
Maledetti salentini! Da Salvatore Toma a Claudia Ruggeri, un contro-canone della poesia italiana
Poesia
Annibale Gagliani
Prendendo le distanze dal suo protettore, amico e maestro, Gustav Klimt, Egon Schiele rifuggì sempre l’oro. Simbolo di un’estetica compiacente, narcotizzante, ideale. Schiele – lo scandaloso, il perverso, il fuggitivo – era destinato alla ribellione, alla rivoluzione, a vivere poco e carcerato in una solitudine mentale opprimente. Non è un caso che, come vuole la biografia di ogni maudit, ammesso all’Accademia di Belle Arti di Vienna nel 1906, Schiele la abbandonò appena tre anni dopo, in contrasto con gli atteggiamenti passatisti tipici del mondo accademico. La sua pittura, il suo genio, non avevano bisogno di maestri che non fossero la sua desolazione.
Il padre, ormai debilitato dalla malattia mentale, morto quando Egon aveva appena quindici anni, i gelidi rapporti con la madre, poi le malattie, le morti, la prigione. Così, i corpi di Schiele si fanno ossuti, scarnificati, alterati e alienati, ridotti all’irriconoscibile. Egon produce una grande – nonché inusuale – quantità di autoritratti. Tutti diversi, tutti irriconoscibili, stranianti e straniati, come persi in sguardi allucinati, pose innaturali, meccaniche, scomode. E poi, la nudità, l’erotismo, la tentazione della perversione – che gli costò la galera e un processo farsa, durante il quale, seppur assolto, fu bruciato dal giudice togato uno dei dipinti considerati ‘osceni’. Sul diario tenuto durante la sua permanenza di circa un mese presso la prigione di Neulengbach, a Vienna, l’8 maggio del 1912 scrive:
“L’indagine si è sgonfiata miseramente – ma io ho sofferto come un cane, in modo indicibile. Sono stato terribilmente punito senza condanna.
Nel corso del dibattimento uno dei fogli sequestrati, quello che era appeso in camera da letto, è stato solennemente bruciato con la fiamma di una candela dal giudice in toga! – Autodafé! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione, trionfo dell’ipocrisia!”
È sempre la sua immaginazione, la sua arte, la bellezza, a farlo star bene – e il 19 aprile continua:
“Ho dipinto il giaciglio della mia cella. Al centro del grigio sporco delle coperte sfavilla un’arancia che mi ha portato V., unica luce ad illuminare l’ambiente. La piccola macchia di colore mi ha fatto indicibilmente bene”.
Schiele resta, nei suoi brevi e furenti ventotto anni di vita, un eterno bambino, “ewiges Kind”, forse anche a causa della morte prematura del padre, che lo costringe troppo presto all’età adulta. Eppure, la pittura di Schiele, a un primo, superficiale sguardo, non lascia trasparire nulla di infantile. La rappresentazione del corpo e del paesaggio non è mai luogo di evasione giocosa, ma anzi si manifesta in tinte fosche, volti lugubri, tratti duri e figure talvolta disturbanti. Schiele, tuttavia, inscena un’irrealtà mai fine a se stessa. La rivoluzione del suo disegno sta proprio nella universalizzazione dell’esperienza soggettiva: la crudezza delle figure e l’atmosfera allucinata sono riflessi del filtro attraverso il quale Egon osserva attentamente la realtà. Così attentamente da andare al di là della superficie, da scavare sotto la pelle fino a giungere all’osso, alla macchina anatomica.
Anche il suo stesso analizzarsi allo specchio produce effetti sempre diversi, sempre straniati: Schiele porta sulla tela la soggettività – non dell’artista in quanto tale, ma dello stesso Egon, dell’uomo – del bambino – fragile, incapace di rapportarsi con la brutalità della natura umana, condannato a immaginarsi sempre come un debole scheletro coperto di radi e vani brandelli di carne putrida. L’opera di Schiele è senza seguito perché estinta con il suo artista, con la velocità con cui si consuma il fiammifero, o il foglio di carta bruciato.
