Quando gli domandarono il motivo per cui non dirigesse mai opere liriche, il sommo Sergiu Celibidache rispose che non riusciva a trovarne il centro tonale. Era quello il suo limite di musicista, l’unico. L’assenza di quel punto focale armonico contraddiceva alla sua «fenomenologia» musicale. Eppure, sebbene sfuggente, esso c’è: facendo i dovuti distinguo, è più o meno la medesima posizione in cui mi trovo davanti a un libro di Roberto Calasso.
Nella sua opera in fieri, ora giunta con La Tavoletta dei Destini, appena mandata in libreria dall’Adelphi, all’undicesimo pannello, Calasso è solito procedere per allusioni, sornione e oracolare. Che cosa ci sta dicendo dal 1983, anno della Rovina di Kasch, a oggi? Forse si riassume tutto nell’epigrafe alle Nozze di Cadmo e Armonia, il suo libro più noto, che trae da Salustio: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre».
Cosa sono queste «cose»? Risposta: tutto ciò che avviene nella mente e che pertanto può essere raccontato. E poiché il mentale non è meno concreto del reale, ecco che «queste cose sono sempre». Non c’è epoca o luogo in cui non si siano raccontate storie, in cui l’uomo non traesse piacere dal riferire quanto si era depositato nella sua mente e avesse alla sua volta avuto una ricaduta sulla realtà. Non se ne potrebbe tacere perché sono il tessuto della nostra esistenza.
Calasso è l’ultimo scrittore che si incarichi di rimodellare un vasto frammento delle storie che si sono avvicendate nel corso del tempo, da Oriente a Occidente. Spigoliamo: L’ardore è dedicato alla sapienza vedica, Il libro di tutti i libri, penultimo pannello, è dedicato all’Antico Testamento, K. al multiverso di Kafka, Ka è invece la più magistrale sintesi della mitologia indiana, e arriva sino all’esecrato buddhismo, colpevole di aver fatto piazza pulita del mito.
Adesso, con La Tavoletta dei Destini, tocca invece alla misteriosa città di Dilmun, da cui la principale voce narrante, Utnapishtim, riferisce di fatti straordinari appartenenti a un mondo perduto, ma che ha tutta l’aria di rassomigliare al nostro. Qual è infatti la storia principe della Tavoletta dei Destini? La stanchezza degli dèi nei confronti degli esseri umani e il conseguente diluvio. Non sarà stato affatto un caso che un libro simile sbuchi – silenzioso come è giusto che sovente arrivi l’ammonimento celeste – nel tempo della pestilenza cinese globale. Se una tramutazione avvenne già diverse volte nella storia del mondo, perché anche non adesso? E perché non estrarre dagli ipogei quell’antico mito e tentare di leggere alla sua luce l’odierna catastrofe?
Ci dobbiamo ancora chiedere, al di là di coincidenze sospettabili di forzatura, se queste storie abbiano un significato. In un’intervista di qualche anno fa Calasso disse che tutto ciò che rientra in questo vasto vaso che è la mente, «è molto più reale di noi», perché, mi permetto la chiosa, noi a un certo punto scompariremo, ma quanto sarà stato scritto in quelle pagine resterà per sempre. E vi resterà, pare sussurrarci Calasso, non come evento conchiuso in se stesso, quanto piuttosto come manifestazione variata della presenza nel mondo del numinoso. Nell’Innominabile attuale, contravvenendo al suo noto understatement, Calasso sin dal titolo si libera da ogni remora e mette alla berlina, se pure con la solita allusività, la perdita del senso del sacro nella società contemporanea. Già con La rovina di Kasch ci aveva avvertito: si può andare in malora se solo si perde il contatto col numinoso. Un contatto terribile e bruciante perché ha al suo centro il sacrificio: non già un tema culturale, bensì una necessità, senza la quale si ricade inevitabilmente in questo amorfo abbandono degli dèi.
In tempi come i nostri tutto ciò potrà parere esornativo o, peggio, un esercizio intellettualistico, perché l’innominabile attuale vuole certezze e scienza. Non risulta tuttavia che con la sua abbondante boria la così detta scienza – quale poi, di grazia: borghese, alternativa, nascosta? – abbia a sua disposizione le precise risposte a ogni domanda. Invece, suggerisce Calasso, c’è qualcosa che ne ha, talora in abbondanza.
Ma a rispondere bensì indirettamente eppure con maggior efficacia all’accusa inevitabile è lo stesso Utnapishtim (ed è ovviamente Calasso stesso): «Le storie che racconto in parte sono accadute mentre ero già qui a Dilmun, in parte le ho sentite raccontare prima ancora che Ea mi salvasse sul battello cubico, insieme agli animali. E a volte sono storie a cui io stesso ho partecipato. Ero un figurante. Ma con il passare del tempo queste distinzioni si attenuano, tendono a dissolversi. Le storie si concatenano fra loro come se già sapessero in quali punti disporsi. E io passo dall’una all’altra come su un unico, luccicante nastro. Alla fine, sono semplicemente storie. E alle storie non si chiedono i documenti». Ecco – forse – il centro tonale.
Luca Bistolfi
*In copertina: Odilon Redon, “Testa di martire”, 1877