Unreal City, / Under the brown fog of a winter dawn. Eliot ha sempre ragione, questo è chiaro, eppure no, non sembra affatto irreale, questa Londra di inizio luglio: busy come ci si può ragionevolmente immaginare Londra, sì, ma in fondo quieta, vigorosa e quieta. E non di quella «quiet desperation» che cantavano i Pink Floyd, no: indaffarata, ma non agitata, almeno tra Paddington, dove il cronista sta di stanza, e Malet Street, dove ha sede la Senate House dell’Università di Londra e – ciò che più conta – da dieci anni intellettuali e studenti di mezzo mondo convergono per la T.S. Eliot International Summer School. Nata da un’intuizione di Ron Schuchard – curatore principe dell’edizione critica delle prose eliotiane, di cui è atteso per settembre l’ottavo e ultimo volume – dall’anno scorso la scuola è diretta da Anthony Cuda, giovane studioso dell’Università di Greensboro dalle non insospettabili ascendenze calabresi. E se ci si può chiedere che cosa mai faranno settanta tra docenti e studenti nella Londra di inizio luglio, che si diranno, ecco la nuda cronaca.
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Sabato 6 luglio, Senate House, ore 18: cominciano le danze. Ad aprirle, il poeta e drammaturgo inglese Sean O’Brien, vincitore nel 2007 del T.S. Eliot Prize for Poetry. Un premietto che negli anni è stato vinto, tanto per dire, da poeti come Paul Muldoon, Les Murray, Derek Walcott, Seamus Heaney e dal Ted Hughes delle Birthday Letters. Essendo il cronista troppo stanco del viaggio e sovraccarico di emozioni, la sua povera mente si rivela purtroppo del tutto permeabile al talk del poeta; l’unica cosa che i suoi occhi riescono a registrare è perciò la difficoltà del maschio statunitense medio a mettere insieme una giacca, un pantalone e un paio di scarpe per farne un abito casual da cocktail. Reset. Domani è un altro giorno.
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È un altro giorno, eccome! Domenica mattina, tutti in torpedone e gita fuori porta verso Little Gidding. Un ameno luogo di campagna due ore a nord di Londra che – singolarità degli anglosassoni – da quattordici anni ogni prima domenica di luglio aggiunge ai suoi 22 abitanti un centinaio di appassionati eliotiani per il Little Gidding Festival. Già, perché non stiamo parlando soltanto di una minuscola civil parish, ma di quella minuscola civil parish che dà il titolo all’ultimo dei Quattro Quartetti. E se il luogo, anche in questo caso, è pittoresco come ci si potrebbe immaginare – una piccolissima chiesetta circondata da lapidi affiancata dalla vecchia casa del fondatore Nicholas Ferrar, che arrivò qui nel 1626 – del tutto inaspettato è il festival: mattino con Michael Hrebeniak, scrittore, musicista jazz e giornalista, direttore degli studi di inglese al Wolfson College, e Robert von Hallenberg, raffinato studioso californiano che terrà anche uno dei seminari della scuola. Pomeriggio con meditazione su Little Gidding a cura di Mary Ann Lund dell’Università di Leicester. La chiusura, dopo una lettura secca e commossa del quartetto fatta da Ali Smith, autrice di una tetralogia di romanzi sulle stagioni, è affidata al meritato afternoon tea.
