Stenio Solinas, è un po’ un’anomalia nel nostro panorama giornalistico e culturale. Raffinato, elegante, attento conoscitore delle lettere francesi ed europee, ha dedicato le sue pagine migliori al viaggio, all’erranza, ai grandi maestri dello stile, alle effervescenze di mondi alieni rispetto ad una certa noia globalizzata. Una vocazione aristocratica dello scrivere che ha mostrato tanto nella sua prolifica attività giornalistica quanto in una produzione saggistica densa di suggestioni.
Alternando le peregrinazioni di Chateaubriand alle contraddizioni di Maurice Sachs, il mito di Saint-Just e il culto di Dantès, senza dimenticare miti, luoghi, orografie di un atlante ideologico sentimentale, tra i più interessanti e originali. Un percorso culturale per cui recentemente è stato celebrato a Pietrasanta con il Premio Libropolis a cui era già seguito il Prix du rayonnement de la langue et de la littérature françaises 2023 dall’Académie française, per la sua attività culturale ed editoriale con la Settecolori di Manuel Grillo, di cui è direttore editoriale. Una casa editrice (di cui ha seguito il destino sin dalla fondazione da parte di Pino Grillo) che recentemente è stata elogiata per il suo catalogo (che va da Maurizio Serra a Vargas Llosa, da Jean Giono a Paul Morand), tra i tanti da Alessandro Piperno nel suo Post scriptum ad una sua recensione dello splendido Speranza abbandonata di Nadežda Mandel’štam: “In un’epoca come la nostra in cui ogni giorno vengono pubblicati un numero esorbitante di libri destinati al macero — sciatti, mal tradotti, privi di apparati adeguati e zeppi di refusi — bisogna rallegrarsi che una piccola realtà come Edizioni Settecolori abbia saputo allestire un manufatto così bello: rilegatura di classe, carta preziosa, traduzione impeccabile, paratesti accurati ma scevri di pedanterie accademiche. Così si fanno i libri”. Per meglio comprendere le novità e i caratteri di questo nuovo corso abbiamo intervistato Stenio Solinas.
Tra le prossime pubblicazioni della Settecolori spicca, soprattutto, quella di un libro di un autore contemporaneo, Philip Hensher, dal titolo suggestivo ed evocativo: “L’impero del gelso”. Un testo denso di richiami tolstoiani che meriterebbe un maggiore approfondimento…
Si tratta di un romanzo incentrato sulla disastrosa missione ottocentesca di un contingente inglese in Afghanistan, ambientato nel 1830, seguendo le vicende di Alexander Burnes, nello sfondo di un mondo in cui il Grande Gioco fra Gran Bretagna e Russia per il potere e l’influenza in Asia centrale è in pieno svolgimento. In questo quadro il repertorio di caratteri presente nel romanzo è ricco e suggestivo: ci sono ufficiali e mogli di ufficiali, avventurieri e agitatori, linguisti e archeologhi, uomini di fede e intrepidi credenti: una babele di lingue, di religioni, di usi e di costumi. Tanto l’Afghanistan si mantiene misterioso, tanto gli sforzi occidentali (perché anche la Russia qui è Occidente rispetto a quell’Oriente) si illudono di poterlo penetrare. Finirà in una tragedia, ancor più sanguinosa in quanto fin dall’inizio annunciata e però dai diretti interessati non compresa. Intorno a questo fatto storico drammatico Hensher “ricama” una straordinaria meditazione sulla guerra, sui disastri che essa comporta e sulla presunzione degli occidentali di governare terre straniere e sconosciute pensando di plasmarle a propria immagine e somiglianza.
Tra gli autori viventi c’è poi anche Jean-Jacques Langendorf di cui avete pubblicato il suo “Scende la notte, Dio guarda”…
Anche questo romanzo parte da una vicenda storica e realmente accaduta: quella della crociera della nave da guerra dell’Emden, e dei personaggi che la resero possibile. Un’epopea che racconta quel mondo militare e bellico che ancora (r)esiste nella Grande Guerra e che poi verrà travolto e distrutto dalle evoluzioni e innovazioni tecniche. Mostrando l’ultimo eco di un mondo cavalleresco e militare, che ancora sopravvive tenacemente nei suoi riti, ritmi e costumi, prima che la mattanza delle trincee lo superasse e travolgesse per sempre. Un testo in cui si alternano tutti gli interessi e i temi tipici delle opere di Langendorf. Il quale è sia uno studioso di storia militare – che ricostruisce magistralmente questo itinerario – che un autore con un forte legame e fascino per l’Oriente, in cui spicca la sua attenzione per il mondo islamico. In questo quadro spicca la figura del barone Hohberg, un superbo personaggio letterario, che oltre ad essere un campione di quel mondo militare e cavalleresco è anche un orientalista che cerca di compensare lo spirito faustiano occidentale con la capacità contemplativa tipica del mondo orientale. Ne emerge un libro di guerra che è anche una lunga meditazione, un saluto, un omaggio ad un mondo che scompare; un ultimo momento di luce prima dell’addio. Il barone era infatti un austroungarico vissuto sotto le insegne degli Asburgo e a fine guerra scopre che non c’è posto per lui in quel mondo che nasce e che è contro ogni cosa per cui lui ha combattuto. La crociera dell’Emden rende visibile il sentimento estetico della guerra ancora illusoriamente presente nelle società europee di fine Ottocento e destinato a scomparire nel carnaio della Grande guerra. In contrapposizione con il furore bellico, delinea e rafforza l’immagine di chi, come il suo protagonista, vede nell’Oriente una possibile alternativa.
