“In un cimitero, alle prese con una tomba e con una cassa di metallo appena esumata: emanano un fetore spaventoso”.
Nel 1980 esce per Adelphi (quasi in sordina) Dalla Gola del Leone, settimo saggio di Sergio Quinzio per la nota casa editrice milanese che l’autore presenterà in alcune librerie durante un ristretto giro tra Lombardia, Piemonte e Marche. Libro uscito pochi anni dopo il Commento alla Bibbiamastodontica analisi in quattro volumi del testo sacro.
Sergio Quinzio, nato in Liguria nel 1927 e trasferitosi prima a Roma e poi a Torino alla morte della giovanissima moglie lascia per sempre la divisa della Guardia di Finanza e si trasferisce in un remoto paesino marchigiano per intraprendere un percorso intriso di sacralità e disperazione alla ricerca di una risposta alle tragiche domande apocalittiche rivolte al Signore nell’attesa che avvenga ciò che è stato da lui annunciato; la resurrezione dei morti e così il ritorno dell’amata moglie.
Questo volume nasce da una serie di lettere inviate a vari amici sul finire degli anni Settanta. Tra queste amicizie vi è anche quella con Anna Giannatiempo allora assistente di Padre Cornelio Fabbro (docente di Filosofia all’università di Perugia) che diventerà la sua seconda moglie.
Quinzio, com’era solito fare nel comporre i suoi scritti, prende alcune parti delle lettere e ne costruisce la gabbia per il nuovo saggio, aggiungendo per la prima volta le descrizioni di alcuni sogni, potenti e inquietanti, che in quel periodo annota una volta sveglio.
“Tento d’inerpicarmi in macchina per una salita fangosa. Faccio di nuovo l’ufficiale della guardia di finanza ma poi anche il medico in un ospedale. C’è una perdita d’acqua in casa (la casa come altre volte ha locali troppo grandi, soffitti altissimi, vecchie vetrate sudice, pareti corrose). Faccio cadere un vaso con un piccolo arboscello che si spezza, lo ripianto a terra con rabbia. Sogno Stefania. Ritorna a casa dall’ospedale convalescenziario dove è stata come nascosta tutti questi anni senza che io potessi vederla. Apparentemente sta bene, passeggiamo insieme, ma mi dice che le sono tornati i dolori al petto, ai quali medici hanno detto di non dare importanza. Non riesco a vederle il volto, quando lo vedo è un volto completamente diverso, il volto di un uomo”.
E sono proprio i sogni la vera spinta innovativa che rende particolarissima questa raccolta di pensieri, aforismi, deduzioni. Disperati, orrifici, misteriosi i sogni di Quinzio alterano le pagine della raccolta quasi a voler traghettare il lettore verso il rivolto più oscuro della fede e della vita. Quasi a toccare, in un’eterna veglia dormiente, l’ignoto profondo.
“Dopo ogni risveglio i sogni riprendono con la stessa angoscia e la stessa agitazione. Anna è offesa da un mio minimo gesto d’intimità, io scappo e mi getto in un fiumiciattolo, nuoto nell’acqua putrida, poi mi arrampico sulla riva, entro in una casa vuota dove c’è un morto incastrato tra le travi del soffitto.
Sono nell’appartamento dove Stefania abitava da bambina a Roma. Ci sono dei muratori e altri operai. Ma dell’acqua sudicia sgorga dagli scarichi della vasca e dai lavandini e invade tutto. La casa è anche uno spazio aperto dove si stanno costruendo due o tre capannoni, un grande tendone verde scuro sbatte al vento. Squilla il telefono, è una voce di donna che dice ‘sono la mamma’. Quale mamma? Cerco d’indovinare e il cuore mi trema forte. ‘Sei Stefania?’ ‘No’”.
Tra i solchi della “gola del leone” vi è spazio anche per amare riflessioni sulla deriva consumistica che stava cominciando a distruggere addirittura i paesaggi grazie alla mastodontica pubblicità. La plastica prende il sopravvento sul legno e sul ferro, i percorsi non sono più semplici (non lo sono mai stati in fondo) e la vita continua a mietere solitudini ed abbandoni.
“Percorrevo il tratto di costa tra Fano e Pesaro e c’era al largo qualche peschereccio, il cielo era sereno ma il mare calmo era senza colore. La spiaggia deserta, ma piena di cartelli di pensioni, alberghi, ristoranti, pizzerie. Quella costa, come tutte ormai, vive solo per l’estate, anche d’inverno sento che è tutta contaminata dalla meschinità, dalla volgarità, dalla bestialità. La faccia della gente dice solo questo. Ci sono i casermoni di cemento delle fabbriche, che producono ingredienti per vivere quella vita: camere da pranzo, salotti, finto rustico, finto lusso. Ancora cartelli della pubblicità ovunque, sigle di industrie, commerci, istituti, enti, indicazioni topografiche. Tutto quello che hanno fatto gli uomini per sfuggire alla cupa solitudine della natura è brutto”.
“Qualche volta ho detto che ho risolto il problema dello scultore Manzoni, quello cioè di non essere fagocitati dal meccanismo e trasformati in prodotti da consumare: i suoi escrementi in scatola sono vendibili, resta ancora sempre la fede ad avere un residuo inconsumabile, quando tutte le rivoluzioni sono state definitivamente consumate”.
Dal suo eremo sito a Isola del Piano, dove vive frequentando pochi amici e con una madre anziana, una zia e una figlia piccola a carico, l’unico modo di comunicare con il mondo è quello di scrivere lunghe lettere al fratello Patrizio, agli amici intellettuali dell’epoca (su tutti Guido Ceronetti) e ad altre persone unite a lui per sensibilità e visione del mondo.
“La mia casa è stata venduta a pezzi; da un rigattiere tento di ricomprare qualche vecchio oggetto che giace a terra coperto di polvere.
Vedo per un momento la costa di Arenzano dove abbiamo festeggiato le nostre nozze.
Una scalinata conduce a un nuovissimo istituto per il cancro. Ci sono piante arrampicanti fra i due ingressi: a destra si entra in una specie di museo dove vengono illustrate ipotesi sull’origine della malattia. Si vede la prua sgangherata di una vecchia imbarcazione che s’immerge e riemerge dall’acqua, il legno è ormai fradicio, marcio, si sfascia. Pare che la polvere di questo legno imputridito porti il contagio. Dall’ingresso di sinistra si entra nel centro di diagnosi e terapia. Ci vado con Stefania che sottopongono a diverse analisi. Leggono i risultati, i referti, le schede, sono tutte irrimediabili prognosi di morte. Hanno compilato una scheda anche per Pia. Stefania è incinta, partorisce prematuramente il nostro secondo figlio.
Ma io intanto sento il miracolo della vita di Stefania accanto a me, sento che cos’era la sua presenza anche nell’incubo della malattia e della morte, anche nell’agonia. Mi sveglio e risveglio pieno di nostalgia di lei e di rimorso di essere vivo”.
I sogni raccolti in questo pamphlet sprofondano nell’abisso, tra visioni escatologiche e lampi di vuoto, come a chiudere i chiaro scuri di questo uomo così diverso il cui pensiero originale, ahimè, non è stato raccolto dalle generazioni future.
“Sono ad Alassio, il paese ligure dove sono nato. Un canneto brucia sulla riva del mare in burrasca”.
Giosuè Gorinzi