“L’arte non può essere moderna. L’arte è eternità”.
Gli uomini scuoiati, le donne dalle cosce aperte, le ragazze spogliate, i volti scarnificati, alienati, primitivi, le pose meccaniche e spigolose: tutto questo muore con Schiele, il 31 ottobre del 1918 – muore di spagnola, tre giorni dopo la moglie Edith, morta della stessa influenza, al sesto mese di gravidanza. Martha Fein lo fotografa, il 1° novembre, sul letto di morte, proprio in una delle sue pose plastiche, ormai consegnato all’eternità che ossessivamente ricercava.
*
Nella sua condizione di emarginato – perché irraggiungibile – Schiele non poteva esimersi dall’arte dei rinnegati: la poesia. E la carta era, del resto, il flebile campo di battaglia su cui si consumavano passioni roventi e disperazioni assillanti dell’eterno giovane, Egon. Pubblica sulla rivista “Aktion” la raccolta di liriche Note di un pittore. La poesia di Schiele non si discosta dalla sua pittura, né dal suo modo di analizzare il mondo attraverso essa, ma certamente permette di indagare ancora più in profondità l’animo tormentato di uno dei più grandi artisti del secolo breve.
La poesia di Schiele, come la sua produzione pittorica, è costellata di autoritratti, che ne rimarcano l’anelito libertario e ribelle, perennemente tormentato, nonché la percezione distorta di sé, come di un estraneo inviso al mondo.
Io esisto per me e per coloro
ai quali la mia ossessiva ebbrezza di libertà
offre tutto,
e per tutti esisto, perché – anch’io amo – amo tutti.
Sono, tra i nobili, il più nobile,
tra i debitori, colui che più restituisce,
Sono un essere umano, amo la morte e amo la vita.(Selbstbildnis, Autoritratto)
Un eterno sognare
ricco dei più soavi eccessi della vita –
irrequieto, – con atroci dolori in sé, nell’anima.
Arde, brucia, si diffonde dopo la battaglia, –
spasimo cardiaco.
Pesare – follemente animato da eccitata lussuria.
Impotente è il tarlo del pensiero,
inutile crucciarsi.
La lingua del Creatore parli ed offra. –
Demoni! Rompete la violenza! –
vostro sermo – vostro segno – vostro potere.(Selbstbildnis, Autoritratto)
*
Il tema dell’eternità torna ossessivamente in Schiele, oscillando terribilmente tra vitalismo e tensione all’aldilà, come se l’Egon visionario sulla tela diventasse a tutti gli effetti profeta, vaticinando la sua morte giunta troppo in fretta, quando, in fondo, era ancora bambino. Sono eterni sognare, eterne primavere, eterni bambini.
Io eterno bambino,
ho sempre seguito il passo degli ardenti
e non volevo essere al loro posto, dicevo; –
parlavo e non parlavo, ascoltavo
e volevo ascoltarli sempre più intensamente
e osservarli nell’intimo.
Io eterno bambino,
ho sacrificato ad altri, a chi aveva pietà di me,
a chi era distante o non ha visto che vedevo.
[…]
Io eterno bambino,
ho maledetto da subito il denaro
e ho riso mentre lo accettavo con disprezzo:
l’usanza tradizionale, il dovere di massa,
il baratto del corpo, lo scopo-denaro.
L’argento era come il nichel, il nichel come oro e
argento e nichel, e tutto come numeri impermanenti
e per me senza valore e per nulla interessanti,
eppure riderò con disprezzo dello scopo-denaro.
– Perché? mi chiedevo. Perché?
Qualcuno dice: denaro è pane. –
Qualcuno dice: denaro è roba. –
Qualcuno dice: denaro è vita. –
Ma chi dice: sei denaro?
– Prodotto? – Merce? –
Oh –, – vivi e vivaci – Dove sono i vivi?
