Nel giorno del ventunesimo compleanno di Roberto Calasso, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, Roberto Bazlen parlò a Calasso di un progetto, una casa editrice che pubblicasse scritti particolari, incompresi o non considerati altrove; una collezione di «libri unici» che, secondo un filo conduttore cifrato, non temesse di accostare un classico di mistica tibetana (Vita di Milarepa) al diario di prigionia di un ignoto ufficiale inglese (Christopher Burney, Cella d’isolamento); o un libro di etologia filosofica (Konrad Lorenz, L’anello di Re Salomone) a un testo tardo medievale sui precetti del «fiore» e dell’ «incanto sottile» nell’arte rappresentativa Nō (Zeami Motokiyo, Il segreto del Teatro No).
In quegli anni i grandi editori, frastornati dal clima post bellico, premuti da esigenze moraliste e pedagogiche, dai pregiudizi politico-culturali della neonata società borghese, pubblicavano opere ovvie, tralasciando «vasta parte dell’essenziale». La bigotteria laica, gli afflati cattolici o marxisti, parevano obbligare gli editori ad accogliere a grappolo solo autori allineati, catalogabili: «gli storici polacchi, i semiologi russi», lasciando ai margini impulsi letterari nodali, che avrebbero trovato invece la propria casa in Adelphi: il genere fantastico, la Mitteleuropa, le culture orientali; e sopra ogni cosa, l’indagine di altri livelli di esistenza.
Adelphi si rivolge a un’élite di iniziati, pronti ad accogliere una letteratura esoterica, che passa a volo radente dalla spiritualità orientale al surrealismo profetico e apocalittico di Alfred Kubin.
Calasso, accompagnato da Bazlen, «genio mercuriale» di raro intuito, e ispirato dalla spiritualità rigorosa di Luciano Foà, uno «scriba egizio» ossessionato «dal tema della grazia», dà vita a un progetto editoriale alchemico, irriverente, il cui marchio sarà «un antico ideogramma cinese che rappresenta due figure umane, simbolo di morte e rinascita, che si levano sopra una falce di luna nuova» (Marco Belpoliti, I fratelli della luna nuova, rip. in: Adelphi. Editoria dall’altra parte, Oblique studio, 2016).
Anche il nome Adelphi, che in greco vuol dire «fratelli», ha un chiaro sapore esoterico: un piccolo gruppo di «affiliati», siano essi scrittori o lettori, che gioiscono o patiscono delle stesse suggestioni, delle stesse fascinazioni: una confraternita.
La casa editrice negli anni manifesta il proprio anelito a divenire una creatura viva, con una sua recondita unità ma dalla superficie policroma e multiforme, composta di libri irripetibili, invulnerabili al tempo, ma che «avevano rischiato di non diventare mai libri», la cui esistenza era dipesa cioè dal miracolo della ricezione; libri «simili al residuo, shesha, ucchishta, su cui non cessavano di speculare gli autori dei Brāhmaņa e a cui l’Atharvaveda dedica un inno grandioso» (in: R. Calasso, L’impronta dell’editore, Adelphi 2013).
Ogni libro unico è un residuo, l’effetto inevitabile di qualcosa di impetuoso; un’opera che si è servita dell’autore per divenire sé stessa per poi trascenderlo, e che va a comporre un altro tassello di quel grande, serpentiforme libro unico che è l’intera casa editrice: un luogo dell’anima dove si perseguono l’unicità, la profondità, si dà accoglienza agli assilli più ripidi, alle suggestioni più inafferrabili, agli orizzonti più remoti.
La veste grafica della neonata casa editrice si definì, a poco a poco, secondo gli stessi principi simbolici di richiamo degli adepti: colori pastello, cartoncini opachi: l’imitlin con la sua trama leggermente ruvida, la sua vocazione pregiata; le cornici grafiche di Aubrey Beardsley, le immagini di copertina come anti-ecfrasi che evocano in modo arcano un’idea e sono, tra loro, in continuo dialogo rizomatico, reticolare. Nascono analogie predestinate, gracili fili di parentela, affinità elettive oblique, in cui certi pittori sembrano aver dipinto pensando a certi libri, e viceversa. Le violette di Dürer per Marina Cvetaeva, George Tooker per Milan Kundera, Alex Colville per Christina Stead, Richard Oelze per Oliver Sacks. E così Thomas Bernhard e Spilliaert, che sembrano riecheggiare l’uno nell’altro: all’editore il compito quasi sacerdotale di portare alla luce una mirabile rete di relazioni e consanguineità sommerse.
Ma la peculiarità dei peritesti di Adelphi trova la sua massima espressione nei risvolti, che Calasso curò personalmente per un lungo periodo: ne scrisse 1068 di suo pugno tra il 1965 e il 2003. L’editore, divinità olimpica e remota, sente il bisogno di rivolgersi al singolo lettore perché, se la parola pubblico indica un’«entità ingombrante e informe», la verità è che la lettura è solitaria, come il pensiero, e presuppone l’oscura e isolata scelta di un individuo. Ed è a questa singola creatura che il nume, dalle sue distanze siderali, si rivolge con pochi accenni, in un rito di iniziazione e riconoscimento.
