04 Dicembre 2024

La vita contro la morte. Piccolo discorso sul suicidio & altre amenità

Mio padre si è ucciso il 4 dicembre del 1989. Si chiamava Giuseppe, un nome che la Bibbia affibbia al figlio di Giacobbe, il sognatore, l’interprete dei sogni.

Mio padre si è ucciso a Bordighera, in Liguria, nella casa che i miei nonni hanno affittato per anni, per pochi soldi, fino al nuovo millennio. Un lungo corridoio – così mi pareva, da piccolo – sfocia in una sala, con balcone – sul fianco si apre uno stretto loculo per cucinare. In quella sala si è ucciso mio padre. Lo hanno trovato accasciato sul tavolo. Si è ucciso con il gas. Hanno sfondato la porta.

A volte, immagino lo sforzo che avrà fatto per occludere, con il nastro adesivo, gli spiragli della porta d’ingresso, quelli delle finestre. Dove ha comprato quel nastro? Mio padre portava la barba, a quell’epoca – era alto, straordinariamente magro. Dalla finestra della casa – al terzo o al quarto piano di una anonima palazzina – si intuiva, dal bagliore, pari a pietra, il mare. I gabbiani si avventavano nel chiostro del mercato coperto, in basso. Urlavano. Sembravano redivivi morti. Gabbiani rospi, gabbiani ratti.

Mio nonno – il padre di mio padre – si chiamava Michele, era nato in Francia, a Reims, da genitori siciliani, lo avevano adornato con altri quattro nomi, un’angelologia: Raffaele, Gabriele… non ricordo gli altri. Nonostante questa protezione celeste, era un uomo debole. Ricordo che diceva sempre “grazie” – il suo grazie sprigionava l’onnipotenza dell’agnello. Il nonno, da ragazzo, abitava a Mentone, faceva le scuole a Bordighera. Poi era stato incardinato nell’esercito italiano, durante la Seconda guerra, in marina. Il fratello, sommergibilista, era morto nel mare del Nord, bombardato da un cacciatorpediniere canadese. Ad ogni modo, da adulto, Michele aveva scelto di tornare, per le vacanze, a Bordighera. Gli piaceva parlare francese e ascoltare la radio francese: sua madre, nata a Corleone, era sepolta a Mentone. Non avrebbe immaginato che il figlio, tre settimane prima del Natale dell’89, si sarebbe ucciso nel suo appartamento, a Bordighera. Nei primi giorni di novembre, quell’anno, era “caduto” il muro di Berlino.

La prima stanza a cui si accedeva, ancorata al corridoio, era quella in cui dormivano i miei nonni. Dormivo anche io, in una branda, con loro, quando passavo le vacanze a Bordighera. Di solito, in luglio. In quella stanza ho fatto per la prima volta l’amore: ho sempre pensato che quel gesto – l’amore in vece della morte – avesse in qualche modo purificato l’appartamento dal suicidio di mio padre.

Quando mio padre è morto, avevo dieci anni – dieci anni dopo mi dissero che si era suicidato. Esiste, dunque, un padre dei miei primi dieci anni, un padre morto in un misterioso “incidente” che vive nei miei pensieri tra i dieci e i vent’anni, poi il suicida. Il padre tra i dieci e i vent’anni era ammantato da una sinistra tenerezza, dall’eroismo che si addice alle vite spezzate. Nato a Milano, mio padre era il direttore della biblioteca di un piccolo comune, Orbassano, alla periferia di Torino. Pare che scrivesse; di suo, conservo una lettera in cui mi parla di Dio, della Chiesa, dei suoi affetti. All’epoca non la capii, ero troppo piccolo. Nella nostra casa – che era poi la casa dei miei zii: eravamo poveri – spiccavano i libri di Gadda e di Togliatti, Kafka e Lenin, le poesie di Sandro Penna e di Ungaretti, la prima edizione della Morte di Virgilio di Hermann Broch. Mio padre frequentava la comunità valdese, ai piedi delle Alpi.

Tra i dieci e i vent’anni sono cresciuto tra muraglie di reticenze e di menzogne. Non so se questo mi abbia reso più scaltro o più ingenuo – nel giardino in cui sono cresciuto spiccava una magnolia ciclopica: sostituì, per prestanza, la figura di mio padre.

Sul tavolo, nella sala in cui si è ucciso, trovarono una bibbia. Probabilmente è quella che ho ereditato: La Sacra Bibbia nella versione di Giovanni Luzzi, il pastore protestante nato in Engadina. Le sottolineature di mio padre riguardano, specificamente, il Vangelo secondo Giovanni; al capitolo 17 è sottolineata questa frase: “Essi sono del mondo, come io non sono del mondo”.

