28 Marzo 2020

“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Simoncelli, il poeta che scrive tutte le parole che non è riuscito a dire a chi era in vita

Forse hai ragione ancora una volta.
È come dici tu: siamo al riparo
dagli inverni in questa casa
dove vola appena la polvere dei libri
e ogni cosa è in ordine
come hai sempre desiderato.
Allora perché, ti chiedo, perché
per tutta la notte e perfino nel sogno
sembrava che nella camera fosse entrata
la tormenta di neve che raccontava mia madre
rabbrividendo ancora per quelle bianche strade
assiderate, gli amici introvabili, gli stenti?
Perché un vento di tormenta mi gelava
tra le coperte poco prima dell’alba?

Stefano Simoncelli

da Giocavo all’ala, Pequod, 2004

*

Ho scoperto la poesia di Stefano Simoncelli ormai più di un decennio fa, leggendone qualche componimento su «Nuovi Argomenti». Da allora non ho mai smesso di seguirlo in tutti i suoi libri. Ma l’esperienza poetica di Simoncelli parte da lontano, dagli anni Settanta, lui, appena un ragazzo, con un paio di amici, Ferruccio Benzoni e Walter Valeri, mette su una rivista di poesia, «Sul Porto». In quelle pagine i tre ragazzi di Cesenatico avevano chiamato a convegno tra i maggiori poeti contemporanei della generazione precedente: Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini e soprattutto Vittorio Sereni. Ma a loro non avevano chiesto un semplice intervento ma un patto di fedeltà e d’amicizia. Perché è così che volevano vivere la poesia, come qualcosa che, pure essendo profondamente intimo, si affermava come valore civile, nel senso che la poesia era la chiave non solo per scoprirsi come esseri umani ma quella cosa in grado di costruire una civiltà. Se dovessi giudicare il lavoro di Simoncelli direi che per tutta la vita ha riscritto sempre la stessa poesia; e non si pensi a un difetto, perché in quelle varianti ha trovato anche le sfumature della propria sensibilità. Simoncelli è poeta che ha raccontato la concretezza dei morti che abitano la propria vita: la madre, il padre, sua moglie. Lo ha fatto però come vivendo l’esperienza di un’avventura – un’avventura amorosa. Si prenda questo sonetto libero e imperfetto di una raccolta, Giocavo all’ala, che è forse una delle sue prove migliori. Qui sono concentrati tutti i soggetti della poesia di Simoncelli. Concentrati dentro le pareti di una casa che sembra proteggere dalla tormenta. Ma è il «forse» posto a principio che mette in dubbio il meccanismo di protezione, quell’ordine che è solo apparente. Quella casa è sì lo spazio in cui si vogliono proteggere i soggetti che si rivivono nella memoria provando così a dare un ordine anche al proprio dolore, eppure è il cambio di tono, da dubitativo a interrogativo, a spiegare tutto. Ed è una spiegazione che mette a nudo una fragilità; e, prima ancora di metterla a nudo, evidenzia l’impossibilità stessa di un ordine, perché la tormenta non è fuori da quelle mura, ma la si vive dentro di sé. Ecco, ciò che mi ha sempre commosso nella poesia di Simoncelli, è esattamente questo senso di solitudine senza scampo, questa atmosfera desolata (che molto spesso ha come sfondo i sobborghi della provincia romagnola che da sempre abita) alla quale è impossibile sottrarsi. Una desolazione e una solitudine in cui però Simoncelli presta ai morti la propria voce facendoli tornare in vita, o lasciandoli lì, in quell’altrove in cui sono ma incapaci di abbandonarlo del tutto, incapaci del gesto ultimo di un addio. È come se Simoncelli vivesse, nella sua poesia, due vite, come camminasse continuamente su una soglia, in uno spazio d’ombra o di luce soffusa in cui le ferite non possono essere eluse ma si è costretti ad attraversarle, ad abitarle, a farne il contenuto stesso della vita: «Quest’ombra che m’attraversava la faccia» diceva in un’altra lirica di Giocavo all’ala «quasi un’inguaribile ferita d’amore/ quante volte in segreto hai tentato/ di medicarla, anima mia,/ con il sospetto dell’irreparabile».

