28 Gennaio 2025

Tra crani di mammut e carcasse di lupi. Ovvero: in cerca del verbo paleolitico 

All’università, un corso di archeologia – passai mesi a numerare cocci, barlumi di suppellettile, pietre varie. Infine, rifiutai di fare l’esame: l’esperienza era stata sufficiente. Le selci mi parevano Genesi: parola che proveniva da un al di là dell’uomo, da un’alba da cui ero espulso – ne sanguinava, radioso, il palmo.

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Di quegli anni – svelti, come lepri – ricordo un libro. Le religioni della preistoria. Di André Leroi-Gourhan, antropologo, pioniere negli studi paleontologici, francese, prof alla Sorbona. Il libro è stampato da Adelphi nel 1993. 

Credo che l’idea, come sempre, fosse quella di scoprire la parola che precede. La parola prima del parlare. La parola prima che sgorgasse dalla gola di Dio. La parola fondamentale – la parola affondata. 

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“L’uomo preistorico ci ha lasciato soltanto messaggi monchi”, scrive, prima di tutto, Leroi-Gourhan. Come i detti di Eraclito: ciò che ci resta di allora è un enigma; l’infanzia del verbo; il pre-verbo. Che bello: una parola con i denti. Una parola lalia, ninna nanna per le fiere. Una parola che si dica come si rovescia il latte. 

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Più che altro, mi interessavano le immagini, folgoranti, pullulanti, in quel libro. 

“Nel caso delle carcasse di lupi in Moravia, è perfettamente verosimile supporre che i paleolitici abbiano avuto un’idea molto precisa del valore religioso del lupo”.

“Numerose sono le scoperte di crani di mammut in Ucraina e in Russia”.

“Nelle grotte profonde dell’Europa occidentale e centrale sono presenti teschi e ossa di orsi delle caverne che fanno pensare a una disposizione intenzionale”. 

Tra le scoperte e gli scavi, questa imago lavora a lungo nella mente:

“Lo scheletro di un bambino neandertaliano che fu scoperto nella grotta di Tešik-Taš, nel Turchestan, giaceva fra cinque stambecchi uccisi disposti in maniera più o meno circolare”. 

Il defunto, per spaiare i mondi, ha bisogno di abili destrieri. Forse. In quel bambino è regale l’infanzia – è un assoluto. Quale parola a fermento sulle sue labbra? Una parola come il fuoco. 

Con che nome lo designavano? Quali disegni aveva sul corpo? E imitare le linci, non fosse così bello l’altalenio delle stellate. 

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Cosa ci affascina della preistoria? Forse: una inesistita innocenza. Il punto in cui tra albero e torrente era lo stesso nidificare di voci. 

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Leroi-Gourhan è una lettura importante perché questo studioso mostra – non deve dimostrare, non spiega, non va per ludi filosofici, non affligge con teofanie o teogonie. 

Ciò che mostra è sufficiente. Le fibbie d’osso dipinte; costole a sciabola con decorazioni; femori in elsa scavati con figure di belva. Alcune suppellettili hanno magnificenza: un manico raffigura un cavallo; ossi recisi recano iscritto il profilo di un orso, di una foca, di un lupo. 

L’osso, ciò che della vita resiste, rinsavisce in altro uso: è spatola e coltello, freccia e pendaglio; ornamento. Anche i morti – come gli sposi – hanno una dote. I vivi indossano le vestigia ossee dei morti. 

L’uomo rivitalizza lo scheletro – lo acquista nel suo mondo di simboli e di arcani crani. 

Il palco di una renna, modellato e con figure di bisonti, cos’è ora? Su tutto, una resurrezione continua, un dio di arboscelli che si lecca le dita di questo miele. 

Qualcosa che precede l’eroismo, dico, l’iliadico dire, qui, è poltiglia, è nume senza fosforo. Parola che sappia concatenare la renna e la betulla, il bambino e il fiume, la caccia e quella tenuta di stelle, a babordo, inclini alla tigre, al grido, alla grandine. 

Dell’alba, raccogliere le feci – farne concime. 

Quando si moriva – laio ai lari – e non esisteva la morte perché tutto lo era ed eccedeva. 

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Nel 1999 L’albatro edizioni, in Porto Sant’Elpidio, pubblica il libro d’arte Ossa incise e dipinte. È l’ultima porzione di un lavoro che tre anni dopo, con Jaca Book, Alessandro Ceni pubblicherà come Mattoni per l’altare del fuoco. Le poesie, anche con fotografie di autografi, dialogano con l’opera artistica di Ceni, australe al noto, tra Francis Bacon e le pitture parietali. 

Tutto, dunque, conviene al rituale. 

Ancora: la cerca della parola che ci precede, che azzanna alle spalle. Ovvero: nessun fromboliere amore per i primordi – ossessione dei poeti georgiani, che fissavano Stonehenge estatici, con gorgiera di gorgheggi – ma: verbo che insemina il futuro, principiandolo, da principiante. Parola-nenia, in grado di convocare le mandrie passanti, le beccacce, i pulcinella di mare, i secchi rivi, le deformi sorti. 

Così scrive, tra l’altro, Antonio Santori a preludio di quel libro:

“Le ossa rappresentano l’elemento essenziale ed in qualche modo permanente della realtà, indicano il permanere della sostanza nonostante il divenire e quindi sono il simbolo primordiale dell’essere: è per questo che il luz (mandorla) o il shih-li sono ossa molto dure: ‘La contemplazione dello scheletro da parte degli sciamani è una sorta di ritorno allo stato primordiale attraverso la spoliazione degli elementi deperibili del corpo’”.

Succhiare la parola fino all’osso, fare lo scalpo al linguaggio: del suo sangue si nutrono gli inferi, i poeti in termitaio. 

Il biancore abbacinante dell’osso. Osso come giglio. Osso virgineo – da fecondare con segni al galoppo, galoppini dello spirito. 

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In una bancarella, qualche tempo fa, un piccolo libello da tasca, Il S. Sacrificio: stampato a Roma nel 1943, è un manuale “per comprendere bene la Santa Messa”, siamo prima del Concilio II. Il rito è intercalato dal “Memento dei vivi” e dal “Memento dei morti”: le parole latine non sono fossili, ma strumenti per dissennare antiche serrature. Con segni e parole il sacerdote si consegna, incide l’aria come fosse l’osso di un bue – andare in chiesa come nel ventre della balena; andare al rito coi ramponi. 

Scrive Leroi-Gourhan riguardo alla religione paleolitica: “L’uomo non può esercitare la sua facoltà di comprensione e il suo dominio se non attraverso i simboli della creazione… Del Paleolitico ci è giunto soltanto lo scenario, mentre sono rarissime, e quasi sempre incomprensibili, le tracce degli atti”. 

La parola non va inventata ma dissotterrata, semmai – raccolta a reti aperte, finché dell’angelo, Moby Dick celeste, non resti che l’assunto in spine. Gli altri s’immergano nell’attuale, inesistente – noi immaginiamo tutto il resto, e immeritati ne prendiamo l’osso, la maschera, il bastone. 

Gruppo MAGOG