoria di vergini sorelle»[12] del racconto, le quali recano in spalla foglie di palma, è una sovrapposizione ecfrastica del mosaico bizantino (già spesso individuato come rimando figurativo alla descrizione della sacra processione del XXIX canto del Purgatorio[13]). Poco dopo, sempre nella stessa prosa poetica, uno dei personaggi introduce il tema dell’attesa, ispirato da una delle «vergini sorelle»: un altro rimando figurativo che si sposta da Ravenna a Firenze, alle cantorie di Donatello e di Luca Della Robbia in Santa Maria del Fiore. L’attesa di cui si parla viene riferita e paragonata proprio alla mimica facciale dei putti qui scolpiti: gli angioletti sono stati realizzati dai due artisti con la bocca aperta in atto di cantare, spingendo lo scrittore ad immaginarsi il loro canto che non si potrà mai sentire, in quanto immobili per sempre nel marmo (alle cantorie di Donatello Landolfi si rifarà anche nei versi di Lontana Aziòla in Viola di morte[14]). A volte accade che Landolfi spinga il lettore all’identificazione visiva senza citazione o rimando preciso, combinando perfettamente la soglia fra verbale e visuale, come avviene con il ragno dal volto umano che piange di Odilon Redon per il racconto Il babbo di Kafka, oppure con le figure metafisiche di De Chirico dalle cui viscere fuoriescono vari oggetti per l’incipit di Il mar delle blatte.

In assenza di fonti (gran parte di tale documentazione è andata perduta con il bombardamento del palazzo di Pico), anche la congettura assume un ruolo importante: pare non sia mai stata approfondita la vicinanza e la possibile filiazione letteraria fra un brano della più importante opera narrativa riferita al mondo delle arti, le Vite del Vasari, e il testo forse più noto di Landolfi, Le due zittelle. L’influenza landolfiana sul nucleo tematico della storia, cioè l’atto sacrilego e blasfemo della scimmia Tombo, e, più in generale, la considerazione occidentale della scimmia come rappresentazione terrena della malignità demoniaca, in quanto imitatore imperfetto dell’uomo creato da Dio, trova riscontro nell’immaginario letterario e artistico fin dal Medioevo. Nell’iconografia cristiana spesso la scimmia è raffigurata incatenata, a indicare il controllo dell’animalità, degli istinti e dell’imitazione diabolica, come nell’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano del 1423. Nell’affresco della Flagellazione davanti a Pilato di Pietro Lorenzetti del 1319, che si trova nella basilica inferiore di San Francesco di Assisi, una scimmia legata cerca di scappare per i tetti e due figure femminili la spiano dalla finestra. Nella Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino nella Chiesa di San Lorenzo a Sansepolcro (1528), in secondo piano, quasi mimetizzandosi con lo sfondo, compare una figura dal volto deforme, in linea con le parole del Vasari sulla pittura di Rosso – da lui ammiratissimo – caratterizzata da «leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti»[15], definizione per altro ideale anche per Landolfi e la sua opera. La figura, armata di lancia e rivolta frontalmente allo spettatore, viene identificata con Longino, l’armigero romano che ferì Cristo al costato, ma il volto è quello di una bertuccia berbera, animale domestico posseduto proprio dal Rosso Fiorentino. Il Vasari racconta infatti nella Vita dedicata al pittore manierista che una scimmia, animale domestico del Rosso, fuggì dalla finestra di casa per compiere un furto di uve sancolombane a scapito del confinante convento; spiato e colto sul fatto, il «bertuccione»[16] venne dai frati denunciato e condannato. Nel racconto di Landolfi, Tombo, una scimmia che vive con le due «zittelle» e animale totemico del loro fratello prematuramente scomparso, scappa di nascosto da casa per recarsi nel vicino monastero a rubare le ostie consacrate e a dire la messa; accertatone il peccato sacrilego, le suore e le zitelle decidono per una punizione esemplare. Lo svolgersi narrativo dei due fatti è lo stesso: in entrambi i casi l’animale, investito di doti e pensieri antropomorfi, viene spiato, accusato e punito da figure ecclesiastiche che vivono nel confinante convento. La pena che tocca alle scimmie, seppur diversa (le zitelle pugnaleranno come un vampiro Tombo, mentre il «bertuccione» del Rosso verrà incatenato ad un grosso piombo), assume anch’essa connotati di una pena umana. Nella presentazione del «bertuccione», Vasari scrive che «aveva spirto più d’uomo che di animale»[17].

