
“Venerati e dissacrati”. Gita con Evelyn Waugh nei Luoghi Santi
Letterature
Giacomo Alessandrini
Thomas Wolfe era alto un metro e novantotto e non sapeva che da quell’altezza avrebbe scrutato tutto il corso della letteratura americana. Per scrivere, non trovando tavoli o scrivanie adatti alla sua stazza, utilizzava il ripiano del frigorifero, rimanendosene alzato per ore in preda a quei furiosi accessi di grafomania che resero leggendaria la sua esistenza. A scacciare dall’oscurità la vita tumultuosa di questo scrittore esageratamente talentuoso ci ha pensato, nel 2016, un film altrettanto bello: Genius. Realizzato da Michael Grandage con due attori d’eccezione – Colin Firth e Jude Law – il film, tratto da un libro di Andrew Scott Berg che indaga anche le vicissitudini di Hemingway e Fitzgerald, si concentra sul rapporto tra Maxwell Perkins, editore appassionato e paziente, e Thomas Wolfe, giovane vulcanico e impulsivo, che proprio in Storia di un romanzo, dedicato al suo rapporto con Perkins e alla gestazione estremamente tormentosa dei suoi libri, confessa che le parole che scriveva gli uscivano «dal cuore come lava bollente da un vulcano».
Nato allo scoccare del secolo ad Asheville, Carolina del Nord, iniziò la sua carriera collaborando al giornalino scolastico, facendosi notare grazie a una poesia sulla Prima guerra pubblicata in una rivista. Contrariamente a tanti altri autori, il cui destino di romanziere sembra segnato fin dall’inizio, Wolfe non voleva fare lo scrittore. Il padre, uno scalpellino che produceva lastre tombali per il circondario, amava il teatro e la poesia, tanto da declamare a memoria interi componimenti che risuonavano per la casa come un avvertimento e una profezia. Fu così che Wolfe, estremamente legato alla figura del padre, in cui vedeva «la meta a cui aspira l’uomo, non il padre della perduta giovinezza, ma il padre come immagine di forza e di saggezza in cui si congiungono, al di sopra delle sue necessità e della sua fame, la fede e l’energia della sua vita», decise di intraprendere la carriera da sceneggiatore e di votarsi alla poesia, seguendo i dettami di una memorabile definizione di Dryden a proposito di Ben Johnson per cui «altri leggono libri, ma lui leggeva biblioteche».
Si iscrisse ad Harvard, seguì il corso di drammaturgia tenuto dal celebre professor George Pierce Baker, il maestro di O’Neill e di Dos Passos e che, con il nome di “professor Hatcher”, compare nel secondo romanzo di Wolfe, Il fiume e il tempo. Durante l’università collaborò al giornale e ad altre riviste; per due anni seguì i corsi di arte drammatica, scrivendo parecchi atti unici nella convinzione che sarebbe diventato «avvocato o giornalista, senza mai ardire seriamente di pensare alla professione di scrittore», finché, vedendosi rifiutati i suoi lavori, nell’autunno del 1926 raggiunse Londra e lì, «come, perché e in qual modo non sono mai riuscito a stabilire», cominciò a scrivere il suo primo libro.
Durante il giorno scriveva su grandi registri e di notte, «le mani incrociate dietro la testa», sdraiato sul letto, pensava a quello che aveva scritto e udiva i passi «pesanti dei nottambuli londinesi». Lavorò per alcuni mesi a Londra, poi tornò in America e concluse il libro a New York – aveva ventotto anni – mentre si guadagnava da vivere come insegnante all’università di New York. Rifiutato da alcuni editori, Wolfe partì nuovamente per l’Europa. In Germania, all’Oktoberfest, rimase coinvolto in una rissa e trascorse «settimane di pigra convalescenza in un ospedale di Monaco», come racconta in un libro del 1937, Ho una cosa da dirti, resoconto dei viaggi tedeschi in cui l’amore viscerale per la Germania, il luogo dei «fusti nudi di quell’amabile colore bronzo dorato che è come la sostanza materiale di una luce magica» si mescola allo sbigottimento per un paese che, con l’avvento di Hitler, stava dicendo addio «non a un solo uomo, ma a tutta l’umanità».
