15 Febbraio 2024

“Avrebbe voluto vedere Dio in sogno”. Per Giampiero Neri, il Virgilio della contemporaneità

Essendo un sommo peccatore, fatico a capire la semplicità. Il verbo lo vedo sempre come una poiana che scava il cielo, non come una zappa che dilata la terra. Amo quella variante celeste, la pioggia, la stola del sole: mi è difficile saggiare gli argini, il greto di un volto. Che idiota idolatra. Eppure, Boris Pasternak – il mio idolo, tra le letture particolari di Giampiero Neri – insegna che il poeta è colui che si costruisce la casa, che si prende cura dei suoi, che lavora “per sei ore di seguito” sgrossando “un pezzo di legno” o zappando “la terra sotto il cielo aperto”. “Che felicità lavorare per se stessi e per la famiglia dall’alba al tramonto, costruirsi un tetto, coltivare la terra per nutrirsi, farsi il proprio mondo, come Robinson, imitando il creatore nella creazione dell’universo”: così scrive il grande poeta nel Dottor Zivago, più che un romanzo un manuale di iniziazione alla vita.

Questo per dire che per anni ho fatto fatica con la poesia di Neri, schietta come un legno intagliato, nuda come la terra appena smossa, perentoria come un petroglifo. Mi affascinava l’appartato essere di Neri, l’appartenenza a un mondo proprio, di ricordi puri, senza traccia di rimorso, senza il politburo del rancore che giace spesso tra le anticaglie dei poeti. L’opera del bene agiva in lui con ordinata sapienza – quanto all’ordinario, sapeva tradurlo nella tenaglia degli sgargianti dettagli. Conoscendolo, capii che un poeta si riconosce dalle mani – che la poesia esegue, se è autentica, il ritmo del corpo.

Una volta, per un gioco acefalo, ho confrontato il bestiario di Neri – in larga parte reperibile in Teatro naturale, appena ri-edito da Ares –, fitto di effimere, lumache, gufi reali, lavarelli (“il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago”), beccacce e zebre stravaganti (lo Pseudocavallo che “simile in questo al mastino, ha una presa tenace”) al bestiario del poeta inglese – da me adorato – Ted Hughes. Per la Faber, nel 2014, Alice Oswald ha raccolto alcune poesie ‘animalesche’ di Hughes in un libro intitolato proprio Bestiary. Vi appaiono corvi, aracnidi, giaguari, volpi, civette violente, cavalli, lupi, aquile in quantità visionaria. D’altronde, Ted Hughes – che fu fedifrago marito di Sylvia Plath e poeta laureato del regno inglese dal 1984 alla morte (accaduta nel ’98) – ha esordito con un libro fenomenale dal titolo The Hawk in the Rain e ha pubblicato un libro mitopoietico che si intitola Crow. L’esercizio fu stimolante. Hughes ha la tenacia immaginifica di uno sciamano: scemano stelle nel mistico corpo delle sue belve. Neri è essenzialmente un lirico entomologo: la sua è tassonomia ad alta elettricità poetica.

Nelle poesie, spesso, Neri, senza reticenze, cita i suoi maestri: Melville, Conrad, Fenoglio, lo stesso Pasternak. Li cita con la stessa rigorosa audacia con cui parla degli animali: sono le sue bestie sacre. Tutto questo, però, sconfina, a mio parere, in una solidale amicizia verso tutte le cose del creato.

Ad ogni modo, a un anno dalla morte di Neri si intende qui darne onore tramite due interventi. Il primo è quello del suo discepolo-studioso più vero, Alessandro Rivali, che per le piccole edizioni dell’artista Marcovinicio e della moglie, Marisa, ha pubblicato, per amici, una delicatissima plaquette, Il segno di Iob. Ne riproduco qui l’introduzione e alcuni testi poetici, per gentile concessione. Segue, un testo esegetico di Giulio Solzi Gaboardi, d’altra generazione, d’altro spirito, d’entusiasta acume.

Ecco, un poeta che evoca una guardiania di simili, una veglia. Cose d’altro mondo – quello che, ostinatamente, viviamo tutti i giorni.

***

Il segno di Job

“Dobbiamo rimandare il nostro appuntamento”: così Giampiero mi avvertì per telefono dell’improvvisa indisposizione che rimandava la consuetudine del nostro pranzo settimanale. Erano i primi di dicembre del 2022. I primi allarmi del male che presto lo avrebbe portato via. Nessuno dei due poteva sapere che non avremmo più ritrovato quel nostro rito.