Calasso non racconta, o non soltanto: descrive le impressioni che il libro gli ha suscitato, il perché lo ha scelto; evoca paralleli, riferimenti, assonanze, atmosfere, in un giardino emotivo e sapienziale in cui è impossibile, da parte del lettore, non riconoscere, se vi sia, la propria affiliazione.
Mentre Giulio Einaudi cercava di creare un catalogo per il popolo, raccogliendo una vocazione familiare alla collegialità, alla postura istituzionale, e agiva da primus inter pares con Pavese, Manganelli, Calvino, Davico Bonino, Calasso è un titano solitario: scomparsi negli anni i fondatori Bazlen e Foà, il demiurgo rimane solo, e continua a creare un universo a propria immagine, allungandovi sopra la propria ombra.
I risvolti di Calasso sono testi vertiginosi, esplorazioni d’infinito: ricorsivi, perpetui, autoreferenziali come una litografia di Escher, in cui una mano disegna l’altra; è impossibile ricondurli a uno schema precostituito: tra descrizioni screziate, ossimori di geometrica perfezione, seduzioni filosofiche e bagliori di civiltà remote, malizie mondane e ripiegamenti intimistici, ciò che si rivela al lettore è la suggestione policroma di un tutto, così assoluto e lieve da irretire senza saziare mai. Uno per tutti, il risvolto di Inferno di August Strindberg, (Biblioteca Adelphi, 42), Adelphi, 1972: “[…]. Strindberg ci appare qui al tempo stesso come l’alchimista delirante che in squallide stanze d’albergo trasforma il piombo in oro; come l’uomo dello «scetticismo illuminato», che ha superato ogni illusione; come un lucidissimo ossesso per il quale ogni fatto è condannato a diventare segno […]; come l’aruspice per cui ogni coincidenza è una «corrispondenza»”. Ma così accade per La Terra Rossa di W.H. Hudson, In Patagonia di Bruce Chatwin, I Quaderni di Simone Weil e per innumerevoli altri.
Leggendo un risvolto della Biblioteca Adelphi del periodo Calasso si riceve un’epistola; è un’esperienza sensitiva, formativa, ci si sente inclusi o esclusi, attratti o respinti. Gli stessi risvolti, così come tutte le opere del catalogo, dialogano tra loro, in una intricata rete di richiami, in un corridoio di specchi: l’editore è poeta e letterato, la sua mente è inesauribile, labirintica come la casa di Asterione; e così la sua casa editrice, in cui ogni paratesto è un’opera d’arte.
Così Asterione ci parla, dal suo labirinto (in: L’Aleph, tr. Tentori Montalto, Adelphi, 1998): «So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. […] Certo, non mi mancano distrazioni. […] Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli vena a farmi visita e che io gli mostri la casa».
Proprio nell’insieme delle cento, mille lettere a sconosciuti, che Calasso negli anni ha redatto con una dedizione che sembra temprata alla fiamma, in anelli concatenati di pura, limpida rivelazione, si intravede il profilo della mirabile creatura Adelphi: qualcosa di flessuoso, in cui a una superficie cangiante, sottende un nucleo di affinità e concentrica perfezione. Il comune afflato all’inarrivabile, che contraddistingue la confraternita, raggiunge una delle vette più alte in Cristina Campo. Leggendo le parole di Guido Ceronetti, quando parla di Il flauto e il tappeto (in: Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi 1987), ci si rende conto di quanto il suo dire si adatti allo stesso Calasso, al suo mirabile e affettuoso sorvolare sulle mille parti della creatura iridata Adelphi, descrivendone passo passo ogni suo organo nei risvolti, con accostamenti, affondi critici e improvvise epifanie che paiono «spade d’oro»: «L’amore della parola purgata cerca e distingue i suoi: pezzi di mondi stranieri ci diventano, grazie a questa identità di fuoco, come l’ombra del ricino a Giona. Inutile, del resto, implorare il silenzio degli sciocchi: è già ottenuto, quando si scrive in un modo che li tiene, come una lunga invisibile lancia, lontani. […] Si prova una grande gioia a possedere abbastanza mestiere del vago e dell’impossibile per capire certi corni essenziali di questo libro. Se l’erudizione insolita che lo ragna di sopra e di sotto rimane oscura (opere non lette, cose non viste, altre scelte) il difetto è veniale; ma sfuggono, senza fraternità templaria, quei punti di dottrina e di sapienza che sono lo sbocco unico e certo dell’intelletto emendato, del giusto esercizio mentale e della fedeltà al pensiero, le verità repentine accese dallo squarcio».
