
“Ho scordato il mio nome, non è Borges”
Letterature
Come un candelabro di luci soffuse, Il fiore azzurro di Penelope Fitzgerald richiede una lettura nel solco dell’invisibile. Ci esorta a coltivare non una vista, bensì una visione interiore, tra le righe del non-detto. Ci immerge in un mondo arcano, ormai perduto, quello della Sassonia di fine Settecento, dove l’eco della Rivoluzione francese alimenta un’incessante ricerca d’assoluto nel cuore del giovane e geniale Friedrich von Hardenberg, che in seguito diverrà celebre con lo pseudonimo di Novalis.
Nutrito di profonde e sapienti penetrazioni nell’opera e nella vita di Novalis, accuratamente rielaborate nel segno della fantasia, il romanzo rievoca la giovinezza del poeta sognatore, alle prese con la quotidianità della sua eccentrica famiglia, nel castello avito di Oberwiederstadt, nella contea di Mansfeld. Intensi sono gli anni universitari trascorsi a Jena, Lipsia e Wittenberg, dove il giovane Fritz incontra personaggi memorabili e vive in un vivace fermento di passioni e idee, tra avventure studentesche, riti familiari e sociali d’altri tempi, e dove già si destano irrespingibili aspirazioni filosofiche e poetiche nel suo animo romantico. Ma la vita ha in serbo per lui una (già decisa) carriera come ispettore delle saline. Il padre, bizzarro e fervente pietista, lo avvia verso il necessario mestiere, presso l’amministratore Just, a Tennstedt, dove Fritz arriva sul suo cavallo malconcio, con un carico di libri e l’immancabile taccuino.
Può un poeta diventare amministratore? Forse sì. Di giorno, nello spazio del visibile, Fritz si applica con dedizione allo studio delle carte e dei conti, ma la notte, nello spazio insondabile dell’invisibile, ritorna ai suoi libri e scrive al lume di candela. Compone il primo capitolo del Fiore azzurro: l’introduzione ad una storia che sente di non poter ancora scrivere. Non sa nemmeno cosa sarà. Ha fatto una lista di mestieri, professioni, tipi psicologici. Ma forse dopotutto non sarà un romanzo. Sente che vi è più verità nelle fiabe, immensi spazi che confinano coi regni dell’invisibile.
La sua vita è costellata di lampi e barlumi di infinito – istanti di pienezza – che ci sospingono, con lui, verso più delicate ed occulte zone del mistero dell’esistenza. Un giorno, fra Rippach e Lützen, sente la certezza dell’immortalità, come il tocco di una mano; qualche tempo dopo, nel cimitero di Weissenfels vede un ragazzo, ritto ma a capo chino, in meditazione su uno spazio verde non ancora scavato: una vista consolante nella semioscurità del camposanto.
Un quarto d’ora decide la sua vita: in visita di lavoro al castello di Grüningen, vede di spalle la dodicenne Sophie von Kühn, rivolta alla finestra, ad attendere la neve. Ed è una folgorazione: la piccola e sbiadita Sophie diventa così la sua angelica ispiratrice d’infinito nel segno di quel fiore azzurro che diverrà il simbolo della sua visione romantica. Dopo averle offerto il suo anello di fidanzamento, e sfidato le convenzioni sociali sull’età e l’inferiore estrazione della famiglia di Sophie, Fritz chiede di poterle leggere l’introduzione di quella che (senza saperlo) sarà una “fiaba dolorosa”:
“Suo padre e sua madre erano già a letto e dormivano, l’orologio sulla parete ticchettava con un battito monotono, il vento fischiava fuori dal vetro tintinnante della finestra. Di tanto in tanto la stanza si faceva più luminosa, quando entrava la luce della luna. Il giovane giaceva inquieto sul suo letto e ricordava lo straniero e le sue storie. ῾Non era il pensiero del tesoro che suscitava tali indicibili desideri dentro di me’, disse a se stesso. ῾Io non bramo ricchezze, ma ardo dal desiderio di vedere il fiore azzurro. Si trova incessantemente nel mio cuore, e non posso immaginare né pensare a nient’altro. Mai mi sono sentito così prima d’ora. È come se fino adesso avessi sognato, o come se il sonno mi avesse portato in un altro mondo. Perché nel mondo in cui solevo vivere, chi si sarebbe preso la briga di badare ai fiori? Lì una passione così sfrenata per un fiore non si era mai sentita. Ma da dove poteva venire questo straniero? Nessuno di noi aveva mai visto un uomo simile, prima. E tuttavia non so come mai io solo fui veramente catturato e avvinto da quanto costui ci aveva detto. Tutti gli altri avevano sentito quello che avevo sentito io, e tuttavia nessuno di loro aveva prestato seriamente attenzione”.