Negli anni quegli appuntamenti milanesi tra piazzale Libia e via Tiraboschi erano stati la mia vera università, e più tardi una scuola di vita. La nostra amicizia era iniziata nel 1998 quando uscì Teatro naturale, il libro Mondadori che aveva rivelato al grande pubblico “il maestro in ombra” della poesia italiana. Al termine di un reading, gli avevo chiesto l’autografo di un testo poi confluito in Armi e mestieri (2004): non ne possedeva copie e mi invitò ad andare a trovarlo a casa. Grazie a quegli incontri intorno a un tavolo invaso da cartoncini, quaderni e penne dal tratto fine scoprii Melville, Villon, Campana e soprattutto Beppe Fenoglio. Compresi che la poesia è sempre ricerca della verità, e che può avere la semplicità e il calore di una stretta di mano. Che la dizione limpida ed essenziale è un punto di arrivo dopo un lungo viaggio.

A Natale 2022 Giampiero fu ricoverato al Padiglione Granelli del Policlinico di Milano. Andai a trovarlo diverse volte. Leggeva il Gesù di Nazareth di Ratzinger, libro a cui aveva tolto la copertina di cartone per maneggiarlo con più facilità. Gli regalai una stilografica azzurra di cui fu felice (tante volte era stato lui a regalarmi le stilografiche, tra cui due bellissime Aurora). Gli portai una delle ultime uscite Ares dedicata a Thomas More e fu contento di commentare che il suo prossimo lavoro con Ares sarebbe stato Utopie. Lo rallegrava l’idea di un titolo vicino alla più celebre opera del santo statista inglese. Proprio in quei giorni Giampiero preparava quella che sarebbe stata la sezione finale del libro, “Prontuario per degenti in ospedale a conduzione pubblica”. Al suo capezzale, la sera del 28 dicembre, ricevetti la notizia della morte di Cesare Cavalleri, altro maestro della mia vita.

Il pomeriggio delle dimissioni di Giampiero dall’ospedale – non c’era più nulla da fare, sapevamo che gli restava poco tempo –, guardammo insieme Atalanta-Salernitana, una partita ricchissima di goal. Ne fu felice. Il calcio era uno dei nostri argomenti di conversazione preferiti. Davanti a una partita degli Europei, anni prima, avevamo deciso di trasformare le nostre conversazioni in Ritorno ai classici, una sorta di ideale prosecuzione di Giampiero Neri. Un maestro in ombra, il libro sulla sua vita uscito nel 2013 per Jaca Book.

Giampiero fu lucido fino a poco prima di morire, la notte tra il 14 e il 15 febbraio 2023. Leggeva la Genesi e l’Esodo, era affascinato dal Libro dei re, incontrava volentieri gli amici più cari, specialmente i più giovani; tra questi Giulio e Francesco, della rivista Blast, conosciuti durante una delle ultime comparse in pubblico in Ares per presentare Un insegnante di provincia, dedicato a quel professor Fumagalli, l’“amico del paradosso”, che ai tempi della scuola gli aveva donato uno sguardo nuovo sulla realtà.

Ai primi di gennaio portai a Giampiero un disegno dell’amico Marcovinicio, il “pittore dei ghiacciai”: raffigurava due scarponi logorati dall’uso che avevano qualcosa della “fatica” di Van Gogh. Giampiero ne fu entusiasta e volle che il carboncino fosse appeso sulla parete di fronte al suo letto. Quegli scarponi erano come la sua poesia: umili e carichi di verità. E forse richiamavano quell’ultimo viaggio che stava compiendo.

Giampiero riuscì a rivedere le bozze di Utopie. Non ci trovammo d’accordo sulla copertina. Era la prima volta che accadeva dopo diversi libri pubblicati con Ares; gli avevo proposto un quadro che a me piaceva molto e che forse, per la dominante del nero, lui trovò malinconico. Fu un rifiuto secco. Io avevo fretta perché volevo licenziare il libro in modo che lui riuscisse a vederlo stampato. Mentre dialogavamo, notai alle sue spalle un quadro con due uccelli color turchese. Gli proposi quell’immagine come alternativa: lui aveva sempre amato gli animali e quei colori accesi avevano qualcosa di edenico. Così nacque la copertina di Utopie, il suo testamento spirituale.

Di quei giorni – che furono anche di lunghi silenzi – tenni un diario che incrociai con la lettura del bellissimo Giobbe di Ravasi pubblicato da Borla, scovato, tra l’altro, nella biblioteca di Cavalleri. Da quell’esperienza scrissi queste poesie. Il protagonista è un Giampiero/Giobbe in cui la realtà si mescola alla creazione letteraria: un omaggio e un ringraziamento a un maestro che per più di vent’anni mi ha indicato la strada.

Alessandro Rivali

**

VII

Prediligeva i poveri in spirito,
chi claudicava nella vita,
gli amori difficili, non corrisposti.

La sua Itaca era Piazza Libia,
con i suoi sconfitti, i platani
e la gioia delle forsizie in aprile.

Lo avevano accostato a Omero,
così attento ai dolori degli uomini,
ai loro sogni contrastati.