Da quel che ne so, mio padre non amava il mare. In effetti, è sepolto a Cambiasca, in provincia di Verbania, un paese da cui s’impenna la Val Grande, la più vasta area selvaggia d’Italia. I parenti di mia madre hanno radici lassù e hanno concesso una tomba a mio padre, che amava quei luoghi. Ogni tanto, immagino il viaggio del carro funebre da Bordighera a Cambiasca, dall’estrema Liguria all’ultimo lembo di Piemonte. Sono quasi quattrocento chilometri; ci avranno impiegato quasi cinque ore. Chi ha guidato il cargo che portava il corpo di mio padre? Chi lo accompagnava? Di cosa avranno parlato quegli uomini durante il tragitto? Quali inconfessabili cose si saranno detti? Sono ancora vive queste persone?

Mio padre aveva mollato mia madre che compivo sei anni; quando lo incontravo, di solito, mi portava in montagna. Un giorno, nella nebbia, forse presso il San Bernardo, ci siamo trovati a ridosso di un camoscio. Di solito, mi indicava gli stambecchi, che sgallettavano sulle pareti rocciose; udiva il fischio delle marmotte, intuiva le volpi. Ricordo che i boschi brulicavano di bestie – sul mio bastone, con un coltellino, avevo scritto il mio nome, Davide.

Forse si va nell’aldilà a dorso di uno stambecco, non so.

Con la sua nuova donna, mio padre aveva messo famiglia: la figlia era nata alcuni mesi prima che lui scegliesse di morire. Si chiama Ingrid, come Ingrid Thulin, la straordinaria attrice svedese, musa di Ingmar Bergman. Mio padre adorava Bergman, amava – per affinità di cuore: non l’aveva mai visitata – l’Islanda, a cui dedicò una mostra nella sua biblioteca. Un giorno, da quella biblioteca che sentivo mia, che sentivo espropriata, ho rubato Il gioco del mondo di Julio Cortázar, avevo sedici anni.

Mio padre era un uomo anomalo, dalle parole cineree, rare; mi incuteva un po’ di timore. Era affascinato dalla letteratura giapponese: in casa avevamo alcuni libri di Yasunari Kawabata. Come si sa, Kawabata, Nobel per la letteratura nel 1968, si ammazza nel 1972, con il gas, in aprile. Il suo suicidio, accaduto in vecchiaia, a quasi 73 anni, ha un nitore diverso da quello del suo eccentrico allievo, Yukio Mishima, ed è diverso da quello realizzato dall’amico – e per certi versi maestro – Ryūnosuke Akutagawa.

Il suicidio – è proprio vero – afferma una agghiacciante individualità. È un gesto, distruttivo, di affermazione. La morte è di tutti, ma il suicidio è, sempre, di uno soltanto. Ogni suicidio ha la propria natura; si può dire, anzi, che il suicidio inghiotta il suicida, che l’estremo atto annienti tutti gli altri atti. Se la morte compie la vita – è un libro che, pur tragicamente, si chiude –, il suicidio convalida la vita, si avventa sulla vita: tiene il libro aperto.

Che micidiale mistero: forse sono i vivi, i resti del suicida, i resistenti, a dover compiere la vita di chi se l’è tolta. Così credevo, almeno, fino a qualche tempo fa. Oggi non credo che una responsabilità simile – risolvere la vita di un altro – possa ricadere sui vivi. Penso, però, che è bello pensare di poter vivere per sanare una morte. Se ci è consegnato un corpo, non possiamo riscattarlo – adorarlo è sufficiente.

Se i morti ci parlano, i suicidi ci annientano con il loro silenzio.

Il suicidio, tramite il suo gesto, uccide tutti quelli che gli restano attorno. Il feretro: un buco nero.

Akutagawa si ammazza nel 1927, in estate, a 35 anni. Nell’ultimo racconto, Memorandum per un vecchio amico, Akutagawa ragiona, con levigato cinismo, con parole azzurre, sul modo migliore per uccidersi. Poi giunge a una considerazione che ci spiazza per la sua tenue innocenza:

“Non sono certo di riuscire un giorno ad avere il coraggio di suicidarmi. So soltanto che la natura non mi è mai apparsa così bella. Riderai di questa contraddizione tra amore per la bellezza della natura e desiderio di morte. Ma la natura mi appare così splendida proprio perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”.

