«Ormai per me scrivere poesia è diventato un mio vero, profondo modo di essere, di pormi nel mondo per quello che veramente sono […] il poeta sente l’enorme divario tra le emozioni che ci aprono all’amore e la violenza che quasi soffoca il mondo: la base prima della cultura è sapere che al mondo ci sono anche gli altri…» (T. Baldassari, Qualcosa di una vita, postf. di A. Bertoni, Ass. Cult. Il Bradipo, Lugo, 2007, p. 62)
Molti altri brani simili a questo di Tolmino Baldassari ci permettono di centrare il tema intorno al quale gira non solo il mondo di un poeta, ma l’esistenza di un uomo, e di avere un’idea del suo vocabolario semplice ma essenziale: poesia, mondo, emozioni, amore, cultura e (corsivo dell’autore) sapere. È raro che poesia e vita coincidano, ma quando accade occorre fermarsi e riflettere un attimo.
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In uno dei primi importanti interventi sulla poesia di Baldassari Franco Brevini rilevava come la sua lingua dialettale si sottraesse allo «stereotipo giocoso della tradizione regionale», il «romagnôl sbraghê» di ascendenza guerriniana, «in nome della dura realtà del lavoro e dello sfruttamento, ben nota al poeta, già bracciante e sindacalista» (Le parole perdute. Dialetti e poesie nel nostro secolo, Einaudi, Torino 1990, p. 329); e in un’importante sede antologica Franco Loi, presentando Baldassari, rilevò come il poeta di Cannuzzo si avvicinasse più alle sponde delle Myricae pascoliane che alla tradizione drammatico-narrativa di molta poesia romagnola (da Guerra a Baldini a Nadiani a Spadoni). Due premesse critiche per dire che (a) non è possibile una reductio ad unum della tradizione lirica della poesia dialettale romagnola (e questo va da sé), in rapporto non solo a quella dialettale in generale, ma alla vasta e articolata tradizione del Novecento; (b) nel caso specifico di Tolmino occorre supporre una forma di “resistenza”, superiore alle attese, di quel sentimento di una letteratura come vita (per usare un’espressione invalsa in un contesto non troppo lontano) che porta a leggere la letteratura non in un’ottica autoreferenziale, ma alla luce di una interiore morale, ovvero al fine di attingere – riprendendo il titolo di un libro testamentario di Baldassari – «Qualcosa di una vita». Leggiamo ancora: “Le nostre letture sono percorsi di vita. La letteratura è vita, non superfetazione. Dentro c’è l’uomo, e quando non c’è si gira a vuoto. A ben intendere, l’uomo ci può essere anche quando non sia protagonista diretto dell’azione, ma in primo piano ci sia altro, purché non artificio fine a se stesso”. (Qualcosa di una vita, cit., p. 42)
Questo “qualcosa” ci rimanda, forse, a quel 5% di vita di cui Montale diceva, in tanti anni, di aver vissuto; ma in Baldassari, nella sua modesta consapevolezza, quale emerge dalle pagine del libro summentovato, ci pare di scorgere un’intuizione meno strategicamente depistante di quanto non dimostri di avere l’autoironica confessione di Montale: ed è il riconoscimento che non si può fare a meno della poesia, non dico tanto per dare senso alla vita, magari soddisfacendo certi impulsi narcisistici, quanto per comprenderne, se possibile, il disegno etico, e quindi lasciarvi un segno a beneficio di coloro che vorranno o sapranno scorgervi qualcosa della propria vita.
La poesia che riparte dalla cesura sperimentale degli anni Sessanta è uno slancio utopico che non obbedisce all’ambizione di un vano ripristino o di una faticosa salvaguardia (magari sotto un’asettica teca) dell’aura perduta della poesia, bensì risponde al desiderio di confrontarsi con il mondo, accolto nella sua complessa e persino contraddittoria varietà, attraverso la lingua della poesia.