*

VIII

Aveva letto di una benedizione
che poi augurava a ogni amico:
dormire senza soprassalti,
con lente carezze sul viso,
vedere le tenebre diventare aurora,
rivivere lo slancio del primo amore
ed esaudito ogni disegno del cuore.

*

IX

Come era chiaro il libro di Giobbe
che sognava ancora l’aurora
una vita radiosa come il mezzogiorno,
i sogni senza ombra di serpenti,
le carezze lontano dalla fossa,
dagli uomini tarlati come legno,
con la pelle erosa dalle talpe.

Aveva a lungo negoziato con Dio
per rivedere l’acqua del giardino
ed estinguere quella lenta arsura.

*

X

Non aveva compreso la risposta,
temeva il ritorno di una sentenza amara.

Quella frana nel buio si attenuava
quando incontrava le parole di Osea:

“Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà,
Egli ci ha percosso, Egli ci fascerà”.

E la battaglia continuava.

*

XI

Aveva strappato la copertina del libro:
era più leggero per le sue braccia
segnate dai lividi e dagli aghi.

Si emozionava alla visita d’un amico
o di una stilografica color del mare.

Nell’ultimo tratto di strada
lo confortavano le piccole cose:

voleva lasciare l’ospedale
per rivedere i primi alberi in fiore.

*

XII

Voleva dialogare con Dio
come Mosè di fronte al roveto.

Eppure, vedeva le carovane
deviare dalla sua tenda,
preferivano smarrirsi nel deserto
più che incontrare tanto dolore.

Restavano caligine e scorpioni
e il timore della parola di Dio.

*

XIII

Il pittore di ghiacciai
gli aveva donato un disegno:
un paio di scarponi disfatti
che emanavano fatica e verità
come le sedie impagliate di Van Gogh.

Aveva voluto quel carboncino
di fronte ai suoi occhi
per prepararti al grande salto.

Perché per lui la semplicità
era un punto di arrivo,
un segno per ritrovare la via.

*

XIV

Avrebbe voluto vedere Dio
in sogno come Salomone,
per ogni esigenza del cuore:
una lunga discendenza,
il nome inciso su una stele
e poi giorni e opere feconde.

Era il corredo di giorni felici.

Ma su tutto cercava un amore
più forte della morte, un astro
che incendiasse ogni ora della vita.

***

«Effimere dalla forma inconsistente». Il teatro naturale di Giampiero Neri

A Cremona, sul lungo Po, c’è una piccola arena disegnata nel parco, ad affacciarsi sul fiume. Di solito ci stazionano i vecchi che pensano e ricordano, o le coppie ai primi giorni d’amore. Avrà il diametro di non più di dieci metri, compresi le tre minuscole gradinate. L’orchestra – come la chiamavano i Greci – centrale è microscopica, come una lente d’ingrandimento per osservare da vicino le nervature un filo d’erba o le squame delle ali di una falena. Io lo immagino così il mio teatro naturale. E se la vista sul Po può sembrare poca cosa, è solo il diffidente a non assistere allo spettacolo della natura, tra lucertole, pettirossi e siluri.

Tempo fa lessi una poesia di Giampiero Neri, veniva da un tempo antico. Il poeta ora parlava una lingua diversa. Aveva abbandonato la poesia: l’atto più poetico che un poeta possa compiere, il crimine più efferato contro la prosa. Il percorso poetico di Neri è stato circolare. Come ha iniziato, ha finito: nel solco della prosa lirica. Per Neri la poesia non andava a capo, la poesia era parola semplice, vera. L’uomo – prima ancora del poeta – che cercava la verità nel paradosso, come gli avevano insegnato i suoi maestri. Ma quella che lessi era proprio una poesia, con un titolo, con i versi, con gli a capo.

Effimere

Volano sulle correnti
di un invisibile oceano
che si suppone infinito
le diverse specie di effimere
dalla forma inconsistente.
Si manifesta allora
il principio di contraddizione,
benché duri soltanto un giorno o due
questo breve dominio,
effimero come dice il nome.

Pensavo al mio fiume che inghiottiva i canoisti. Pensavo a quante volte mio nonno rischiò la pelle fiutando troppo da vicino i mulinelli, con il sapere scientifico del pittore che osserva, assaggia, e si spinge al limite estremo. Inconsistenti, effimeri, destinati a vivere un giorno solo (o due), come le farfalle più belle, come le rose che appassiscono troppo presto, come i moscerini della frutta. Pensavo agli effimeri eschilei, in Prometeo. Il titano che dall’alto della rupe, punito per la sua (troppa) umanità, osserva l’uomo, l’effimero (ἐφήμερος). L’uomo è colui che tramonta in un giorno.