Di lì a poco Sophie si ammala gravemente; si rendono necessari diversi interventi chirurgici a Jena; dolorosamente, il piccolo fiore appassisce, ma Fritz sente di amarla ancor di più dacché è ammalata. La malattia, l’impotenza, sono di per sé una rivendicazione di amore. “Non potremmo provare amore per Dio Stesso se egli non avesse bisogno del nostro aiuto” dice Fritz.
Come ogni fiaba perfetta, questo omaggio a Novalis ci sospinge verso una “superiore” percezione, una visione interiore, appunto. Quando salutiamo Sophie e ci troviamo sconfitti, con Fritz, davanti all’irreparabile, l’invisibile sovrasta il visibile, come se in questo mondo esistesse solo ciò che non è di questa terra: un piccolo, pallido, fiore azzurro che si avvicina – e ci avvicina – al Cielo.
Vincitore nel 1997 del National Book of Literary Critics Award, tradotto in Italia da Masolino D’Amico per Sellerio nel 1998, Il fiore azzurro è salutato dalla critica come il capolavoro di Penelope Fitzgerald (1916-2000), che lo scrisse alla venerabile età di ottant’anni.
Chi è mai questa scrittrice, potente e delicata, a tratti ironica, che ha saputo tacere fino all’età di sessant’anni, per poi scrivere libri indimenticabili ed arrivare ad un simile “granaio dell’anima” ad ottanta?
Laureatasi ad Oxford nel 1939, ebbe varie esperienze di lavoro e di vita, tra cui il giornalismo e la storia dell’arte (il suo primo libro è uno studio del pittore Edward Burne-Jones). Quasi tutti i suoi romanzi hanno vinto premi prestigiosi fra cui il Booker Prize. Amava definirsi autrice di “microchip novels”, romanzi in miniatura, scherzando sulla loro (ingannevole) concisione, che trasuda invece profonda sapienza nella compattezza del suo estro creativo.
Come sottolinea Masolino D’Amico nella brillante nota conclusiva:
“Il fiore azzurro […] crea mediante tocchi magistrali ‒ una fetta di paesaggio, una minestra, una cerimonia come l’indimenticabile bucato annuale dell’inizio ‒ tutto un mondo remoto […] Pur senza togliergli fuoco né mistero, la Fitzgerald rende plausibile questo personaggio come altri grandi ‒ Fichte, Friedrich Schlegel, Goethe ‒ che si affacciano con naturalezza per qualche momento, descrivendolo soprattutto attraverso i suoi contatti con molti altri evocati non meno vividamente, in parte appartenenti alla sua strana famiglia dominata da un padre bigotto e collerico. L’episodio centrale è il rapporto di Hardenberg con la bambina che il futuro poeta idealizzò, un po’ come Dante fece con Beatrice, riuscendo quasi a convincere il mondo della necessità di quella passione”.
Senza dubbio, Penelope Fitzgerald ci ha convinti. Diciamo con Fritz “questo è veglia, quello è sogno, questo appartiene al corpo, quello allo spirito, questo appartiene a spazio e distanza, quello a tempo e durata. Ma lo spazio si riversa nel tempo, come il corpo nell’anima, così che l’uno non può misurarsi senza l’altro”. Sempre, qualcosa di non misurabile ci trascende. “Siamo stranieri su questa terra. Il nostro afferrarla è un processo di estraniamento”. Solo quando non cerchi di agguantarla, distruggendone il corpo delicato, la farfalla si poserà sulle tue mani… forse per volar via un attimo dopo, o restare per sempre?
Marilena Garis