14 Febbraio 2024

“Le ossa cantarono, disperse e rilucenti”. Mercoledì delle ceneri insieme a T.S. Eliot

Nel giugno del 1927, come si sa, Thomas S. Eliot si converte e fa ingresso nella Chiesa d’Inghilterra. Ad accompagnarlo in questo percorso e a battezzarlo è l’amico William Force Stead: americano come Eliot – nato a Washington D.C., studi alla University of Virginia –, poeta, curatore dell’opera di Christopher Smart, era diventato pastore anglicano, serviva a Oxford. Eliot fu a servizio come amministratore presso la parrocchia di St Stephen’s, in Gloucester Road, Londra: la chiesa ricorda il grande poeta con sfarzo.

L’anno dopo, come si sa, nella raccolta di saggi For Lancelot Andrewes, Eliot si dichiara “classico in letteratura, monarchico in politica, anglocattolico in religione”. I suoi antichi amici di Bloomsbury, capitanati da Virginia Woolf, genericamente socialisti, lo pigliavano in giro, dietro le quinte. Proprio nel saggio dedicato all’oscuro – per noi – Lancelot Andrewes, teologo, decano di Westminster, “ammirato per la sua eloquenza dalla regina Elisabetta”, Eliot fa una professione di fede linguistica. Da allora – è il 1926 –, decide programmaticamente di fare a meno

“del linguaggio impreciso del nostro tempo, nel quale esiste un termine per ogni cosa e idee chiare su niente – dove una parola vagamente intesa, tolta dal suo posto in qualche disciplina aliena o ancora informe, come potrebbe essere la psicologia, nasconde sia all’autore che al lettore la comprensibilità di un’affermazione, dove ogni dogma è messo in dubbio tranne quelli delle scienze di cui leggiamo sui giornali, dove lo stesso linguaggio della teologia, condizionato dal vago misticismo di una filosofia spicciola tende a diventare linguaggio sfuggente”.

Intellettualmente, Eliot allontana da sé le sirene della psicanalisi, le turbe misticheggianti – in quegli anni Yeats elaborava le proprie teorie esoteriche in A Vision e tormentava di lussureggianti simboli le sue poesie pubblicando The Tower –, i sofismi della teologia. Ribaltando il verbo ‘modernista’ – la volgarità assemblata alla citazione colta della Waste Land –, Eliot percorreva una via lirica propria, fitta di ‘segni’, di una ‘semplicità’ medioevale, spiazzante. Le poesie di Eliot – speculari alle scelte di vita – appaiono, ora, pari ad arazzi, icastici bestiari, sfolgorio di paragrafi in veglia, incastonati come pietre lucide; è Giotto prima di Baudelaire a parlarci, ora, è l’arte, di sapienza e di braccio, di Benedetto Antelami. In un saggio del 1929, lo spettro di Shakespeare è sostituito dalla figura statuaria – e amorevole – di Dante:

“Shakespeare rivela il massimo grado delle passioni umane nella dimensione della larghezza; Dante in quelle dell’altezza e della profondità”.

Eliot anela all’ascesi, non più a ghermire il cuore del mondo, dell’uomo.

Dal 1927, Eliot scrive Ash Wednesday, poesia-salmo che celebra la sua conversione, cioè il suo personale percorso di purificazione. La poesia si struttura come un canto cifrato, secondo lo schema dell’innografia anglicana. Il poemetto, edito nel 1930 dalla Faber a Londra e presso The Fountain Press a New York, in edizione di sobria eleganza, in copie numerate – seicento in tutto – è, originariamente, pubblicato su rivista. Nel dicembre del 1927 il primo frammento è stampato dalla rivista americana “Saturday Review” con il titolo Salutation; altri due frammenti vengono pubblicati su “Commerce”, la rivista francese fondata da Paul Valéry, Léon-Paul Fargue e Valery Larbaud, e diretta da Marguerite Caetani, principessa di Bassiano (nella primavera del 1928 una porzione intitolata Perch’io non spero; nell’autunno del 1929 il frammento Som de l’escalina). A tradurre le scaglie di Ash Wednesday in francese è Jean de Menasce: francese, studi a Oxford e alla Sorbona, amico di Graham Greene e di Bertrand Russell, si era convertito al cattolicesimo nel 1926; divenuto domenicano, fu introdotto al siriaco e tradusse, al fianco di Henry Corbin, alcuni testi afferenti allo zoroastrismo.

