
“Ti amo. Di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia”. Cesare Pavese: amore & morte
Letterature
Fabrizio Coscia
Che l’opera di un poeta sia letteralmente inscritta sul suo volto non è asserzione originale. Il corpus è il corpo: questa è la più fatale – antiscientifica, illogica, dunque credibile – delle verità. Un romanziere può mentire con spregiudicata efficacia – la prosa, d’altronde, esiste per essere fraintesa e la grammatica è una gabbia di tigri – a tal punto che il volto di uno scrittore quasi mai corrisponde ai propri libri. È proprio in quell’elusione, in quel disaccordo la statura del talento. Un poeta, invece, che trova insopportabile il vocabolario, decrepita necropoli, e non si lascia intenerire da un fatuo ribellismo – egli non combatte il mondo perché lo ha già superato –, non può mentire. La sua opera è visibile a pieno viso; si può dire che i versi, come uno scalpello, come un bisturi, abbiano scavato, sbalzato, modellato i tratti del suo viso.
Transfuga dall’Unione Sovietica, il 6 giugno del 1972, Iosif Brodskij approda “nel piccolo villaggio di Kirchstetten”, Austria, con lo scopo di capire quanto il viso di Wystan H. Auden sia equivalente alle sue poesie. Prima di fargli visita, aveva studiato, con la stessa assidua ossessione, la sua opera, e le sue fotografie.
“Si va sempre brancolando alla ricerca di una faccia, si desidera sempre che un ideale si materializzi, e a quel tempo Auden non era molto lontano dal rappresentare un ideale. (Altri due erano Beckett e Frost, dei quali conoscevo l’aspetto; per quanto terrificante, la corrispondenza tra le loro facce e i loro atti era evidente)”.
All’apparenza, il gesto pare improprio, inappropriato: ma un volto non è forse una scrittura da decifrare, un alfabeto? Brodskij, come tutti i poeti, era un cacciatore di facce, dacché non può esserci distanza tra verbo e carne, virtù lirica e vigore fisico, e la retorica non è che una disciplina atletica.
“Strane cose, le facce dei poeti. In teoria, l’aspetto di uno scrittore non dovrebbe avere la minima importanza per i suoi lettori: il leggere non è un’attività narcisistica, e nemmeno lo scrivere; ma nel momento in cui si conosce e si apprezza una quantità sufficiente di versi di un certo autore, comincia la curiosità e ci s’interroga sulla sua apparenza fisica. Tutto questo, presumibilmente, ha a che fare col sospetto che amare un’opera d’arte significhi riconoscere la verità, o la misura di verità, che l’arte esprime. Insicuri per natura, vogliamo vedere l’artista (che identifichiamo con la sua opera) in modo che la prossima volta ci sia possibile sapere che faccia ha realmente la verità”.
Così scrive Brodskij nel saggio dedicato a Auden, Per compiacere un’ombra (raccolto in Fuga da Bisanzio, pubblicato in Italia da Adelphi).
L’aristocrazia propalata da Brodskij rischia di rivoltarglisi contro: veniamo da epoche editoriali in cui si è puntato tutto, in assenza dell’opera, sul physique dell’autore. Ma anche qui: la poesia non è mai un fatto di posa – arte sgargiante della smanceria –, semmai di postura – cioè del posto che si sceglie di occupare al mondo, della via che si traccia a coltellate, di una certa, perfino ergonomica, mostruosità. Di fronte a un poeta non ci si sente accolti, respinti, piuttosto, per la simile ostilità – e grazia – che ha una parete rocciosa. David Gascoyne, poeta apocalittico, ispirato dalla mania, viso dedito a una malinconia crudele, da risorto, quando parla di Benjamin Fondane, il suo maestro, ricorda che “era un vogatore assai vigoroso”: questa energia è, cioè, consustanziale “al modo impetuoso così tipico della sua persona” con cui Fondane esponeva “alcune questioni filosofiche” (in: David Gascoyne, Incontri con Benjamin Fondane, Aragno, 2021). L’onestà, la rettitudine, una astratta correttezza sono niente di fronte all’etimo del corpo.
Che belli, anche, i corpi anonimi, anodini, indifesi, di poeti perfino scorbutici, inattingibili.