In un saggio pubblicato nel dicembre del 1933 e dedicato al pittore Takehisa Yumeji, Kawabata si riferisce – con cristallina ferocia – ad Akutagawa. Forse proprio a quegli “estremi sguardi” cui fa riferimento Akutagawa si lega il titolo del saggio, Gli occhi negli ultimi istanti. In un tratto del saggio, Kawabata cita un concetto che avrebbe pronunciato Walt Whitman dopo aver osservato il ritratto di Dante:

“è il volto di un uomo che si è sbarazzato delle impurità del mondo – per poter acquistare quel volto ha ottenuto molto e ha perduto tutto”.

Non credo che Whitman si esprimesse in questo modo; credo che il ragionamento di Kawabata riguardi l’addestramento, l’ascesi, se vogliamo, che un artista deve compiere per realizzare l’opera esatta – dunque, la vita. Si dice che il volto sia il verbo, che un vocabolario vada distillato dal sangue.

Che cosa significa che dobbiamo perdere tutto? Forse che occorre rinnegare se stessi? Cosa credono di ottenere, perdendo tutto, i suicidi?

I suicidi vanno trattati con ferma ferocia: altrimenti, occluderanno tutte le fonti, ti abiteranno. Hanno perso tutto, e ora rivogliono tutto, raddoppiato. La pietà è un modesto lenitivo: i suicidi, dopo la morte, sono famelici.

Kawabata è uno degli autori scandagliati da Fabrizio Coscia in Suicidi imperfetti (Editoriale Scientifica, 2024); gli altri – alcuni sono noti a chi legge Pangea – sono David Foster Wallace, Virginia Woolf e Stefan Zweig; Hart Crane, Rachel Bespaloff e Paul Celan. Marina Cvetaeva. E altri. Ci vuole coraggio a invitare al desco i suicidi – ci vogliono una impeccabile tenerezza ed una eguale severità. Coscia possiede entrambe le doti. Il libro – a proposito di tenerezza e di fermezza – è dedicato “a tutti gli altri che non sono presenti in queste pagine”.

Alimentando l’aggettivo, imperfetti, Coscia scrive che

“nessun suicidio, nemmeno il più lucido e programmato, si compie in una perfezione d’intenti. C’è sempre un’incongruenza, un dettaglio che sfugge, che rivela un desiderio di ripensamento, di riconciliazione, per quanto tardivo, per quanto vano, poiché in fondo la vita è molto più illogica della morte”.

Mio padre è nato nello stesso giorno in cui nasce Boris Pasternak; ha scelto di morire nel giorno natale di Rainer Maria Rilke – con gli oroscopi tentiamo di attenuare il dolore, i canidi rapaci dell’assenza. Non mi risulta che mio padre abbia scritto poesie: scriveva con grafia accadica, piena di dardi, di aste; si indirizzava a me come a “Davide Brullo”, nome-e-cognome, come se non fossi suo figlio, come se fossi un estraneo, il suo giudice.

Un suicidio, si sa, modifica immediatamente legami, parentele, ruoli, l’organigramma degli affetti, insomma. Una pozza nera, uno stagno di fiamme inghiotte, d’improvviso, i vivi; un velo nero ne approssima i volti, li rende prossimi all’esilio. Su tutti, grava l’ira, il genio malvagio della colpa. Anche l’ara dell’amore, quella a cui ci ancoriamo, inermi, cambia forma; la parola amore, di per sé, acquista un altro significato, a tratti cannibale.

Al figlio del suicida – se, come è capitato a me, è sufficientemente infante – è concessa una improbabile immortalità. Chi ha assaggiato la morte da bambino – la morte radicale: quella del padre, della madre; il collasso di un dio, dunque – si fa amico della morte. Sa che la morte è una possibilità. Si appropria della morte. Se per i grandi la morte è un tabù e per i suoi amici la morte non esiste, per lui la morte è l’amico più caro, è un peluche sul divano, è un cagnolino, è l’ultimo libro prima di andare a dormire. Ti tieni sul petto la morte, la accarezzi. È questo a conferire a quel piccolo uomo una specie di assurda immortalità. Egli crede, poiché gli è compagna, di recare la morte ovunque va; in verità, porta la vita. Nulla può toccarlo davvero perché egli conosce la morte, ed è salvo: sa che tutto vivrà per sempre.

In una fotografia scattata da Giuseppe, il figlio è seduto sul tetto in pietra di una di quelle case che levitano in montagna. Ha quattro anni e un giubbotto spesso. Con una mano afferra una pioda, la bocca morde l’altra. Fissa, in basso, la fossa: e se precipitare fosse la gioia, fosse la primizia? Forse caduta vuol dire accadere nell’alleluia, forse il prato, in verità, è un’aquila – forse non serve sorreggersi perché tutto è retto, è giusto.

*In copertina e nel testo: opere di Max Klinger (1857-1920) dal Metropolitan Museum of Art

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