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“Il poeta non è vate, non profetizza, non lancia appelli; nemmeno è voce querula, però. Egli vede, ascolta e sente e la sua voce è soprattutto un invito alla meditazione. In questo sta la sua dignità, e la sua necessità”. (Qualcosa di una vita cit., p. 66)
Mi ha colpito profondamente che il mondo di cui ha fatto esperienza Baldassari si presenta nelle prime pagine di Qualcosa di una vita attraverso le lenti del lavoro, a partire da quello – il più umile e duro – del bracciante: “Tra i mestieri della mia vita, quello che ricordo con nostalgia è quello di bracciante. Lavoravo, faticavo, ma ascoltavo anche le allodole, alte nel cielo. E ricordo tanti, tanti compagni di lavoro”.
Nostalgia? Mi pare un passo emblematico per entrare nella personalità di Baldassari: anche il lavoro più spietato non ottunde i canali delle emozioni (il canto delle allodole), e non fa dileguare i ricordi (i tanti compagni di lavoro). Credo sia interessante sottolineare questo aspetto del lavoro per comprendere meglio il quadro entro il quale matura la poesia di Baldassari, e per intenderne il messaggio, che altrimenti, staccato dalla sua matrice, rischia di scivolare in un lirismo neocrepuscolare. La sensibilità di Tolmino per quella che alcuni hanno interpretato come l’intuizione di una generica «aspirazione all’unità fra unità e cosmo», scaturisce, invero, da quell’orizzonte storico che si determinò dopo la guerra e che coinvolse quanti si erano battuti contro il totalitarismo con il sogno di realizzare «una nuova società, di buoni e di giusti» (Qualcosa di una vita cit., p. 26). Perciò, il Tolmino bracciante che diventa sindacalista non lo fa per sentirsi “funzionario”, salendo un gradino sopra agli altri, in maniera da imbonirli, e portando acqua al mulino del partito, ma per incontrare gli altri, e in quell’incontro (e scontro) sentirsi – avrebbe detto Saba, percorrendo città vecchia, o seduto al Caffè Tergeste – come gli altri. Possiamo ignorare la lezione che, negli anni di apprendistato sindacalista, Baldassari ebbe da qualche lettura di Marx e dei suoi interpreti? Si trattava, in fondo, di una filosofia che non era possibile calare sic et simpliciter nella realtà sociale, ma andava dosata affinché mutassero i rapporti di forza fra le classi, a favore dei diritti dei più poveri e sfruttati, ma anche perché il bisogno di riflessione esistenziale di un poeta non laureato, di umili origini, si coniugasse con la volontà di non venir meno al dovere di testimoniare.
Insomma, è come se la visione di matrice pasoliniana di uno “sviluppo senza progresso” costituisse la cornice della poesia di Tolmino: una cornice che non condiziona la scelta di temi affatto privati, personali, ma contribuisce a modificare la percezione di quegli stessi temi. In sostanza, Baldassari non si perita di fare della poesia engagée, non sente dentro di sé la vocazione dello scrittore impegnato, pronto a parlare sopra le righe, e però non trascura mai questo aspetto decisivo nella sua esistenza: l’esperienza del sindacalista, se non ha lasciato scorie nell’opera poetica, tuttavia ha trasformato, nello scrittore, le sue categorie percettive della realtà.
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Per Baldassari, l’aver rischiato la prigione, la condanna a otto anni di reclusione (con cinque anni di condizionale), nonché qualche ammenda pecuniaria, non lasciano traccia nei versi ma si depositano nella sua coscienza di uomo che si accinge a mettere la sua vita in versi, e si tramutano in una “forza di umiltà” che potrebbe ricordare analoghe esperienze (come quella di altri poeti-contadini, da Scotellaro a Buttitta) e intanto consente di vincere la tentazione di chiudersi in un sacello letterario in cui celebrare la poesia come un rito d’élite. La poesia in dialetto, in particolare, diventa il luogo di un conflitto linguistico interno alla tradizione letteraria, attraverso cui il poeta disancora finalmente la sua parola dall’idillismo vernacolare e la lega al destino sociale, suo e di quanti con lui condividono quella parola. Trattasi – avrebbe chiosato Nino Pedretti (Al vòusi, pref. di A. Stussi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1975, p. 11) – di «una lingua di sofferenza, di dolore e di rabbia […] una lingua tragica», in cui non c’è niente da ridere, come recita la poesia È pianafört di Baldassari:
Burdell, n’iv ’të d’astë da me
robi da ridar:
nench ste dialèt
e pò scòrar dla vita.