Intanto il primo libro, Angelo, guarda il passato, pubblicato nel 1929 proprio da Perkins, fu coronato da un enorme successo, e quattro anni dopo passò ad una collana più economica, la Modern Library. Ma se nelle grandi città veniva accolto con favore, nel paese natale, Asheville, il libro destò scandalo:
«i ministri del culto denunciarono il libro dal pulpito delle principali chiese; vennero indette delle sottoscrizioni agli angoli delle strade per denunciarlo; per settimane i circoli femminili, le riunioni di bridge, i tè, i ricevimenti, i circoli letterari, insomma l’intero complesso meccanismo della vita sociale di provincia fu sconvolto da una ventata di ira e di commenti».
Persino il titolo del libro, che si ispira a un verso di Milton, venne frainteso dai concittadini: nel romanzo c’è una scena in cui uno scalpellino vende a una signora la statua di un angelo; Wolfe aveva inventato questo episodio, ma molti conoscenti affermarono di essere stati effettivamente presenti al momento dell’acquisto. Un giornale locale decise perfino di mandare al cimitero un inviato per fotografare l’angelo famoso, che dal portico dello scalpellino era passato a decorare la lapide di una signora di religione metodista. Wolfe si accorse con stupore che l’angelo esisteva davvero: i figli della signora protestarono scrivendo al giornale che
«la madre non aveva niente a che fare con l’infame libro e con l’infame angelo da cui l’infame libro aveva tratto il titolo».
Superato lo shock del primo libro, Wolfe continuò a scrivere e si convinse che il titolo del secondo romanzo avrebbe dovuto essere The October Fair: un progetto monumentale, che nell’idea originaria doveva ricoprire centocinquant’anni di storia americana e comprendere le azioni di almeno duemila personaggi. Perseguitato dalla grandiosità del progetto e dalla minaccia di non riuscire a portarlo a termine in tempo, Wolfe iniziò a essere tormentato da «sogni di Colpa e di Tempo», strane visioni che lo tallonavano giorno e notte, infiniti dettagli del proprio paese, l’America, che gli chiedevano di essere portati alla luce. Ben presto si rese conto che il compito superava le umane possibilità. Dopo alcuni anni, decise di portare il manoscritto da Perkins (la scena, memorabile, è ben realizzata nel film): più di un milione di parole attendevano di essere lette, vagliate, soppesate e, infine, tagliate. Soltanto in forma di abbozzo «lo scheletro del libro era circa dodici volte superiore per mole a un romanzo normale e due volte superiore a Guerra e Pace». Perkins intuì subito che il manoscritto comprendeva in realtà due cicli diversi, e decise di pubblicare la prima parte con il titolo di Of Time and the River senza il consenso di Wolfe, che nel frattempo era partito per Chicago e continuava a ritoccare il manoscritto con infinite correzioni e aggiunte. Deluso, Wolfe decise di imbarcarsi nuovamente per l’Europa:
«a mano a mano che la nave si allontanava dalle coste americane il mio spirito sprofondava sempre più nelle tenebre della disperazione».