Non c’è scienza più lampante della fisiognomica applicata alla letteratura – o quasi. Quando Cesare Lombroso fece visita a Lev Tolstoj, il 23 agosto del 1897, nella dimora di campagna dello scrittore, a Jasnaja Poljana, non capì quasi nulla di quel “barbaro geniale”, “un vegliardo dall’aspetto severo, quasi soldatesco, dallo sguardo acuto e penetrante, con profonde rughe sul viso dai tratti marcati, duri e angolosi”. Tolstoj restò impenetrabile allo studioso: fu il suo corpo, dall’energia spasmodica, che tradiva un’eterna giovinezza, dilagante, a sorprenderlo. Secondo il racconto di Luciano Zuccoli, pubblicato nel 1899 sull’Illustrazione Italiana,
“Recatisi un giorno a prendere il bagno nel fiume, avendo dichiarato il Lombroso che sapeva nuotare, il Tostoi si diede a’ suoi soliti esercizii, senza curarsi oltre dello scienziato; ma il caro vecchietto per poco non affogava, e il Tolstoi dovette correre a lui e trarlo a salvamento. Dopo il bagno, il romanziere, per agevolar la reazione, eseguì qualche esercizio, sollevandosi robustamente sul trapezio; il Lombroso cercò d’imitarlo, ma per quanto si arrabattasse, rimase a terra”.
Edmondo De Amicis era letteralmente, letterariamente ossessionato dal corpo che si riverbera nel corpus dello scrittore. Così, per dire, Alphonse Daudet “ha una testa che potrebbe servire da modello per un Cristo a un pittore idealista”; Émile Zola possiede “la testa di un pensatore e il corpo d’un atleta – e mani ben fatte e salde”; Victor Hugo è dotato di “fronte vasta, collo di toro, spalle larghe, mani corte e grosse e una carnagione rossigna da cui traspira la salute e la forza”. Il corpo di uno scrittore è un libro aperto, il suo: Hugo è ciò che scrive, “tutta la sua persona ha qualcosa di poderoso e d’atletico, come il suo genio”. In effetti, il romanzo non è che lo studio di un corpo: scavare i dettagli del fisico fino a consumarlo, fino a quella rasoiata che diciamo anima. Soldato, giornalista, scrittore di fama, De Amicis, cacciatore di facce, dedica al volto, nel 1881, uno studio analitico, Osservazioni psicologiche sulle espressioni del viso. È un testo corrosivo ma infine lieto: lo scrittore ammette che il viso, di fatto, è una maschera, che il carisma dell’uomo è nell’arte della simulazione e della dissimulazione; il volto è il guanto di un contrabbandiere. Tuttavia, è un altro scritto, La faccia – pubblicato in origine nel 1907; entrambi gli articoli sono ora raccolti da De Piante in un libro delizioso, I misteri del volto. Tra psicologia e fisionomia, a cura di Alberto Brambilla e con cinque disegni di Tullio Pericoli – a dimostrare la prodigiosa potenza narrativa di De Amicis, relegato, ormai, tra gli scrittori del tempo andato. La faccia è un testo cupo, livido, tormentato, su cui aleggia trama di morte – De Amicis, dopo alterne fortune e la tragedia di un figlio suicida, morirà nel 1908 – e l’enigma della vecchiaia. D’improvviso, il viso non è più il calco del talento, ma appendice oscena, corpo estraneo, “qualche volta il viso dell’uomo pare mostruoso”:
“Che strana cosa ci sembrano allora quelle due palle lucenti incastrate in alto e nascoste a mezzo di due borse di pelle grinzuta; quella protuberanza allungata che s’ingrossa in fondo intorno a due sorta d’occhielli filacciosi; quell’apertura dagli orli sanguigni, che serve insieme a emettere la parola e a ricevere il cibo, e che, sorridendo d’amore, mostra l’apparecchio brutale con cui trita i prodotti della terra, e la carne delle bestie! E ci paion ridicole quelle due appendici cartilaginose attaccate alle tempia, somiglianti ai manichi d’una pentola, e quasi ci fa ribrezzo quel tessuto sottile e mobile che qua e là s’informa dall’ossa e lascia vedere il turchiniccio delle vene. Come si può trovar la bellezza in questo complesso d’organi di senso così ravvicinati che quasi confondono i loro movimenti e i loro umori, su questa forma di muso compresso e allargato, contornato e sparso d’una specie di vegetazione filiforme, che somiglia all’erbacce dei vecchi muri? Come possono gli uomini trovare nel proprio aspetto argomento di confronto con la maestà di quello del leone, con la gentilezza di quello della gazzella, con la grazia di quello del passero? E ci pare che un uomo che non avesse visto mai il viso del suo simile né il proprio, al primo vederlo, ne dovrebbe aver ripugnanza e paura”.