Oskar Kokoschka era ossessionato dalle bambole

Landolfi chiude la descrizione di Tombo con la consueta reticenza e lateralità narrativa, ma che esprime la stessa idea che della scimmia ha il Vasari: «Ma con ciò mi avvedo d’essere caduto nel vizio più su deprecato, di attribuire a un bruto attitudini e sentimenti umani, per cui fo punto»[18], oppure: «il fabbricante però della gabbia aveva fatto i conti solo approssimativamente colla naturale intelligenza dell’animale che essa doveva ospitare»[19]. Si capisce che Landolfi in questo caso interpreta il ruolo del narratore severo, contro ogni umanizzazione dell’animale, a cui in verità non crede per niente, al punto da lasciarsi sfuggire più volte indizi dell’antropomorfizzazione della scimmia e per converso dell’animalizzazione della vecchia madre[20]. Il furto plausibile di cui viene accusato il «bertuccione» è di uva sancolombana; quello di Tombo, inverosimilmente, di ostie, il cui sacrilegio aprirà alla discussione dostoevskiana sulla moralità dell’animale da parte delle due figure religiose, monsignor Tostini e padre Alessio. Il guardiano del convento, dopo il furto, «dubitando de’ topi, mise lo aguato a essa»[21], le monache «avevano vegliato, spiato, fatto la posta»[22] a Tombo.

I due testi hanno molto in comune e fanno sorgere il sospetto di una filiazione letteraria: le corrispondenze sono notevoli e se teniamo in considerazione la cultura artistica di Landolfi, che sicuramente conosceva Le vite del Vasari e ne apprezzava l’arguzia e l’ironia, dato il suo carattere luciferino, l’ipotesi a favore della relazione intertestuale fra i due racconti è una strada che potrebbe aprire ulteriori scenari sulla critica dell’autore.

La stessa impressione si ha tra il racconto di Landolfi sulla moglie dello scrittore russo Gogol’ e un episodio della vita del pittore secessionista Oskar Kokoschka: in entrambi i casi l’infatuazione per una bambola porterà a conseguenze stravaganti. Il racconto La moglie di Gogol’, dedicato alla pittrice Leonor Fini, muove da un saggio biografico inesistente sulla vita dello scrittore russo e della moglie, la quale non è una vera donna ma una bambola di gomma. Stanco col tempo della ingombrante personalità della moglie, preso da un attacco di ribrezzo e morboso affetto, Gogol’ uccide la coniuge gonfiandola a tal punto da provocarne l’esplosione. Anche Oskar Kokoschka, dopo la rottura con l’amatissima Alma Schindler (femme fatale e appena vedova a quel tempo di Gustav Mahler, poi moglie di Walter Gropius e Franz Welfer), decise di farsi costruire una bambola che ne riprendesse le fattezze. Il risultato però fu orribile e, per porre fine alla vita della bambola, il pittore la sacrificò tagliandole la testa in giardino e cospargendone il corpo di vino, come in un rituale. Alla fine del racconto di Landolfi, un disperato Gogol’ getta fra le fiamme un fagotto che avvolge il figlio di gomma avuto dalla moglie appena esplosa. Dopo che Alma abortì – il loro figlio sarebbe stato ritenuto inaccettabile dall’alta società viennese di cui faceva parte – Kokoschka scrisse una poesia che riprese anche in uno dei suoi noti ventagli dipinti: «Tu mi trafiggi e bruci – è terribile. Quando per morire in te io entro splende il mio cuore nel tuo grembo dolcemente lo distruggono le tue fiamme»[23]. Le consonanze fra i due fatti sono evidenti e sono state sottolineate da Angelo Maria Mangini nel saggio Da Kokoschka a Gogol’: la bambola di Landolfi. L’ipotesi intertestuale affiora dalle prove secondo cui Landolfi poteva essere a conoscenza della storia del pittore austriaco. Landolfi si muove a ritroso da Kokoschka a Gogol’, e fa dello scrittore ottocentesco quasi una caricatura dell’artista novecentesco, ma allo stesso tempo indica borgesianamente nel primo un precursore del secondo[24].

Nella scrittura landolfiana è fondamentale che siano presenti riferimenti alle retoriche dell’immagine, per non spogliarla di quegli aspetti decisivi dell’indagine letteraria che servono a collegare il sistema comunicativo figurale con quello linguistico, come le situazioni legate allo sguardo dello scrittore e dei personaggi dei testi, la costituzione di immagini letterarie, le corrispondenze fra immagini e testo, dove i due sistemi convivono compenetrandosi a vicenda. La speranza è che questo aspetto possa essere ulteriormente approfondito e studiato, per raggiungere nuove osservazioni che ci avvicinino alla sua profondità di pensiero, ma senza la presunzione di voler decifrare tutto, lo stesso Landolfi ammoniva:

«A voler spiegare tutto, si riuscirà forse brillanti, ma non si sa mai dove si può finire, poiché non c’è più modo a un certo punto di sapere quanto in una data questione mettiamo di nostro, o, più chiaramente, dove cominci il vano gioco e la compiacenza dell’intelletto»[25].