(‘Ragazzi, non aspettatevi da me / cose da ridere: / anche questo dialetto / può parlare della vita’)
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Probabilmente Baldassari non correrà mai il pericolo di diventare un poeta per lettori sofisticati. Uno di quei poeti non immuni da depressione asfittica: simili a piante cresciute nelle serre che temono la vera luce del sole, e se commestibili temono le padelle in cui dovranno affrontare qualche sapore forte. Di tutt’altra specie, Baldassari continua a sfuggire alle aule – e questo in parte è ancora la sorte di tanta poesia dialettale (non solo del Novecento) – perché cerca i suoi lettori nelle piazze, nelle vie, negli angoli di un borgo che sta rapidamente cambiando la sua identità per acquisirne forse un’altra. Forse. Perché non è detto che la poesia – estrema sponda cui il dialetto, lingua degli “umili”, approda dopo aver percorso i secoli fuori da ogni gabbia grammaticale – riesca a trovare sempre nuovi lettori e un giorno non si estingua.
Mi piace sottolineare questo aspetto perché spero esso possa confutare coloro che fanno del poeta che scrive in dialetto un “nostalgico” del dialetto, nel senso che cerca una lingua in grado di esprimere poeticamente la propria lacerazione psicologica, protendendo l’autore verso il «rispir d’un êtar temp». In poeti come Baldassari vi è un’istanza più profonda, translinguistica direi, che trova energia nella sensibilità creaturale per la natura e le cose, sorta di pietas rerum, nell’adesione etica e sociale alla terra, nella coscienza di «una medesima prospettiva destinale» (M. Cohen, Il gabbiano oltre il vetro, in T. Baldassari, Un mònd ch’u s’è stret, Il Vicolo, Cesena 2014, p. 10), com’è vero che «Siamo tutti poveri, per il nostro apparire fugace e a prima vista senza senso. Ciò che veramente interessa al poeta è il destino» (G. Lauretano, Prefazione, in T. Baldassari, L’ombra dei discorsi. Antologia 1975-2009, Puntoacapo, Novi Ligure 2010, p. 7).
In tal senso la poesia di Baldassari trova la via di una tonalità gnomico-sentenziosa talmente leggera, mai svagata, tanto meno risentita, da trascolorare senza sforzo dall’originaria valenza politico-ideologica a una schietta pronuncia filosofica, di taglio esistenziale, dei temi fondamentali della vita, afferenti alla sfera naturale, o che riverberano sentimenti e stadi emozionali: parliamo, per esempio, del tempo atmosferico, variamente declinato secondo le sue manifestazioni o fenomeni di brina, gelo, neve, pioggia o acqua; ma possiamo ricordare anche il binomio luce/oscurità, che trova fondamento in una notte carica di ombre e di presenza, di apparizioni e scomparizioni.
