
“Nessuno si salva dalla verginità”. Gadda vs. Foscolo
Letterature
Nicolò Bindi
Non può esserci – credo – modo più futile e più esatto di morire. L’incontro accadde l’8 febbraio del 1837 – secondo il nostro calendario – a Pietroburgo, presso la Čërnaja rečka. Il poeta fu ferito, spirò due giorni dopo. “La morte di Puškin risvegliò Pietroburgo dall’apatia, tutta la città si riscosse”, scrisse Ivan Panaev, che scriveva su “Sovremennik”, la rivista fondata l’anno prima proprio da Puškin. La morte di Puškin divenne motivo di scandalo, poi di chiacchiera, infine l’emblema stesso della poesia. Ne trassero quadri, brevi drammi, che tendevano al grottesco, e una vaga morale sul destino. Molti anni dopo, l’8 giugno del 1880, Fëdor Dostoevskij pronunciava il suo fatidico Discorso su Puškin, facendo del poeta “un fenomeno straordinario, un fenomeno unico dell’anima russa… un fenomeno anche profetico”, ovvero “il principio della nostra vera autocoscienza”. Era un ribaltamento critico, una conversione, potremmo dire. Puškin, cresciuto in adorazione di Byron, diventava una specie di Isaia della letteratura russa, il suo Messia. Non a caso, nelle postille al discorso, Dostoevskij – con spirito autenticamente profetico – passava dai versi di Puškin all’anatema contro l’Europa, di cui intravedeva “il crollo totale e terribile”, “formicaio edificato senza Chiesa e senza Cristo, dacché la Chiesa, intorbidatosi il suo ideale, già da un pezzo si è trasformata in Stato”. il fulcro del discorso di Dostoevskij, in effetti, più che sull’“Onegin”, autentica enciclopedia della vita russa e bacile di ‘caratteri’ di vasta umanità, si basava sul poema, dalle folgori folkloriche, Gli zingari (lo cito secondo Tommaso Landolfi):
Gli zingari in chiassosa folla
Vagano per la Bessarabia,
Oggi sul fiume
Nelle lacere tende pernottano.
Come la libertà è giocondo il loro giaciglio
E pacifico sonno sotto il cielo.
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Però, ecco, il 10 febbraio di parecchi anni fa morì, a 37 anni, Aleksandr Puškin, il più grande tra i poeti russi, l’iniziatore dell’autentica letteratura russa. Anna Achmatova amava i drammi brevi, dove la scrittura di Puškin, se possibile, è ancora più nitida, distillata, una coltelleria in cristallo (io partirei dal Viaggio ad Arzrum, un reportage che è ancora scattante). Del Convitato di pietra, scriveva AA, sorprende che è “un’opera personale, autonoma, la sua caratteristica fondamentale è determinata non dal soggetto della leggenda, ma dalle vicissitudini liriche, personali di Puškin”. Insomma, Puškin è Don Giovanni, che non crede ad altro che al “caso” e per cui l’amore è un “triste segreto” di cui trovare l’arcana combinazione. Amare richiede audacia e strategia: Puškin, in effetti, che aveva fama di essere libertario, progressista, massone, era un dongiovanni. Rientrato dall’esilio, dopo che la polizia zarista aveva sgominato il moto dei decabristi, amici suoi, prese a corteggiare Natal’ja Gončarova. La bellezza di lei – il poeta la conobbe che era sedicenne, nel 1828 – era implacabile; si dimostrò pericolosa. La sposò nel 1831, in febbraio, ebbe quattro figli. Nei ritratti, la Gončarova appare glaciale e inafferrabile: in quel mondo di balli, pettegolezzi e allusioni, era molto desiderata.