Qualcosa di incavato e sapienziale, che non recluta tutte le menti, ma solo alcune, e provoca il «silenzio degli sciocchi», tenendoli lontani. Ma tale «fraternità templaria» non si confonda con abiette segregazioni di natura sociale o di pura erudizione; la rosa degli affiliati coagula naturalmente attorno alla magia della parola, del ragionamento: l’arruolamento segue vie insondabili, simili a quelle con cui la fiaba o il mito scelgono l’eroe: «Pesa su ogni fiaba – pesa su ogni vita – l’enigma impenetrabile e centrale: la sorte, l’elezione, la colpa. L’avventura gloriosa può cadere sull’innocente: il mansueto pastore, la fanciulla murata nella torre. Una forza imperativa spinge altri, gli inquieti, alle partenze senza spirito di ritorno, alla spogliazione di ogni possesso possibile per quell’altro impossibile bene. Imperscrutabilmente, spinge taluni all’infrazione».
Quell’«infrazione» che è iniziazione, e che accomuna gli autori, gli editori e gli stessi lettori della confraternita, altro non è che la costante e rinnovata infatuazione per quella «parola purgata [che] cerca e distingue i suoi».
Da quando Calasso non scrive più di suo pugno i paratesti, la casa editrice Adelphi ha mantenuto il suo contegno erudito e sottile, la Biblioteca le sue scelte di pregio. I risvolti però hanno assunto un tono e un assetto che somiglia più a qualcosa di ben fatto ma di ordinario, più vicino all’umano che al divino. La struttura si presenta simile a quella tradizionale – contesto, trama, affondo critico, giudizio – da sempre adottata dalle altre case editrici.
Risvolti impeccabili, di stile formalmente elevato, ma esplicativi, interpretativi, e come tali, concepibili. Manca lo sconcerto del parallelo inatteso, l’evocazione fulminea e forgiante; l’annichilimento di fronte alle gelide altezze; il tremito di fronte a roche, crepitanti profondità: i «baratri d’azzurro, pozzi di fuoco» dove «lune e comete s’incontrano, favole e mari» (in: Arthur Rimbaud, Illuminazioni, edizioni SE, 1986).
Mentre è presente, seppure mai eccessivo, un atteggiamento elogiativo di tono vagamente promozionale; un atteggiamento secolare, profano, terrestre.
Adelphi è dunque una creatura acefala, un borgesiano «essere immaginario» che, se pur prodigioso, è svuotato del suo primitivo nucleo incandescente? Se «il modo che ha un poeta di ricavare dal suo lavoro passato nuove illuminazioni per la sua coscienza, somiglia a quello con cui Münchhausen raggiungeva la luna: tagliando la corda sotto di sé per allungarla di sopra», è normale che ogni epoca finisca orfana di certe voci della precedente, lasciando spazio alla diversità dell’attuale.
Adelphi senza Calasso, o con un Calasso rivolto altrove: una nuova era, forse; dopo quella degli dèi, quella degli eroi: ugualmente prodigiosa, non meno sublime e fiabesca, ma più vulnerabile: il demiurgo, dopo aver impregnato la terra di sé e della sua progenie, pare stanco, assorto o innamorato d’altro, e guarda un orizzonte lontano. Ancora Cristina Campo: «Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte».
Forse deve andare così, verrebbe da dire, in un tempo in cui gli dèi sono stanchi, e i giganti addormentati. I risvolti, o meglio dire le epistole di Calasso contenevano verità ripide, in cui pareva a volte – con un brivido – di sentir chiamare il proprio nome. Calasso è genio e demone, innamora e spaventa: per altezze e complessità d’evocazione, illumina con la rapidità corrucciata del lampo; dunque se il bordone sapienziale che accompagnava ogni sua frase, «l’erudizione insolita» che lo accomuna alla Campo, faceva sentire spauriti, inadeguati, tuttavia non ne rendeva meno brucianti ed epifanici gli affondi; e ancora, se il presente sonnecchia, e appare a tratti una Terra desolata, è necessario coltivare la speranza di un futuro letterario nuovamente abitato da giganti, da narrazioni inesauribili e fatali, la fiducia che si stiano formando «correnti sottomarine» pronte a «spolparci le ossa in bisbigli», e che si dispieghi nuovamente il miracolo di percezione che fu.
Ma intanto la creatura Adelphi è formata, e l’aura pregiata e austera che il demiurgo ha donato all’iridescente creatura continua a emettere il suo bagliore. Di fronte all’imitlin, al rosso castagno, al rosa prugna, all’azzurro pervinca, al terra rossa ossidata, al rosa Tiepolo; alla cornice di Beardsley, a certi nomi e titoli, a certi narratori e certi narrati si è raggiunti da quel soffio all’orecchio, ci si sente convocare. I nostalgici «affiliati» rileggono gli scritti redazionali di Calasso come opere d’arte che si schiudono a ogni riedizione, a ogni ristampa; mentre la bellezza del catalogo Adelphi mantiene inesauribili le sue seduzioni, e chiama come l’ingresso della casa di Asterione, dove non vi è altra mostruosità se non la perfezione dell’inestricabile e dell’inesauribile.
*In copertina: Roberto Calasso; la fotografia è tratta da qui