Som de l’escalina è titolo che esplicita il percorso purgatoriale di Eliot e allo stesso tempo incenerisce (salvandoli) i suoi giovanili anni: “ara vos prec, per aquela valor/ que vos guida al som de l’escalina,/ sovenha vos a temps de ma dolor!”, sussurra, in provenzale, Arnaut Daniel a Dante nel XXVI del Purgatorio; al “miglior fabbro” – epiteto con cui Dante si rivolge ad Arnaut –, cioè a Pound, è dedicata la Waste Land. Ash Wednesday è, in origine, dedicato to my wife: Vivienne Haigh-Wood, elfica moglie di Eliot, si dimostrò inadatta Beatrice – la dedica non apparirà mai più, spirata, o meglio, espiata, insieme alla moglie, da cui il poeta si separa nel ’33, per vederla immergersi nei gorghi dell’insania, lunare saggezza.

La seconda parte del poemetto è la prima pubblicata da Eliot; la forma è di un nitore indefettibile:

“Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto un ginepro
nella frescura del giorno, nutriti a sazietà
delle mie braccia e del mio cuore e del mio fegato e di quanto
era stato contenuto nel foro rotondo del mio cranio. E Dio disse
Vivranno queste ossa? Vivranno
queste ossa? E tutto quanto era stato contenuto
nelle ossa (che già erano aride) disse stridendo:
Per la bontà di questa Signora
e per la sua grazia, e perché
ella onora la Vergine in meditazione,
noi risplendiamo con tanta lucentezza. E io che sono
qui smembrato offro all’oblio le mie gesta, e il mio amore
alla posterità del deserto e al frutto della zucca.
È questo che ristora
le mie viscere le fibre dei miei occhi e le indigeribili porzioni
che i leopardi rifiutano. La Signora si è ritirata
in una bianca veste, alla contemplazione, in una bianca veste.
Che il biancore delle ossa espii fino all’oblio.
In esse non c’è vita. E come io sono dimenticato e vorrei essere
dimenticato, così vorrei dimenticare
consacrato in tal modo, ben saldo nel proposito. E Dio disse
Profetizza al vento, al vento solo perché
il vento solo darà ascolto. E le ossa cantarono stridendo
col ritornello della cavalletta, dicendo

Signora dei silenzi
quieta e affranta
consunta e più integra
rosa della memoria
rosa della dimenticanza
esausta e feconda
stanca che dai riposo
la Rosa unica
ora è il giardino
dove ogni amore finisce
finito il tormento
dell’amore insoddisfatto
il più grande tormento
dell’amore soddisfatto
fine dell’infinito
viaggio alla volta del nulla
conclusione di tutto ciò
che non può essere concluso
linguaggio senza parola
e parola di nessun linguaggio
grazia alla Madre
per il Giardino
dove tutto l’amore finisce.

Sotto un ginepro le ossa cantarono, disperse e rilucenti
Noi siamo liete d’essere disperse, poco bene facemmo l’una all’altra,
nella frescura del giorno sotto un albero, con la benedizione della sabbia,
dimenticando noi stesse e l’un l’altra, unite
nella serenità del deserto. Questa è la terra che voi
spartirete. E né divisione né unione
hanno importanza. Questa è la terra. Ecco, abbiamo la nostra eredità”.

Secondo Roberto Sanesi, di cui riprendiamo la traduzione: “Come nel rituale del Mercoledì delle Ceneri il sacerdote pone il pollice nella cenere e traccia un segno di croce sulla fronte del peccatore… così la poesia si apre in una atmosfera d’esilio, in una terra di incertezze, a mezzo fra la realtà sostanziale e la realtà spirituale”. Il testo è trafitto da riferimenti biblici: il libro di Ezechiele (il capitolo 37, della “pianura piena di ossa… inaridite” che risorgono come “esercito grande, sterminato”), il libro dei Re (Dio risuona nella brezza: 19, 9 ss.).

Il ginepro sotto cui siedono i leopardi che sbranano il poeta è lo stesso sotto cui si siede Elia, dopo aver percorso “una giornata di cammino nel deserto” perché era “desideroso di morire” (1 Re 19, 4). Lo smottamento etimologico – si dica: sterrare i verbi – crea cortocircuiti simbolici: quel ginepro (in ebraico rothem), infatti, non è un ginepro. La versione Cei del 2008 emenda quella del 1974 traducendo ginepro per ginestra; allo stesso modo ciò che la “King James” rende come juniper tree (così recepisce Eliot) la “New International Version” muta nel più esatto broom bush. L’immane studio del botanico americano Harold Norman Moldenke, Plants of the Bible (1941), insegna che “quel ‘ginepro’ delle Scritture è in verità una specie di ginestra bianca, nota come Retama raetam, non dissimile dalla ginestra scozzese, Cytisus scoparius”. Sembrano sottigliezze, ma è così, per effimere ecchimosi, per fragili effrazioni, che si dissigillano i simboli.

