È una regione piatta verso oriente, il Norfolk, in più parti aperta a ventagli di fiumi e laghi, acquitrini e canali navigabili. Chiamati Norfolk Broads, distendono ampie zone d’acqua e selve di canneti, mulini con bianche pale che ruotano come braccia di giganti seduti su prati di campagna. Nei porti, imbarcazioni colorate stanno all’ancora tra insenature più calme. Un mondo acquatico solcato da vele e gabbiani risospinti all’interno dal mare non lontano. Un’Inghilterra idilliaca, per molto tempo meta di weekend o vacanze della middle class britannica. Ci andava con i genitori da bambino, John Betjeman – Sir Betjeman dal 1969.
Dopo Cecil Day-Lewis e prima di Ted Hughes, la regina Elisabetta lo incorona Poet Laureate nel 1972. Il Poeta Laureato più “popolare”, sembra, dopo Tennyson: per la musica dei suoi componimenti e la scioltezza quasi dimessa dei suoi temi sarà molto letto e amato quanto ignorato dall’intellighenzia. Vivrà da outsider in poesia e nella vita.
Nato nel 1906 a Highgate, Londra, da bambino il suo miglior amico è il suo orsacchiotto. La madre è una suffragetta, il padre l’erede del mobilificio di famiglia. Con lui il giovane John entra presto in contrasto per l’acerba decisione di non seguirne la strada negli affari. Lo racconterà, non senza pathos, nella celebre Summoned by Bells, Chiamato dalle campane, autobiografia in blank verse nella migliore tradizione aulica – lo stesso verso dell’autobiografico Preludio di Wordsworth. La pubblica Murray, l’editore di Byron.
I Betjeman vivono in una bianca casa edoardiana alto borghese a Hampstead, ma il cognome pur di origini olandesi ‘suona’ molto tedesco: a scuola il bambino viene bullizzato dai compagni. Tra i suoi insegnanti c’è T.S. Eliot. Divergendo da lui, in poesia John inseguirà sempre la chiarezza dell’opale. Le cose non migliorano alla public school: il ragazzo soffre la mancanza di riservatezza, una vita sempre in comune con i compagni, detesta gli sport e l’agonismo. Trova un rifugio precoce nella poesia e nella scrittura. Al Magdalene College di Oxford lo accoglie invece un ambiente a lui congeniale. Sotto le guglie d’oro le sue ambizioni ed eccentricità trovano una casa. Si fa amici come Cecil Beaton e Evelyn Waugh, che gli saranno vicini per sempre. Conosce Auden e Louis McNiece, che influenzeranno la sua scrittura.
Nel 1928 lascia Oxford senza essersi laureato. La poesia, come il suono delle campane, lo ha già “chiamato”.
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Negli anni a venire alterna alla scrittura dei versi e a una quotidianità tranquilla incarichi incredibili, più da James Bond che da posato signore di campagna. Sarà infatti spia per il governo britannico durante la guerra e addetto stampa presso il Ministero dell’Informazione. Fornirà rapporti sull’IRA e l’Irlanda neutrale. Tramite la sua rete segreta, verrà persino a sapere che l’IRA progetta di ucciderlo. Tuttavia, quando uno dei capi irlandesi legge le sue poesie, desiste dall’attentato: come in un romanzo di Graham Green o John Le Carré, il poeta è salvo.
Al suo ritorno in Inghilterra trova una lingua e uno stile definitivi, in cui i suoi lettori possono immedesimarsi e sentire propri, affina l’ironia generosa, amplia la benevolenza del suo sguardo sul mondo. Spesso fonde una lingua molto informale, quasi gergo o conversazione, e alta tradizione di forme: sempre, c’è nei suoi versi l’identificazione completa con la nazione britannica, i suoi valori, le sue idiosincrasie, i suoi ideali. E una punta di dolore nella delicatezza.
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Pubblicata nel 1954, Norfolk è inserita nella raccolta A Few Late Chrysanthemums, Ultimi crisantemi. Alla sua uscita l’autore ha quarantotto anni. La lirica ricorda il periodo in cui – il bambino aveva otto, nove anni – i genitori lo portavano a remare in barca sul fiume Bure e nei Broads.
La lirica racconta un momento della vita mai più recuperabile: il contrasto tra l’uscita dall’infanzia – con la limpidezza dei suoi sogni inviolati, i desideri ancora immuni da delusione – e il contatto con lo stridore della realtà, la consapevolezza incisa dall’amarezza che, dopo, la visione non sarà mai più così tersa. Un’epoca rimane indietro, per sempre. Nell’irrevocabilità delle sue ombre e dei suoi suoni retrocede a proiezione mitica. Nevermore, “Mai più” prende i colori del paesaggio del Norfolk, un candore d’ali improvviso, grigio azzurro d’acqua, rive e canne. Le parole stesse diventano lucentezza senza peso. L’immediata spontaneità dell’adesione infantile a cieli ed erbe, acqua di lago e rami d’albero è ricreata nel ricordo: perduta e ormai risospinta nel passato, si fa canto. È modulata in elegia.
Qui l’elegia intona gli accentuati ritmi musicali tipici di Betjeman, quel che per lui è il ‘canto’. Le rime scolpiscono melodia. Lo sfondo è il paesaggio agreste conosciuto dal bambino con sentieri che cadono dalla cima di colline tese all’orizzonte, la figura paterna in abito di tweed dietro di lui, un bastone con cui il piccolo John percuote una palizzata. Nel paradiso tra i campi, però, si è già insinuato il serpente. E “gli anni precipitano” gli uni sugli altri, a ritroso in un passato che sembra comunque un “eterno presente”:
Com’è arrivato il Diavolo? Quando il primo attacco?