Effimere compare nella raccolta Teatro naturale, che Neri pubblica nel 1998 con Mondadori per la collana Lo Specchio. È il libro che racchiude tutti i suoi libri precedenti e che lo consacra al mondo della poesia come “maestro in ombra” (per me, maestro in luce). Edizioni Ares ha intelligentemente ripubblicato Teatro naturale in omaggio a Giampiero a un anno dalla sua scomparsa. Un libro centrale per capire Neri poeta e Neri uomo. Un libro che inquadra perfettamente – tra poesia e prosa lirica – lo spirito di osservazione, lo studio, ma soprattutto lo stupore del poeta nell’osservare la meraviglia della natura e della vita, proprio a partire dalle piccole cose: dal volo di una farfalla o dal comportamento di un gufo. Il palcoscenico su cui si svolge la fabula della vita, è un teatro naturale, che nella realtà sarebbe il teatro Licinium della sua Erba. Ne parla in una poesia senza nome, nella sezione Dallo stesso luogo.

Il teatro all’aperto era animato
di false rovine
piante di un giardino pubblico
e alcune innocue specie di serpi
natrice di collare e altre
non rare nel parco.
Nella fotografia del ’37 o del ’38
sei sullo sfondo del proscenio.

Era il 17 novembre del ’22 quando io e altri tre audaci – Fra, Fede e Gullo – decidemmo di andare a trovare Neri nella sua fortezza. Piazzale Libia era il paradosso assoluto. Milano è la più grigia delle città. Piazzale Libia era un’oasi nel deserto. Giampiero amava il verde e contò tutti i duecento alberi della sua piazza. Il poeta amava la provincia, veniva da Erba. La sua terra, la sua provincia, gli mancava. «Gli anni in provincia sono stati i più belli della mia vita» ci disse. E ci raccontò tutto. Suo padre, assassinato dai gappisti, la madre, la banca, l’uomo coi lunghi baffi, la fiducia per la povertà.

Parlava piano, ma voleva dire tutto. Il «maledetto lavoro letterario» che non porta soldi in tasca e la banca che sfama. Dante, la nostra salvezza. Jean-Henri Fabre, l’Omero degli insetti a cui il maestro era devoto. Ci scordammo addirittura di dirgli i nostri nomi, e per una mezz’oretta buona ascoltammo nell’anonimato, stranieri a casa del poeta. Il poeta aveva novant’anni e gli occhi di un neonato. Era pieno di vita. Anche nei mesi successivi, durante la sua rapida e tremenda malattia, pur asciugato nel corpo e più spigoloso in volto, aveva mantenuto gli occhi curiosi e docili, la voce profetica e paterna, gli archi di silenzio a intervallare ogni parola pronunciata. Fino all’ultimo dei suoi giorni – cioè delle sue notti: la notte tra il 14 e il 15 febbraio, un giorno d’amore – cercò la verità dappertutto, nella Bibbia, sotto le cartoline, in una partita dell’Inter. Scrisse in quei giorni Utopie, che non vide mai stampato. I testamenti sono per chi rimane. Chi va, non deve più preoccuparsi della poesia.

Qualunque sia il luogo d’elezione per i poeti una volta fatto il grande salto nel vuoto, la pensione dei profeti, di certo Giampiero ha riscoperto il suo teatro naturale, il suo bestiario ricco e provinciale, di lepri e uccelli e civette e api e farfalle e insetti brillanti e pesci di lago e piante e fiori.

Neri aveva una predilezione per i vinti, e avrebbe riservato lo stesso trattamento ad Ettore – massacrato dalla furente ira achea dopo aver sorriso un’ultima volta ad Astianatte – e al signor Giovanni, il senzatetto di Piazza Libia, una fucina di racconti, un testimone di verità. Neri è stato il Virgilio della contemporaneità, che con la sua narrazione epica e docile ha raccontato i vinti e ha cantato la vittoria della vita. Così, le api delle Georgiche generate spontaneamente dalla carcassa di un animale in putrefazione tramite la leggendaria bugonia, emblema della sconfitta della morte, del ritorno alla vita, diventano Segnali in Neri.

Segnali

Dei vari colori
pericoloso è il giallo
accompagnato al nero
nella forma dell’ape
e di altre specie più rare,
e la diversa varietà dei grigi
dei bianchi specialmente.

L’αἴτιον apre l’epillio di Aristeo, punito per aver provocato la morte di Euridice e gli strazi di Orfeo. Virgilio è il primo poeta latino a raccontare la favola del tracio cantore. Dopo il suo viaggio a vuoto agl’Inferi, cioè dopo aver perso una seconda volta l’amata Euridice, musa del suo canto, Orfeo viene ucciso dalle Baccanti, e la sua testa, galleggiando sul fiume, continua a cantare e invocare il nome di Euridice. Se la poesia non vince la morte, la morte non vince la poesia, e nella poesia vive in eterno il poeta.

Giulio Solzi Gaboardi

Gruppo MAGOG