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Forse non c’è altro modo, per un poeta, che morire per difendere l’onore di una moglie distrattamente frivola, per causa di una inezia. Aveva sfidato a duello Georges D’Anthès, damerino di Francia adottato dall’ambasciatore olandese, pochi mesi prima di morire, nel novembre del 1836. Era un’epoca piena di spie – Puškin fu sempre sotto silenziosa sorveglianza delle iene dello zar –, come oggi, per altro, e in cui una lettera anonima poteva provocare tsunami. La seconda lettera che mirava a Puškin dandogli del cornuto fu di troppo. Questa volta i ghirigori di corte non impedirono il duello e D’Anthès, “un giovane bello, allegro, gioviale, espansivo, scanzonato – un campione della vita” (così Serena Vitale, nel romanzo-saggio, raffinatissimo, Il bottone di Puškin, Adelphi, 1995), in sintesi, un fascinoso coglione, uccise il poeta. Anche questo è affascinante: uno dei più grandi poeti di ogni secolo – e dei più grandi scrittori – ucciso da un lacchè senza talento, da un dongiovanni in minore, da una graziosa canaglia, damigella degli affari laidi altrui, insomma, da un soprammobile. Anche in questo c’è un segno, che riguarda, credo, la vanità e la grazia, le pernacchie del fato, le moine della gloria. Esiliato dalla Russia, Georges d’Anthès, nato nel 1812, morì in Francia nel 1895, piuttosto ricco: si vantava dei suoi intimi incontri con la moglie di Puškin, ed ebbe una carriera politica brillante. “Era del tutto soddisfatto del proprio destino e in seguito disse più di una volta che solo al fatto di aver dovuto abbandonare la Russia a causa del duello doveva la sua brillante carriera politica”, scrisse Mérimée. La Gončarova, protetta dallo zar – di cui si sussurrava fosse una delle più fatue amanti – si accasò nel 1844 con il generale Pëtr Lanskoj, gli diede tre figli, passò alla leggenda, morendo, nel 1863. L’ultima figlia del poeta, Natal’ja Puškina, non aveva neanche un anno quando morì il padre: il quadro di Ivan Makarov ne ritrae la bellezza, sconvolgente.
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Puškin pare il punto di scontro tra leggerezza e rivelazione, tra un lezioso nichilismo e una sensibilità sovrana. “Inebriatevi della vita, amici, della sua levità! Io ne percepisco il nulla, poco le sono legato; ho chiuso le palpebre ai fantasmi, ma remote speranze turbano il cuore: infine, sarebbe amaro lasciare questa vita senza un’ombra appena percettibile. Vivo, scrivo, non per gloria, ma per glorificare il mio triste destino”, scrive nell’“Onegin”, il poeta. Non troppi anni fa gli dedicai un racconto, che ricalco. Mi firmavo Ivan Bunin – ennesima prova di un disturbato narcisismo –, il libro si concentrava su San Paolo, credo. (d.b.)
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L’immortale
«Se Dio non morisse davvero, Gesù non sarebbe l’autentico Cristo»
Era già morto innumerevoli volte Aleksandr Puškin, il poeta, prima di quel giorno, il giorno della sua morte. Era l’8 febbraio, il cielo era bianco, inconsistente, e al poeta, ancora una volta, sembrò di vedere le stelle, perfino le stelle del primo giorno del mondo, quelle scaturite dalla pupilla di Dio. Il poeta immaginò universi non ancora accaduti e mentre decise, ancora, di indossare la divisa blu con cui aveva sedotto la moglie anni prima, anni, purtroppo, indimenticabili, Pietroburgo gli parve più piccola di una parola, gli parve un cane, invidioso degli umani.
Aleksandr Puškin, il poeta, rilesse la lettera che gli era stata recapitata da due mesi, in cui la moglie era giudicata «viziosa», una «vispa sgualdrina» che se la faceva con Georges D’Anthès, figlio adottivo dell’ambasciatore d’Olanda, mentre «il negro dai riccioli selvaggi», come era sfottuto il poeta per via dell’avo, il bisnonno, il principe africano cresciuto alla corte dello zar, «impavido sulla carta stampata, è un impedito nel talamo nuziale». Quelle offese non impressionavano il poeta, ma le memorizzò trovando una ragione per partecipare al duello che egli stesso aveva scatenato. Un poeta non ha nulla da difendere, tanto meno l’onore, la reputazione, la propria donna – ma i capricci di una moglie sono più forti di Dio.
37 anni sono un’età perfetta per morire, si ripeté Puškin, l’autore dell’immortale Eugenij Onegin; è necessaria una morte clamorosa per sigillare la mia eternità, si disse. Eternità, ripeté, guardandosi nel vetro della finestra che si aggiustava il collo della giacca, come se non fosse lui. Dov’è l’anima?, si chiese, spiando i suoi occhi larghi, come quelli di un bue – lì, si disse, ancora una volta, ma con più convinzione, ci sono le anime degli uomini che ho ignorato, e le mie poesie. Ricordò il verso che aveva scritto il mese prima, un giorno di dicembre, quando gli alberi, canonizzati dal ghiaccio, parevano statue di santi, milioni di apostoli di un dio indegno. Non morirò del tutto, aveva scritto – per troppa ambizione, ho stilato la mia condanna, pensò.
