Più che uno scrittore, un emblema. Attenti, però: più diventi emblematico, più l’opera si smarrisce nell’oblio, l’esegesi dell’uomo, la speleologia nelle sue interiora, ne ha dissipato l’opera.
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Guido Morselli è il santino degli scrittori per diletto – solitamente petulanti. D’altronde, se Morselli ha dovuto attendere l’estrema unzione di una pallottola per essere pubblicato e diventare un ‘caso’, anche per me c’è speranza. Così dice lo scrittore che rovina nel rancore.
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Quando si parla di ‘caso’, a proposito di un fatto letterario, c’è da urlare fino a strapparsi la mascella facendola roteare come un frisbee. Ci sono ‘casi’ umani e ‘casi’ scientifici e ‘casi’ polizieschi. Il gesto letterario non è un ‘caso’ perché c’è una mente, dietro, dentro, nelle retrovie, che ordisce e ordina, che dà forma al caos, che organizza il caso in fato. Ogni scrittore è un ‘caso’, unico e inafferrabile.
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Il solito Silvano Tognacci, specie di Isaia sul deserto letterario odierno, mi invia una mail laconica. Una specie di proiettile in fronte. 31 luglio 1973 si suicidava Guido Morselli. Sono passati 45 anni. Tra un altro lustro, probabilmente, si attrezzeranno meglio. Mi guardo intorno. Caustico silenzio. Una trasmissione su Radio Rai 3 replica la biografia agiografica di Morselli, lo scrittore morto incompreso; i giornali tacciono; l’editoria latita. Nonostante dal giorno dopo la sua morte – o quasi – Morselli sia diventato uno scrittore ‘di culto’, per cultori di sarcofaghi strani, uno scrittore canonizzato post mortem come uno dei più innovativi, esagitati, clamorosi – d’altronde, sono sempre i migliori quelli che se ne vanno – e abbiano stampato di tutto, ormai non si stampa più nulla. Guardo su ibs.it. L’ultimo libro griffato Morselli, Una rivolta e altri scritti 1932-1966 è edito da Bietti nel 2013, cinque anni fa.
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Detto altrimenti: Guido Morselli è una pernacchia in faccia ai guru e agli zar dell’editoria italiana (è stato rifiutato pressoché da tutti), ciechi di fronte al genio, proni al cospetto dell’ovvio. Per questo è adorabile – ci sorprende l’intransigenza della scrittura, l’ambizione tesa fino allo spasmo, fino alla morte.
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Per il Dizionario Biografico degli italiani Treccani, Valentina Fortichiari, morselliana doc, firma un intenso profilo di Morselli. Mi colpisce questo brandello: “Nel 1952, su un terreno donato dal padre a Gavirate, poco distante da Varese, Morselli si fece costruire una casetta dall’intonaco rosa, squadrata, a un piano, da lui stesso disegnata. Sarebbe diventata il suo eremo, con pochi lussi, qualche comodità (si arrese all’uso di un frigorifero, non volle mai «lo scatolone» della televisione), dove condusse una vita spartana: pratiche salutistiche come temperatura al minimo, cibi assai semplici, ginnastica, lunghe camminate, equitazione con la cavalla Zeffirina, alla quale dedicava attenzioni affettuose. Nemico della civiltà tecnologica, adorava i treni, soprattutto le vecchie carrozze, e trascorreva ore presso le piccole stazioni di provincia a osservare le locomotive”. Non m’importa l’agiografia, l’aura sul cranio dello scrittore-santo. La cosa fondamentale, qui, è il rapporto tra scrittura e disciplina. Non esiste scrittura senza milizia – e malizia –, senza l’imposizione di un ordine interiore. Non c’è scrittura senza chiamata e obbedienza.
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Il rifiuto non è un avvoltoio che scarnifica il talento di Morselli. Al contrario: il rifiuto forza Morselli a scelte estetiche sempre più estreme. Il rifiuto fortifica – il rifiuto è necessario all’atto della scrittura. Da Il comunista a Roma senza Papa a Dissipatio H.G. è un’estasi nel turbamento, una estetica della desolazione.
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Dopodiché, non occorre creare totem, elevare a Iside un concetto. Per uno scrittore, il rifiuto equivale al successo: rifiuto o successo misurano la fragilità dello scrittore, possono essere benedizioni o dannazioni. C’è una certezza, però: nessuno è ‘incompreso’. Almeno uno che ama, nella stanza vuota, a vuoto, c’è. Se uno scrittore permane nell’incomprensione, non è uno scrittore.
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In effetti, lo scrittore, dall’alcova del proprio tempo, è sempre in un altro tempo. Lo scrittore è sempre in contrasto, al contrario, in rivolta, anche quando scrive un sonetto intorno a una rosa. Non c’è nessun atteggiamento ideologico o studiato a tavolino, in questa rivolta, né la ribalta del brigante. Se lo scrittore non ha in dono un linguaggio alieno, che buca gli occhi del lettore, non è scrittore, ma scrivano.
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Infine, ha vinto il terzo occhio, che tutto conosce, anche le regioni dell’aldilà, della Browing calibro 7 e 65, e Morselli morì al colmo dell’estate, nella fitta provincia di Varese. L’ultima scrittura fu sangue.
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Non è detto che uno scrittore abbia lettori nel proprio tempo – uno scrittore desidera accoliti, e naufraga nel fraintendimento.
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Ne ha già scritto Antonin Artaud (Van Gogh il suicidato della società): il poeta, lo scrittore non può che suicidarsi. I lettori, cannibali, vogliono il gesto definitivo – solo così le parole saranno autentiche, esito di una vita impareggiabile.
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Il suicidio, intendo, è implicito nell’opera. Lo scrittore si toglie di mezzo, si fa fuori, scrivendo – terminato un libro, è, letteralmente, altro. Per questo, la biografia di uno scrittore è inscritta nel paradosso: tutta la sua vita accade di nascosto, nell’invisibile, là dove nessuno ha accesso. (d.b.)