Il biancore della Signora a me rimanda sempre alla “bianchezza della balena” di Melville: Vergine-Moby Dick, capodoglio di purezza, venefica purità, biancore che sa di lebbra. Il leopardo, figura che giunge, trasfigurata, dai bestiari medioevali, è assimilata da Sanesi alla figura di Cristo: divora perché tu risorga; depura la carne tramite artigli. Fiera grave di occhi-piaghe, stimmate-pozzi, tutta denti, che si nasconde e conosce l’assalire.

Alle spalle di Ash Wednesday, soprattutto, s’intravede il genio di Jeremy Taylor. Prete anglicano, cappellano di Carlo I, ostile a Cromwell, fu detto, per altezza di stile, “Shakespeare of Divines”: Coleridge lo riteneva, insieme al Bardo, a Milton e a Bacone, tra i geni della lingua inglese. Uno dei suoi libri più noti, The Golden Grove (stampato nel 1655), insegna la pratica della preghiera quotidiana, è una sorta di manuale per la perenne purificazione dell’anima. Un esempio:

“1. Ogni giorno è un’opera, dacché la vita è corsa e battaglia, mercato e viaggio. Proponiti ogni giorno una buona azione da presentare a Dio, a notte.

2. Alzati appena l’occasione lo permette: datti una norma per il risveglio; chi primo si alza per la preghiera ha più rapida benedizione. Chi volta la notte in giorno, la fatica in ozio, la veglia in sonno, muta la speranza di benedizione in sogni.

3. Non permettere a nessuno di pensare che ami stare a letto. Chi ha un’anima spera di salvarla e ha molto lavoro da compiere per la propria vocazione ed elezione. Deve servire Dio, pregare, leggere, meditare, pentirsi, emendarsi, fare del bene agli altri, tenere lontano il male da se stesso.

4. Appena ti levi dal letto: china solennemente il capo, con devozione adora la Trinità Santissima.

5. Preparati nel modo più silenzioso possibile, trascorrendolo in santi pensieri. Datti alla preghiera della mente.

6. Non essere curioso – non essere disattento.

7. Frugalità nel vestire. Lava le mani e il viso pregando. Indossa i vestiti pregando che una corazza rivesta la tua anima”.

L’opera è lunga, minuziosa, inframmezzata di versi, a edificare una milizia di fedeli.  

Nel giorno delle ceneri non è l’ardore di bruciare a sollevarci, ma quella brina d’argento, il bocciolo che va, sorgivo.

In pochi capirono Ash Wednesday. Sembrava incongruo che un poeta contemporaneo si occupasse degli arcani di Dio. In particolare, che un poeta agisse in obbedienza all’istituzione ecclesiastica e non assecondando le proprie pulsioni teosofiche (come faceva Yeats, ad esempio). Così, Edmund Wilson, su “New Republic” – 20 agosto 1930 – scrisse, recisamente, che il testo, pur dallo “squisito verseggiare, senza parole di troppo”, è “meno brillante e intenso di altre opere di Eliot”. Conrad Aiken, con ipocrita audacia – su “Poetry”, dicembre 1934 – scrisse che “Ash Wednesday è forse il più bello dei poemi di Eliot, non è improbabile che il suo ‘valore’ sopravviva a quello della Waste Land… eppure, segna l’inizio di una diminuzione di vigore e varietà: il cerchio dell’ispirazione si è ristretto e continua a restringersi”. Soltanto Allen Tate capì la posizione “solitaria” della nuova poesia di Eliot:

“Questi versi rappresentano il segno di un’esperienza religiosa in un’epoca in cui la religione è ritenuta una specie di disfatta dell’individuo e si ha fede soltanto nel retto ordine secolare. La qualità estetica peculiare di questi nuovi versi è l’umiltà”.

(in “Hound and Horn”, gennaio-marzo, 1931)

Cosa significa per un poeta servire?

Quando Eliot scrive, Prophesy to the wind, to the wind only for only/ The wind will listen, la mente va all’ultimo Pound, Do not move/ Let the wind speak/ that is paradise. Legati fino all’ultimo, quei due.

Nel giorno delle ceneri, leggere Eliot insieme – per contrappunto, per contrapposizione – a Robert Walser:

“La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non ci è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”.

È fertile ciò che incenerisce, nullità che evoca un giardino. Se il cuore è un fuoco, infine, farà cenere del nostro corpo: sia odoroso l’ingresso e complice la serratura piena di ciglia. Per ora, la cenere imposta sul cranio ha fruscio d’acqua – è come un battesimo.

Gruppo MAGOG