Un mondo che tramonta, mentre sorge l’utopia di acciaio e illusioni, orrore e terrore, dei totalitarismi. Pensiamo a quello stalinista di cui parla Nadežda Mandel’štam nel suo “Speranza abbandonata”…
…mai finora tradotto integralmente in italiano, “Speranza abbandonata” chiude le Memorie di Nadežda Mandel’štam apertesi con “Speranza contro speranza”. Dove, a essere raccontato non è solo un sentimento assoluto, quello per Osip Mandel’štam, il più grande poeta russo del Novecento, uomo e intellettuale stravagante e anticonformista, vero e proprio «esule in patria», ma anche un incredibile susseguirsi di ritratti di molti protagonisti della vita culturale dell’epoca, da Anna Achmatova a Vjačeslav Ivanov e Nikolaj Gumilëv, Aleksandr Blok e Vladimir Majakovskij. E poi Boris Pasternak, Marina Cvetaeva, Jurij Tynjanov. Un’opera memorialistica che mostra il volto di un Paese travolto prima dalla Rivoluzione, dilaniato dalla Guerra civile, soggiogato poi dal Terrore staliniano. Un’opera che per certi versi è la continuazione e il superamento dell’Arcipelago Gulag di Solzenicyn perché nelle sue pagine non si ha a che fare con l’inferno penitenziario, ma con la storia di due anime nella tempesta della ideologia e della storia tramite due protagonisti straordinari come Nadežda e Osip. Che attraversano gli anni Venti e Trenta da una parte all’altra sottoposti tanto ad un destino crudele quanto alle persecuzioni del dominio di un potere comunista che non tollera voci dissonanti. Sia Nadežda che Osip sono perseguitati soprattutto perché non vogliono preoccuparsi di essere al passo con quella storia, con quella rivoluzione in quanto sono dei veri e autentici scrittori. La Rivoluzione russa, del resto, non voleva scrittori, ma impiegati capaci di scrivere secondo i dettami del Partito e dell’ideologia. Osip morirà in un gulag mentre la moglie continuerà a vivere tra la carità e lavoretti occasionali preservandone la memoria e l’opera. Come testimone e custode dei versi del marito, che proteggerà inscritti nella sua mente dal potere sovietico. Si tratta di una forma di incredibile samizdat poetico che mostra la cupezza dei tempi e la grandezza della scrittura racchiusa nella vita della sua protagonista-autrice.
Un rapporto tra ideologia e arte che è centrale anche ne “El Greco dipinge il Grande inquisitore” di Stefan Andres…
Certamente. Anche se si tratta più che di un romanzo in realtà di un racconto lungo che mette in contrapposizione la figura de El Greco e la figura del grande inquisitore nella Spagna dell’impero e del cattolicesimo che voleva sottomettere l’arte ai dogmi della fede. Andres è un autore tedesco cresciuto nella Germania tra le due guerre, di iniziale forte fede cattolica, che doveva essere avviato a studi e carriere ecclesiastiche. Un autore che non vede con antipatia il sorgere del nazismo all’inizio perché lo ritiene un ritorno della grande Germania dopo l’equivoco democratico di Weimar e l’umiliazione dei trattati di pace. Un parere, quest’ultimo, che cambia però rapidamente in una Germania in cui il dissenso è sempre più perseguitato e in pericolo. A ciò si aggiunge il fatto che Andres ha sposato una donna ebrea e si trova, così, ad essere uno scrittore che vuole difendere la propria autonomia di fronte ad un potere invadente e oppressivo e una situazione familiare molto delicata che lo rendono vulnerabile e sospetto. Come Gottfried Benn e Jünger, si dedica all’emigrazione interna, e fortunatamente gli sarà concesso di emigrare in Italia. Ciò lo porterà a fare i conti con la censura fascista. Questo romanzo è, quindi, una meditazione sulle ragioni dell’arte, su fin dove un artista può spingersi nella sua lotta contro il potere. Su quanto lo scrittore può essere libero e quanto deve sacrificare all’emigrazione interna o agli incensi dell’altare del Potere.
Si tratta di una scintillante riflessione sulle responsabilità e il ruolo dell’arte, dell’artista di fronte a un potere assoluto e totalitario in cui la giustizia è irrimediabilmente dissociata dalla misericordia. Ma in cui il sentimento dell’umano – seppur minacciato – non può essere sconfitto.