Andrea Caterini

*

La poesia di Simoncelli avviene tutta in un luogo concreto che però è anzitutto una condizione psicologica, emotiva, caratteriale. Questo luogo è la “provincia”. Parlare di “provincia” può significare tutto e niente, ed è un concetto socio-geografico ineffettuale, impossibile da mettere a fuoco. Eppure sopravvive, al luogo concreto, una condizione esistenziale pienamente, interamente “provinciale”, che non significa affatto stare distanti dal “centro” – quale “centro”, onestamente, a questo punto della storia? – ma in un paesaggio (interiore) dimesso, laterale, in una vicinanza ai fantasmi, alle nostalgie, alle cose perdute, alle ambientazioni desolate, ai rammarichi, alle serate tristi, silenziose, piene di persone sparite che di colpo vengono a bussare alla testa. Quando lessi per la prima volta le poesie di Simoncellli – che ebbi modo di conoscere personalmente qualche anno fa durante una presentazione a Frascati, ai Castelli Romani – io pensai immediatamente a un film: La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. La sua poesia mi parve ambientata negli stessi paesaggi di quel film meraviglioso, che celebrava le atmosfere umbratili e livide di certi lungomare autunnali, e certe storie che girano male, perché fino alla fine ci si convince che non è ancora finita, che le cose si possono ancora fare impunemente. L’altra luogo in cui avviene la poesia di Simoncelli è, a mio parere, nella condizione del “fallimento” – e ovviamente non do nessuna connotazione borghese o piccolo-borghese a questa parola. Il “fallimento” è, anche in questo caso, una condizione psicologica, un modo di vedere la vita, uno sguardo che sempre si posa sulle cose che si sono perse, che non sono avvenute, che hanno preso una piega storta, che sono finite male, inceppate. Simoncelli è un poeta che scrive tutte le parole che non è riuscito a dire a chi era in vita, e poi è andato via, magari di colpo. E dunque è una poesia di rimorsi, di rimpianti, di nostalgie, di sensi di colpa – di nodi in gola, di struggimenti improvvisi. Non so perché, ma immagino sempre questo poeta – quando penso a lui – in una casa che affaccia su un mare autunnale piena di libri e di vecchie lettere, e che scrive di notte, magari davanti a un bicchiere di vino, sigaretta in bocca, e di colpo pensa a chi non c’è più, e sente come insostenibile quest’assenza – le tempie che pulsano. Simoncelli prova sentimenti forti, dirompenti, ed ecco perché la sua poesia non può che essere onesta – perché onesti sono, anzitutto, i suoi sentimenti. La poesia di Simoncelli deve molto al magistero di poeti quali Vittorio Sereni e Luciano Erba. Ma credo che il dire piano, diretto, narrativo, confessionale gli derivi più da quest’ultimo, benché una certa “musica” più raffinata e ricercata gli derivi dal primo. È una poesia narrativa, fraterna, che racconta storie tristi e ricordi struggenti. Credo che avrebbe passato delle belle serate con Carver, se lo avesse conosciuto. O forse no, forse mi sto sbagliando. Forse avrebbe preferito poeti meno “brutali”, benché anch’essi narrativi e fraterni, come Lowell e Frost. Ma a quest’altezza mi accorgo che anche io sono entrato in un gioco tutto di fantasmi e di presenze lontane, e che mi sono perso anche io in pensieri un po’ astrusi e incongrui, proprio come se stessi scrivendo in una casa isolata davanti a un mare autunnale e notturno.

Andrea Di Consoli 

*In copertina: Stefano Simoncelli in un ritratto fotografico di Sandra e Urbano Fotografi

**“Mentre tutto cade” ha raccontato una poesia di:

Beppe Salvia

Valerio Magrelli

Salvatore Toma

Antonella Anedda

Dario Bellezza

Giovanni Raboni

Giuseppe Conte

Patrizia Cavalli

Milo De Angelis

Gruppo MAGOG