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Dicevamo della nostalgia. Sentimento che non concerne solo il dialetto, ma qualcosa di più profondo che in quella lingua si esprime, ed è una forma di vita (in senso agambeniano) che consiste in «un continuo fraterno dialogo tra gli esseri viventi, e al contempo, un naturale, intimo e religioso ponte lanciato con l’aldilà e l’altrove, come fitta trama di relazione silenziosa con le ombre-anime dei trapassati» (Cohen, Il gabbiano cit., p. 12). Vero che è proprio la poesia in dialetto ad apparire attratta, sin dai primi decenni del Novecento, non solo dal tema dei vecchi come custodi di un mondo che resiste e sopravvive alla storia, ma dal tema dei morti che hanno portato via con sé il segreto di un mondo sempre più spopolato, fra ricordi che premono e si affollano in una simultaneità di tempi mai trascorsi, e la lezione di un’altra forma di esistenza, per cui non mi pare errato costruire un percorso interno alla nostra tradizione da Pascoli a Tessa a Eduardo (penso, in particolare, alla commedia Questi fantasmi, del 1947), a Pierro, a Pedretti, a Bertolani, e quindi a Baldassari.
In Baldassari, così come avviene in altri autori neodialettali, la lingua costituisce un drammatico diaframma tra io e mondo, nel quale convivono due tempi: quello antico di una cultura contadina in estinzione, giunta al bivio tra rimozione e imbalsamazione, e quello di una cultura in caotica e tumultuosa espansione, sulla via forse di un’implosione planetaria; quello contrassegnato – si può dire in altre parole – dalla rarefazione di una poesia che allevia la ferita della subalternità, sofferta per secoli, del dialetto, e quello marchiato da una bulimia accumulativa che produce omologazione e standardizzazione comunicativa. Senza dubbio Baldassari è incline a percorrere la linea in direzione di un idioma aurorale, adamitico, pre-cristiano, fino ad approdare a un porto miracoloso «di chiarezza e intensità, di purezza e levità» (M. Cohen, La conoscenza per stupore, in «Il parlar franco», a. VII, n. 7, 2007, pp. 67-72), in cui ritrovare una nuova, più profonda ragione di poesia. Scrive Gianfranco Lauretano (Prefazione, a Baldassari, L’ombra dei discorsi cit., p. 6): “nel suo lavoro prevale non la ricerca della poesia, ma l’essere trovato da essa […] Ogni [suo] testo potrebbe essere l’ultimo e in questo abisso, in questo essere sull’orlo della fine della voce sta l’intensità dell’attimo che è ogni poesia”.
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Gli è che la poesia di Baldassari è inintenzionale: se è vero che la sua parola è “un fatto che succede”, allora ogni suo verso suggella la preminenza del farsi evento della poesia nel mondo rispetto al suo farsi progetto o programma o manifesto (così come avviene in tanta poesia del Novecento), e quindi la preminenza dell’attenzione, del gesto che rallenta il tempo dell’osservazione per cogliere (e sperare di scrivere) l’essenziale, rispetto alla ritualizzazione ossessiva e compulsiva della Modernità che sfigura la meditazione sul nostro destino nell’ansia di eluderla o disattenderla.
C’è una lezione, dunque, nella poesia di Tolmino, un messaggio che si divincoli dallo stigma di volatilità e impermanenza che scheggia i suoi versi, tra confessioni e preterizioni? Mi pare proprio di sì, e io lo vorrei esemplificare in un’immagine che mi piace, concludendo, ricordare: penso a quell’uomo che, recluso in una camera a scontare una malattia, allunga lo sguardo dalla finestra verso un’immensa campagna coltivata, in fondo alla quale si intravedono, immersi in una tenue foschia, i primi colli che volgono a sud, ancora si meraviglia davanti ai variabili fenomeni delle stagioni e, nello stesso tempo, non cessa di interrogarsi sulla sublime indifferenza della natura nei confronti di ogni io che, chiuso nella propria torre d’avorio, presume di occupare il centro del mondo che invece non lo riconosce – penso a quell’uomo che, nonostante la malattia, non mette da parte la coscienza della sua umanità coltivando il rapporto con gli altri, interagendo fino alla fine con il mondo, del mondo conservando un pensiero che non finisce.
Salvatore Ritrovato
(intervento letto alla giornata dedicata a Tolmino Baldassari, Milano Marittima, 18 gennaio 2020)