Cesare Dal Pane

*In copertina: Odilon Redon, Omaggio a Goya, 1885


[1] Italo Calvino, L’esattezza e il caso, in Tommaso Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, Rizzoli, Milano, 1982, p. 415.

[2] Tommaso Landolfi, Sulla pittura di Adriana Pincherle, in Adriana Pincherle, Edizioni Pananti, Firenze 1987, p. 286.

[3] Guido Piovene, Partita chiusa, in Andrea Cortellessa (a cura di), Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, Nino Aragno Editore, Milano 2009, p. 74.

[4] Tommaso Landolfi, Miseria, in Id., Del meno, Adelphi, Milano 2019, p. 118.

[5] Idolina Landolfi, Cronologia, in Tommaso Landolfi, Opere I 1937-1959, a cura di I. Landolfi, Rizzoli, Milano 1991, p. XXV.

[6] Ivi, p. XXVIII.

[7] Tommaso Landolfi, La morte del re di Francia, in Id., Dialogo dei massimi sistemi, Adelphi, Milano 1996, p. 40.

[8] Lo stesso paragone verrà ripreso anche in Rien va nella descrizione della curvatura di un cipresso (cfr. Id., Rien va, in Id., Opere II 1960-1971, a cura di I. Landolfi, Rizzoli, Milano 1991, p. 262).

[9] Id., La pietra lunare, Adelphi, Milano 1995, p. 11.

[10] Cfr. Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1980, p. 119: «Queste meravigliose teste di Domenico Ghirlandaio non sono ancora apprezzate a dovere e nei particolari né come documenti unici della storia della civiltà, né come incunaboli insuperati della ritrattistica italiana»; e ancora a p. 136: «Ghirlandaio, davanti al difficile compito di rispecchiare su di una superficie limitata una pienezza di vita genuina, rinuncia a tutte le arti ornamentali di abbellimento della figura umana, e parla, in modo mirabilmente espressivo, solo attraverso la mimica delle sue teste».

[11] Tommaso Landolfi, La piccola apocalisse, in Id., Dialogo dei massimi sistemi cit., p. 106.

[12] Ivi, p. 113.

[13] Per il recupero del Purgatorio dantesco nella creazione narrativa di La piccola apocalisse di Landolfi si veda Rodolfo Sacchettini, La lingua «impossibile» della piccola apocalisse, «Chroniques italiennes», 81-82, 2008.

[14] Cfr. Tommaso Landolfi, Viola di morte, Adelphi, Milano 2011, p. 297: «Lontana Aziola, la tua voce | Da cantoria di Donatello induce | Le notti che sognavo di Gurù – | Le notti che non sono, che non saranno più».

[15] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, vol. II, Einaudi, Torino 1991, p. 749.

[16] Ivi, p. 752.

[17] Ibidem.

[18] Tommaso Landolfi, Le due zittelle, Adelphi, Milano 1992, p. 31.

[19] Ivi, p. 41.

[20] Cfr. ivi, pp. 20-25: «Quanto alla madre, la decrepita nonché vecchia signora Marietta, notevole esemplare della sua specie […] dotata d’una sensibilità più che animalesca […] prendeva a berciare, finché poté, o altrimenti a percuotersi i fianchi, a darsi i pugni in testa, insomma a fare il diavolo a quattro e poi a picchiarsi il petto all’altezza circa delle scapole».

[21] Vasari, Le vite cit., p. 752

[22] Landolfi, Le due zittelle cit., p. 33.

[23] Heinz Spielmann, I ventagli di Kokoschka, «FMR», 43, giugno-luglio 1986, p. 52. Spielmann omette la suddivisione in versi: «Tu mi trafiggi e bruci – è terribile. | Quando per morire in te io entro | splende il mio cuore nel tuo grembo | dolcemente lo distruggono le tue fiamme».

[24] Cfr. Angelo Maria Mangini, Da Kokoschka a Gogol’: la bambola di Landolfi, «Studi e problemi di critica testuale», vol. LXIII, n. 63, ottobre 2001, pp. 143-164.

[25] Tommaso Landolfi, Rien va cit., p. 300.

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