Le ricorrenze, le rincorse, il dedalo dell’ossessione: questo giustifica l’opera di un autore, distingue lo scaltro ispirato dal patriota del proprio infimo patrimonio di scritti. In fondo, uno scrittore autentico scrive sempre lo stesso libro, pur timonando i registri, con spiazzante continuità. Di fatto, Gianluca Barbera ha iniziato la sua vera vita letteraria – pur scrivendo da sempre, a volte con nomi fittizi – con Magellano, romanzone storico, edito nel 2018. Il libro fece incetta di premi, è stato tradotto qua e là – con un certo successo in Portogallo e in Brasile –, è dominato da una scrittura possente, a tratti vetrificata nell’arcano. Un libro complesso, insomma, ambizioso, ben più vasto di quello di troppi scrittori italiani in auge, cerebrali, servi del proprio ombelico, preteschi, che usano la narrativa come pretesto biecamente sociologico per dirci come va il mondo – e chissenefrega.
Insomma: da lì Barbera si è fatto solitario corsaro di un genere desueto, dato per morto, quello del romanzo “d’avventura”; senza timore di denunciare i propri maestri (Emilio Salgari e Robert Louis Stevenson). Così, in serie, con pazienza chirurgica e inventiva infaticabile, sono usciti Marco Polo (2019), La leggenda di Jesse James (2019), Il viaggio dei viaggi (2020), Mediterraneo (2021). L’ultima notte di Raul Gardini (2022, con sentore di traduzione cinematografica) è, in fondo, una variazione sul tema con virate noir; non mancano i panorami esotici, le avventatezze.
L’ultimo romanzo, Magellano e il Tesoro delle Molucche (Rizzoli, 2022), riprende i temi del libro originario, riscrivendoli secondo la tradizione della letteratura “per ragazzi”. A narrare la storia – che ha la presunzione di diventare un ciclo –, con il cliché della fiaba (“Lasciate dunque che mi presenti…”), è Antonio Pigafetta, “di professione geografo e astronomo”, autore della Relazione del primo viaggio intorno al mondo. Spigliata, ironica (“Quasi non riuscivo a crederci: il terribile Magellano era lì, proprio davanti a me! Sulle prime mi fece un’impressione ben misera”), la vicenda accumula colpi di scena, flagelli biblici (“Una mattina, mentre eravamo sul ponte… ci trovammo circondati da insetti”), estenuanti gite oceaniche (“Davanti a noi si apriva una distesa di acqua sconfinata, un intero mondo liquido senza limiti”), isole ai confini del tempo, referti antropologici (si legga il capitolo 9, Nella Terra del Verzin), amori che collimano con l’illogico (quello di Pigafetta per Ippolita, a cui “il nostro mondo andava troppo stretto”). Il libro non è privo di fiammate filosofiche, secondo i modi dello scrittore (questa, per dire: “L’uomo è la più insondabile delle creature, non sono il solo a pensarlo”), sta tra L’isola del tesoro e la serie “Pirati dei Caraibi”.
Barbera, d’altronde, secondo gli insegnamenti del suo arguto eroe – il Pigafetta autentico, quello della Relazione – sa che si scrive “perché sono molti curiosi”, per una intrepida curiosità, e che non c’è altro da scrivere che “de le grandi e stupende cose del mare Oceano”. Eccolo, il genio del narrare: mirare allo stupendo, all’enorme, allo stupore dominante; l’oceano, in effetti, è la metafora della pagina bianca, oceanica.
Detto questo, Barbera pone un problema editoriale, affascinante. Che fine ha fatto il filone della grande editoria di viaggio, spregiudicata, avventuriera? Un paio di esempi: Leonardo Da Vinci Editore, che pubblicava fuoriclasse come Fosco Maraini e Folco Quilici, e la collana “Il Timone”, diretta per conto dell’Istituto Geografico De Agostini da Enrico Emanuelli, splendido scrittore e viaggiatore, che ha divulgato, tra gli altri, Edmund Hillary e Roger Frison-Roche, Nikolaj Miklucho-Maklaj e Christopher Rand. Soprattutto, venivano pubblicati i narratori-esploratori italiani, una sequela di eroi magnetici, ora quasi misconosciuti: Giacomo Costantino Beltrami, Augusto Franzoj, Pietro Sacconi, Pietro Savorgnan di Brazzà, e su, fino a Eugenio Turri e a scrittori di oceani e di deserti come Vittorio Giovanni Rossi, appena riscoperto da Lindau (era ora), colpevolmente dimenticato per decenni da un mortorio editoriale che specula sul tedio mediobasso o su un eroismo d’accatto, con transito statunitense. Autori, in verità, questi, che appartengono al lignaggio più alto della letteratura italiana, che si fonda intorno a un viaggio reale, in luoghi inauditi – Marco Polo – e su un viaggio oltremondano, quello di Dante.
Gianluca Barbera porta cappelli a tesa larga, sorride spesso, ha l’andatura brusca di un Long John Silver. Abita nelle colline di Siena, dicono. Quando sono andato a trovarlo mi ha scortato in un fervore di boschi, con un fuoristrada. Guardava la via come se da un momento all’altro potesse sbucare un lupo e la sua ciurma; ti parlava con il ritmo di chi è pronto a salpare.