Al di là dei meriti celebrativi del film, la figura di questo scrittore dovrebbe essere già nota al grande pubblico, se non altro a quello americano. Nel 1947, a nove anni dalla morte di Wolfe, Faulkner venne invitato all’Università del Mississippi a tenere una lezione in una classe di scrittura creativa. Era stato rassicurato sul fatto che gli studenti non avrebbero preso appunti e che non sarebbero stati presenti altri professori. Così, iniziò a parlare a ruota libera. Incalzato dagli studenti, stilò una personalissima lista dei cinque più importanti scrittori americani contemporanei. Al quinto posto citò Steinbeck, affermando che riponeva grandi speranze in lui (il suo capolavoro, East of Eden, sarebbe stato pubblicato soltanto cinque anni più tardi, nel 1952); subito dopo Hemingway, a cui non risparmiò una critica velata, accusandolo di scrivere in maniera troppo semplice; poi Dos Passos, amato anche da Pavese; al secondo posto, Faulkner stesso. In cima alla classifica, torreggia Thomas Wolfe:
«ebbe molto coraggio e scrisse come se non avesse molto da vivere».
In Europa, complice anche l’eccezionale fama di cui godette in Germania, fu ammirato da Thomas Bernhard, il più insospettabile fra gli estimatori di Wolfe, e anche il meno disposto a incensare i colleghi. In un’intervista con Peter Hamm confluita in un libro pubblicato soltanto dopo la sua morte, Conversazione notturna, Bernhard parla di Thomas Wolfe come di un «tornado sulla carta, il primo ad affascinarmi davvero». Un regista aristocratico ed estremamente selettivo come Luchino Visconti decise di avventurarsi in una rappresentazione teatrale di Angelo, guarda il passato, portandolo nel 1957 a Broadway e l’anno dopo in Italia, grazie alla riduzione teatrale della scrittrice americana Ketti Frings, premio Pulitzer nel 1958.
La fortuna critica, anche in America, continuò a sorridere a Thomas Wolfe. Nel 1975 Ray Bradbury, l’autore di Fahrenheit 451, pubblicò una raccolta di racconti, Molto dopo mezzanotte. In uno di questi, dal titolo Angelo, guarda il futuro, Bradbury omaggiò Thomas Wolfe, rievocandone il primo libro. Anche uno scrittore di fattura completamente diversa come Philip Roth non smise di menzionarlo come un maestro che gli cambiò la vita. Nel 2016, al momento di donare i suoi oltre tremila volumi alla Newark Public Library, compilò una lista dei quindici libri più determinanti per la sua formazione di scrittore: assieme a Flaubert, Dostoevskij, Camus e Kafka, spicca Thomas Wolfe. Nato a Newark come Paul Auster, Philip Roth descrisse così il suo incontro con Thomas Wolfe:
“Nel 1949, quando avevo sedici anni, mi imbattei in Thomas Wolfe, che morì a trentotto anni, nel 1938, e che rese numerosi adolescenti oltre a me devoti alla letteratura per tutta la vita. In Wolfe tutto era eroicamente fuori misura, che si trattasse del vorace appetito per l’esperienza di Eugene Gant, l’eroe dei suoi primi due romanzi, o di George Webber, l’eroe dei suoi ultimi due. La solitudine dell’eroe, il suo egocentrismo, la sua coscienza tentacolare hanno dato origine a un tono di lirismo elegiaco che è stato incessantemente sostenuto dal crudo desiderio di un’esistenza epica – di un’esistenza epica americana. E, in quegli anni del dopoguerra, quale giovane lettore fantasioso non anelava a ciò?”.
Thomas Wolfe si spense, come molti altri geni che esauriscono la fiamma della loro ispirazione per la forza del fuoco che li consuma, a soli trentotto anni, per una forma di tubercolosi cerebrale contratta in seguito a una pinta di whisky condivisa con un vagabondo già ammalato. C’è una scena, nel Fiume e il tempo, in cui Eugene Gant, alter ego di Wolfe, in una delle sue infinite peregrinazioni decide di scendere alla stazione di Newark – la terra natale di Auster e Roth – e si ferma a osservare il paesaggio. Ecco: Newark è il crocevia d’America, la stazione in cui la letteratura si ferma a celebrare il passaggio di testimone da una generazione all’altra – il nido dove il padre ripone il proprio spirito nell’inchiostro dei suoi eredi.
Andrea Muratore