Uno dei suoi temi cardine è certamente quello del viaggio, che si può trovare tanto in Supervagamondo quanto in altre opere da voi recentemente pubblicate…
Pensiamo all’“Alfabeto del viaggiatore” di Steven Runciman… Runciman è stato un grande storico e conoscitore del mondo classico e medievale, specie bizantino. Uomo dalle sconfinate conoscenze (il nonno era un armatore, il padre era un ministro nei governi precedenti alla Seconda guerra mondiale) e di una agilità linguistica che gli permise di girare e vedere il mondo, orientale e occidentale, negli anni di grande potenza dell’impero britannico e un po’ dopo la guerra per i suoi incarichi ufficiali (dato che era membro del British Council e fu invitato a tenere dei corsi in varie università). Poté, quindi, girate il mondo come civil servant britannico, grande docente e visiting professor. Il resoconto di tutto questo è un testo a metà tra autobiografia e testimonianza degli echi e degli spaccati del cosiddetto secolo breve. Dalla A del monte Athos alla mitica X di Xanadu, passando per la S dell’isola di Sarawak e per la T della Thailandia. La sua vita e i suoi soggiorni nei più svariati Paesi – Bulgaria, Messico, Cina, Turchia, Siria – racchiudono una moltitudine di storie (affascinanti, esotiche, divertenti) di cui questo singolare Alfabeto del viaggiatore è lo straordinario compendio. Così, di volta in volta, lo troviamo aiutare a far nascere un bambino sula strada per Tessalonica; rimanere assediato nel 1925 nella città cinese di Tiensin; esaminare con circospezione la collezione di un cacciatore di teste nel Borneo; vedere i fantasmi in compagnia del principe del Siam; versare cera bollente sulla testa calva del maresciallo Montgomery in una pasqua bellica a Gerusalemme… Un libro che oltre che un affresco splendido di un mondo affascinante è anche l’estremo omaggio a un’epoca e a un mondo in cui viaggiare era ancora un piacere.
Vita e destino, I due stendardi… Quali sono i grandi romanzi della sua vita e che legame ha con loro? Che cosa le hanno lasciato?
Diffido sempre, l’ho già detto, degli elenchi. Siamo fatti di tanti io che periodicamente si affacciano per poi scomparire e ogni volta portano con sé il grande romanzo di quel particolare momento, che poi magari riletto non avrà più quel particolare profumo che allora ti incantò. Per restare ai due che citi, quello cui sono più affezionato è comunque il secondo. Vita e destino è naturalmente un libro importante, ma lo è come quadro e controcanto di una tragedia del nostro Novecento e di un popolo, laddove I due stendardi è il romanzo della vita di tutti noi al tempo dei vent’anni: passioni infelici, sogni di grandezza, amori impossibili, discussioni fiume sui grandi temi, sbronze, sesso, risse… Che cosa si può volere di più? Inoltre, è un libro che mi sono battuto per anni per farlo tradurre, nonostante la mole, la difficoltà di renderne in italiano lo stile, la fama sulfurea, meglio, la damnatio memoriae del suo autore. L’esserci alla fine riuscito è una delle poche cose di successo della mia vita.
Quali saranno le prossime uscite?
Usciremo il prossimo anno con il romanzo di Olivier Rolin “L’ultimo sangue”, una storia già accennata da Hugo nei Miserabili, sulla rivoluzione del ’48 in Francia che porta alla fine della monarchia e poi all’affermazione dell’impero, dopo una effimera parentesi repubblicana. È la storia di due rivoluzionari che sconfitti si ritrovano esuli in Inghilterra la cui vicenda sfocia in un duello per maldicenze, accuse e incomprensioni. Rolin è molto noto e apprezzato ed è un contemporaneo che è amato per i suoi libri di viaggio, mentre questo romanzo è una sorta di inchiesta narrativa su questi due personaggi e le loro controversie.
Ci sono poi le memorie di Davide Niven, “C’era una volta Hollywood”: le memorie più divertenti e meglio scritte sul mondo cinematografico. Sfilano nelle sue pagine i ritratti degli amici più cari di Niven, Clark Gable, Humprey Bogart, Gary Cooper, Errol Flynn; i registi più eccentrici, da Lubitsch a Wyler a Chaplin; i produttori più celebri, compreso Sam Goldwin che lo licenziò; i parties più pazzi, quelli di Jean Harlow, Joan Crawford, Claudette Colbert, Greta Garbo; le croniste più pettegole, Hedda Hopper, Louella Parsons… Ribattezzata dallo stesso Niven “Lotus Land”, Hollywood fu dagli anni Trenta agli anni Sessanta la terra incantata in cui egli si mosse da par suo, con quel british touch che lo rendeva unico e con la capacità di non prendersi mai troppo sul serio, essendo sempre a suo agio, si trattasse di frequentare divi, divine e teste coronate, ma anche cowboys, marinai, attori senza talento e giocatori di professione.
Abbiamo poi in uscita il “Canto del mondo” di Jean Giono che è un “romanzo ecologico” solo nel senso che in esso si disvela la natura in tutta la sua bellezza, grandezza e crudeltà. Una natura epica attorno ad esistenza dure e magnifiche. Non una natura per anime belle…
Francesco Subiaco
*In copertina: Guerriero con la scimitarra sguainata, un disegno di Giambattista Tiepolo