Pensò a quanti Puškin erano morti fino a quel momento. Milioni. Miliardi. È questa allora l’eternità?, si domandò Puškin, il poeta, consapevole che la sua opera, ora, decine e decine di anni più tardi, era studiata in tutte le Università del mondo, che Dostoevskij lo aveva onorato come il più importante poeta dell’Occidente, un vero “padre della patria”, che Lev Tolstoj lo considerava il suo maestro – intuì perfino il tempo in cui il suo poema, ora imparato a memoria, sarebbe stato dimenticato, insieme alla lingua russa e a ogni alfabeto umano, sperando che un suo verso, una sua sillaba sigillasse quell’era di immacolato silenzio. Si domandò, il poeta, ancora una volta, se eternità significa morire innumerevoli volte la stessa morte. Pensò che sarebbe bastato battere le mani per far sparire Pietroburgo, inghiottita nel pensiero eccentrico e ingordo di un feroce sovrano mongolo. Pensò che era ozioso morire per una moglie che lo tradiva per noia e che il bel francese, D’Anthès, non era un uomo peggiore di lui.
Indossando i guanti, nuovi, acquistati per l’occasione, neri, pensò che sarebbe bastato chiudere gli occhi, sigillarli, per sparire. Ma Puškin, innumerevoli vite dopo Puškin, era pur sempre un poeta – e sperò. Sapeva già dei funerali, della folla e perfino delle vignette che lo ritraevano a terra, vicino a una betulla, con il petto squarciato e la faccia romanticamente severa. Secondo gli uomini un poeta non può amare più di tanto la vita, è proteso nell’opera, antagonista al mondo. Ma il poeta è altro dalla sua poesia, infinitamente, pensò il poeta, ancora.
Sapeva tutto della vita e della morte, Puškin, allora, dopo aver vissuto così tante volte se stesso – ma sapeva qualcosa di sé? Sapeva, ad esempio, l’agonia che avrebbe subito, ferito a morte dal proiettile – non avrebbe riconosciuto alcun viso amico o noto, neppure quello dello zar; certo che le opere migliori non le aveva ancora compiute, se le sarebbe dettate in mente, intanto, soffrendo. Pensava, forse, di ripeterle a Dio. Credeva in Dio, Puškin, la prima volta in cui morì – e si sforzò di credere e di sperare durante tutte le altre morti. Neppure questa volta si accorse della carrozza, silenziosa, e delle strade simili ad acqua. Ricordava perfettamente il viso del giovane che aveva sfidato – perché non si era preso lui, al posto suo, sua moglie? –, per cui il poeta decise di non guardarlo.
Ogni volta cercava di compiere un piccolo gesto che non aveva mai compiuto prima, durante le altre vite, le altre morti. Gli sembrava di non ricordare altro che la sua vita – l’opera a poco a poco si sbiadiva, moriva, apparteneva a un Puškin remoto, defunto. Ricordò che sarebbe morto il 10 febbraio, un giorno in cui molti uomini nasceranno, molti si uccideranno, disse al suo braccio. Quando si trattò di sparare, il poeta aprì a sufficienza il braccio, in modo adatto, per schivare D’Anthès e per offrire il petto al proiettile del rivale. Alcuni giornali avrebbero scritto che il poeta «sorrideva» ricevendo il colpo, che si accasciò al suolo «come inchinandosi, per nulla sorpreso, come se fosse già morto, come se sapesse di non morire mai». Più moriva e meno il poeta si dimenticava di sé – questo gli sembrava davvero diabolico.
Sono forse l’unico uomo al mondo che vive?, si domandò, come ogni volta, scegliendo la betulla sotto cui accasciarsi e rompendo il roveto di braccia che volevano sostenerlo a tutti i costi, anche quelle del rivale, tramortito dal pensiero di avere ucciso un monumento nazionale. Non morirà del tutto, gli sembrò che dicesse D’Anthès, che ripetessero i padrini del duello, i testimoni, gli alberi, le case. Non si sentiva leggero, ma responsabile della colpa che assorbiva, da ora, la vita del francese. Non riuscì a capire dove fosse la sua anima, probabilmente non la possedeva. Ancora una volta, il poeta sperò di morire, per sempre.
**In copertina: Ilya Repin, Il duello tra Onegin e Lenski, 1899