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In medias res. Ogni giorno, mattino con due letture per tutta la scolaresca e seminario pomeridiano a gruppi. I nomi e i temi sono dei più interessanti: il già citato direttore Tony Cuda e il gesuita Jayme Stayer parlano dell’Eliot borbottoso di tante poesie dell’inizio – Stayer si concentra su Prufrock; la giovane Elizabeth Micakovic punta sulle registrazioni fatte da Eliot per la BBC nel 1950; il luminare Jean Michel Rabaté intreccia il Tiresia del Waste Land al divano di Lacan. Poi Julia Daniel, bellissima e coltissima, porta tutti nella Family Reunion, mentre Jewel Spears Brooker offre un saggio della sua visuale acuta mostrando la persistenza dei simboli eliotiani nel mutare del loro significato. E se questo già basta per leccarsi i baffi, gli ultimi giorni ospitano le letture di Nancy Fulford, archivista residente del T.S. Eliot Estate, e di David Chinitz. Ma è la giovane Joanna Rzepa, con la sua eccezionale lettura sulla concezione eliotiana di eresia e modernismo, a rapire il cuore e la mente degli astanti, o almeno quelli del cronista. Ma le sudate carte, ben lo sappiamo, si accordano eccezionalmente con stuzzichini e bibite, soprattutto in orario pre-serale. Ecco perché particolarmente graditi al cronista – ma a occhio e croce anche ai suoi colleghi studenti – sono risultati gli incontri con Toby Faber e con Hannah Sullivan. Il primo, nipote del fondatore di quella Faber & Faber cui Eliot ha dedicato gli anni migliori della sua carriera professionale, con la sua biografia della casa editrice appena pubblicata; la seconda, ultima vincitrice del T.S. Eliot Prize, nella cornice della London Library, con un reading dal suo libro d’esordio Three Poems.
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Nel frattempo, nel tempo libero da questa strettissima e ricchissima programmazione, il cronista andava in pellegrinaggio alla Tate Modern (voto 5) e alla National Gallery (voto 8+, ricchissime le sezioni sull’arte italiana e fiamminga dei secoli XIII-XVI e quella sul tardo Ottocento e inizio Novecento). Ma, soprattutto, in Russel Square 23, sede del primo ufficio eliotiano alla Faber; in Kensington Church Road 10, casa di Ezra Pound tra il 1909 e il 1914; e, pochi metri più in là, in Holland Place Chambers 5, altra casa di Pound, dove il 22 settembre 1914 il miglior fabbro e il non ancora vecchio Possum si incontrano per la prima volta.
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Ed eccoci a un altro sabato, l’ultimo sabato insieme. Finite le lezioni, è tempo di salire ancora sul torpedone e di fare un massacrante, irrazionale ma imperdibile viaggio verso nord: sei ore tra andata e ritorno per un’ora di pic-nic a Burnt Norton. Luogo che dà ispirazione visiva e titolo al primo dei Quartetti, ma che oggidì è un fake-place, una ricostruzione ideale di quel che il lettore eliotiano vorrebbe aspettarsi, oltre che la piacevole magione di campagna dell’elegante e attempata signora che ne è l’attuale tenutaria. Eppure, potenza dei simboli, se anche è un fake-place, perché è così emozionante sentire la voce di Eliot leggere il suo Quartetto in riva alla dry pool? “Sweet Thames, run softly till I end my song / Sweet Thames, run softly, for I speak not loud or long”… Ed eccoci di nuovo a Londra, tra il Monument e London Bridge (che, ricorda T.S. nel Waste Land, “is falling down, falling down, falling down”), alla chiesa anglo-cattolica di St. Magnus The Martyr, dove veniamo rapiti dalla messa solenne e dalla bellezza della musica che cantori e organista ci offrono. Un inno al tradizionalismo, una liturgia compassata ed esatta, calcata sul rito pre-conciliare. Chiesa interessante e singolare, la così detta highchurch anglicana: credono in tutti e sette i sacramenti, nella presenza reale di Cristo nel pane, rifiutano le innovazioni più ardite che l’arcivescovo di Canterbury spinge, in primis i sacerdoti donna. Eppure, mi dice Stefano – simpaticissimo e cordiale fiorentino convertito che vive qui con sua moglie dal 2013 – larga accettazione all’omosessualità, tanto che molti dei tradizionalistissimi frequentatori della parrocchia sono omosessuali praticanti. Viene da chiedersi what’s really the matter, quando tutti possiamo credere nelle stesse cose e non sentircene in qualche modo legati? Fratelli nella fede, in qualche modo, eppure… what’s the matter?
Daniele Gigli
*L’articolo, pubblicato come “Londra, la Città Irreale di T.S. Eliot”, è una anteprima dall’ultimo numero di “Studi Cattolici”, Settembre 2019, n.703