Variazione lirica che prevede Pirandello, su un pentagramma dell’orrido che piacerebbe a Lovecraft. Che effetto ci farebbe, al risveglio, accorgerci che questa faccia non ci rispecchia, non ci riguarda, è quella di un altro che giorno dopo giorno ci sfida e ci divora?
In un libro di pubblicato da Crocetti nel 2002, Le parole esposte, Niva Lorenzini ha tentato una “fotostoria della poesia italiana del Novecento”; in appendice, Giovanni Giovannetti ha raccolto le fotografie di centouno poeti contemporanei. Un altro fotografo, Simone Casetta, a sancire, nel disordine del tempo, l’inscindibile nodo che congiunge il volto del poeta alla propria opera, uno l’esecuzione dell’altra, quasi un sigillo, lavora, da anni, a un immane “Registro Fotografico dei Poeti in Lingua Italiana”. Perché? A posteriori, è ovvio, possiamo calcare la poesia di Ungaretti tra i criteri di quel viso ruvido, quella di Rebora nel magistero di un volto beato dall’inquietudine, l’opera di Pasolini nell’esplosione di quei muscoli sfuggenti, sfacciati, sfreccianti, e i versi di Montale ben si applicano a quella faccia da camaleonte. Facile gioco. Eppure, dobbiamo convincerci che esista un mistero, una catastrofica clausura tra il corpo del poeta – sempre martire, in libertinaggio verbale, sempre crocefisso, goduto, leccato – e le sue parole, irredimibili, non più delegate al mercato, magari nascoste, appena desunte, nell’obice della posterità.
L’11 febbraio del 1966 Lisetta Carmi, “su invito del direttore dell’Ansa di Genova”, ascende a Sant’Ambrogio di Rapallo per fotografare il mostro, lo smagrito Minotauro della letteratura del secolo. “Ezra Pound era solo in casa, ammalato… uscì per pochi minuti e, senza dire una parola, rientrò”. Pound ha, lì, la faccia di un poeta martoriato, si stringe nella lunga vestaglia nera, è scarmigliato, con i Cantos radicati in quegli occhi cavi. Quelle fotografie – pubblicate in L’ombra di un poeta, incontro con Ezra Pound, O barra O edizioni, 2005 – sfondano il pudore, sono ustione, offesa, eccidio prevalente. D’altronde, del poeta, dello scrittore, a noi è dato di raccogliere le viscere, i bestiali brandelli, gli sputi, i codici di bava, il sangue rappreso: Marguerite Yourcenar chiude il suo libro, Mishima o La visione del vuoto, descrivendo
“Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore”.
Tutta l’opera di Mishima comporta quel gesto, incompreso ai più, la decapitazione, la testa mozzata, la sua e quella dell’adepto, Masakatsu Morita. Nelle immagini di Pier Paolo Pasolini nudo, purissimo, nella casa di Chia, scattate da Dino Pedriali, e in quelle, pochi mesi dopo, del corpo maciullato, irriconoscibile, riverso, a Ostia, è la stessa “opera scandalosa” che parla.
In un articolo, Un incontro, poi raccolto in Faulkner, ancora (Palomar, 2004), Mario Materassi racconta il suo viaggio in visita al grande scrittore, Nobel per la letteratura nel 1949. Lo studioso è a Oxford, Mississippi, davanti alla casa di Faulkner, Rowan Oak.
“C’è una porta laterale a rete. Salgo i gradini; busso… Dietro la rete, nella penombra dello stretto corridoio, appare una sciatta figura minuta. È lui”.
Di Faulkner ricorda “quel viso affilato da volpe… i denti sciupati, appena visibili fra le labbra sottili che quasi non si muovevano… quegli occhi chiari, freddi”. Lo scrittore gli parla attraverso la rete, dall’oscurità. I am sorry… It’s alright. Lo sciaguattio delle pantofole, l’uomo dal viso di volpe che si dilegua. “Mai aprì quella porta”. Di sé lo scrittore, il poeta non deve lasciare che il sussurro – e una seminagione di ombre.