Questi sentieri del Norfolk ricordano l’innocenza perduta,
Gli anni precipitano e mi sorprendono a camminare nel passato
Mentre trascino un bastone lungo lo steccato
Giù per lo stesso sentiero dove, quarant’anni fa,
Mio padre mi seguiva, calmo e a passo lento.
La scena campestre, punteggiata di frassini e ontani tra ombra e sole si apre all’acqua, anche simbolicamente il paesaggio inizia a ondulare, manca di stabilità. Come un giocattolo enorme spunta dalla baia l’albero della loro barca, ormeggiata sulle rive del fiume:
Mi riempivo le mani di semi di acetosa
E glieli lanciavo a pioggia dall’alto dei gradini
Davo la carica il suo abito di tweed
Perché scendesse più in fretta quelle miglia esauste
Di sentieri all’ombra di frassini e ontani, finché
Apparivano il nostro ormeggio e l’albero maestro.
Dalla scena diurna il bambino di allora, trasformato nell’uomo adulto che ricorda, passa al momento delle ombre, la cena al tramonto, la piccola tavola a bordo, la luce della lanterna.
Poi vediamo la notte sul fiume, la barca che ondeggia nel buio, lui dentro al sicuro nella cuccetta, il mondo esterno chiuso fuori se non per il suono del fiume che parla con le canne e la luna. Tutto meravigliosamente semplice:
Quei dopo cena alla luce della lanterna
Caldo in cabina mi stendevo al sicuro
E ascoltavo contro i fianchi lucidi di notte
Lo sciabordio che andava e veniva del limaccioso Bure,
Un frusciante e liquido suono del Norfolk
Che raccontava tutte le canne intorno illuminate di luna.
I versi di Betjeman fissano il proprio centro nel ‘comune’, quasi nell’‘insignificante’– un poco sembrano le piccole “buone cose di pessimo gusto” di Gozzano –, suo scopo di poeta è reperire, ‘localizzare’ le profondità del ‘comune’. Mischiare nostalgia e senso dell’umorismo, sottrarre peso alla tragedia con un sorriso. Lontano per mentalità e poetica dai modernisti o da Auden e la sua cerchia, la sua seconda raccolta porta il sottotitolo eloquente di Un piccolo libro di versi borghesi. Eppure, è proprio a lui che Wystan Auden dedica l’Età dell’ansia, sottotitolato Un’ecloga barocca, in omaggio alla sua sensibilità per un mondo quasi arcadico, l’Inghilterra prima della guerra.
Dopo la quiete dei riverberi di lanterna, la cena e la cabina, il rumore cullante dell’acqua e la luce benevola della luna, l’attacco della terza strofa ribadisce il dramma, non meno violento per la cornice idilliaca, conseguenza inevitabile del tempo che passa portandolo con sé:
Com’è arrivato il Diavolo? Quando il primo attacco?
La chiesa è sempre la stessa, ma adesso so
Che l’ha restaurata Fowler di Louth. Tempo, riporta
L’ignoranza appassionata di tanto tempo fa,
La pace, prima che la terribile luce del giorno inizi,
Di promesse non mantenute e di cuori infranti.
L’Eden non è inviolato, ma la chiesa è la stessa. Qualcosa resiste d’immutato nel cambiamento. Per un attimo, pensiamo, al lettore non serve forse sapere di più, c’è anche il nome dell’architetto che l’ha restaurata. Tranne l’appassionata inconsapevolezza, l’invidiabile leggerezza delle “promesse non mantenute e di cuori infranti”, quando i litigi erano solo “una guerra delle fossette” di casa Dickinson, quando il tempo da un’estate all’altra sembrava l’eternità.
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All’epoca in cui il piccolo John vaga per la campagna e i corsi d’acqua del Norfolk inizia a fermarsi in ogni chiesa per “dare un’occhiatina”. Cappelle e basiliche lo affascinano: la passione per le chiese d’Inghilterra sarà tra le poche a condividere con il padre.
Poeta affermato, sfrutterà il suo profilo pubblico per salvare alcune chiese tra le più belle di Londra, come la negletta Saint Mary’s on the Strand. Fonda la Victorian Society per la salvaguardia del patrimonio architettonico britannico.
In Tv firma una serie di documentari, Discovering Britain, “Alla scoperta della Gran Bretagna” e sua celebrazione dai grandi monumenti ai sobborghi. La serie ha largo successo, Betjeman ama la TV anche se “essere popolari – ripete – è essere svalutati”. Dallo schermo lamenta l’espansione sconsiderata del cemento, le mostruosità architettoniche moderne senz’anima, i cambiamenti radicali e meccanici del paesaggio, l’allargarsi delle città tentacolari che soffocano i piccoli centri.
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Quando gli comunicano l’elezione a Poeta Laureato, non è in the mood per festeggiare: “la perfezione è il mare – dirà al giornalista che lo sta intervistando – le onde, la luce che cambia…”. Sprofonda abbastanza presto nel buio del Parkinson, e la vecchiaia tante volte ritratta nei suoi versi diventa realtà anche per lui.
Alla sua morte nel 1984 in Cornovaglia, parte d’Inghilterra che ama molto e dove vive, è sepolto all’aperto, sul prato antistante la piccola chiesa di St. Enodoch.
Di lui rimangono i suoi versi, “tagli nell’aria”.
Paola Tonussi