(Ich ewiges Kind)
*
Ho visto i viali dell’eterna primavera
e prima l’infuriare della bufera
e ho dovuto dire addio
dire un addio perenne a tutti i luoghi della vita.
Nei primi giorni ho avuto intorno le pianure,
ascoltavo allora, e annusavo i mirabilis,
i giardini silenziosi, gli uccelli.
Gli uccelli? –
nei cui occhi mi riflettevo roseo con occhi splendenti?
Gli uccelli sono morti. –
Ho pianto spesso in autunno, con gli occhi socchiusi.
E nell’estate magnifica, poi, ho sorriso e riso,
dipingendomi d’estate il bianco dell’inverno.
E in primavera sognavo la musica universale della vita.
Fino ad allora fui felice,
poi iniziarono i doveri e le scuole senza vita.
Giunsi in città infinite, morte, e mi rattristai.
Ho conosciuto, in quel tempo, la morte del padre.
I miei rozzi maestri furono spesso i miei peggiori nemici.
Ora devo risvegliare la mia vita.
Posso finalmente rivedere il sole generoso ed essere libero.
(Ich habe die ewigen Frühlingsalleen)
*
A ritornare spesso nelle liriche di Schiele è l’uso spasmodico delle forme, delle tinte, dei colori e delle loro combinazioni più ardite e irreali per definire la ‘sua’ realtà, come se, a dar forma ai suoi versi, fossero vere e proprie pennellate, tratti incisivi di matita scura.
Il campo d’erba arancio-grigio-verde
nasconde
il ceppo di raso tondo e nero brillante
con la testa grossa cremisi,
la testa, su cui brillano vetri luccicanti.
Penzola il bianco crocefisso.
A grandi passi accanto a lui
incede
il lungo, pallido, occhialuto grigioburbero
e parla scocciato sulla terra sciolta.
(Zwei Kleriker, Due chierici)
*
Infine, l’Eros. Ridotto alla disperazione, all’ossessione, impregnato di morte, angoscia, infertilità. Non sinuoso, ma spigoloso; non attraente, ma rivoltante. Carne contro carne. Ma rivela, così come nella poesia, uno scavo psicologico profondo.
Una polluzione d’amore, – sì.
Tutto ho amato.
Venne la ragazza, trovai il suo viso,
il suo inconscio, le sue mani da lavoratrice;
tutto di lei ho amato.
Ho dovuto disegnarla,
perché mi guardava in quel modo ed era così vicina. –
Adesso è lontana. Adesso incontro il suo corpo.(Das Porträt des stillbleichen Mädchens, Il ritratto della pallida ragazza silenziosa)
E qui riecheggiano le parole di Schiele, a riassumerne in un motto l’intera poetica:
“Anche l’opera d’arte erotica possiede santità”.
*
Ove ebbe inizio una gran cosa
l’unico mondo gli somigliò:
Dio era spoglio di tutto.
Corsi là, lo sentii, lo fiutai.
Così sei Tu –, orecchio, vento, labbra,
così è, per te, questa: forma.
Oh… Sibila, Circe ruggente, allarga le cosce.
La tempesta geme e grida.
Grida, tu, grida! Senza tutto, senza battaglia, carezza l’aria.
Innalza un monte, accresci presto rovi maligni.(Anarchist, Anarchico)
Giulio Solzi Gaboardi
*Si riportano per i primi due brani dal diario del carcere le traduzioni di Claudio Groff in “Egon Schiele: Ritratto d’artista”, per Edizioni SE, che raccoglie i principali scritti di Schiele. Le poesie di Schiele sono raccolte anche nel volumetto “Io eterno fanciullo” di Edizioni Studio Tesi nella traduzione di Silvia Alfonsi, pubblicata all’inizio degli anni ’90, e ormai quasi introvabile. Per le poesie riportate in questo articolo ho scelto di produrre una nuova traduzione direttamente dal tedesco, con l’intento di valorizzare gli intenti poetici di Schiele senza tradirne gli aspetti linguistici.