Francis Jammes ha fatto tutto precipitosamente: ascesi e collasso, contorsione e conversione, comunità e solitudine, amore e disamore. L’oceanica barba, melvilliano indizio di avventure mentali e spirituali tra gli abissi dove Iddio non è diverso dal kraken, diventò leggenda: non era – tuttavia – il tabernacolo del guru, quel fitto bosco nel volto, ma una trappola; celava un uomo capace di formidabili depressioni. Il cristiano per sempre in fasce, trafitto dalle fiocine.
L’estro provvidenziale, a moto perpetuo, la fecondità poligrafa – ha scritto moltissimo, con lo stile immoto, martellante, monotono del profeta – fecero di Jammes il poeta ‘facile’, per tutti, il salmodiante amico dell’alba, l’uomo che ha ricondotto in alessandrini il canto dell’uccello di palude, il cigolio del pozzo. Fu, di volta in volta, il poeta contadino e il poeta cristiano, dunque il poeta fuori dal tempo in un’epoca – il modernismo, l’evo avanguardista – in cui dominava l’alchimia d’intelletto in vece del candore, le sofisticherie e gli alambicchi linguistici, il genio della complessità. Come epitaffio – morì il primo novembre del 1938 – preferì, Francis Jammes, poète: non sopportava l’enfasi, i vacui aggettivi, i vieti lirismi. Poète, di per sé, è marchio che incute timore, cuce il labbro con evangelico chiodo.
Ritiratosi a Orthes, nei Pirenei, il piccolo borgo di cui diventò patriarca, scrisse ad Arthur Fontaine, nel 1921:
“Tutta l’opera di Dio, in me, è staccarmi poco a poco da ogni ambizione, allontanarmi dalla vita moderna, dall’ambiente parigino, troppo spesso così artificiale…”.
L’anno dopo, mentre il mondo letterario era sconvolto da momenti memorandi – la pubblicazione dell’Ulisse di Joyce e della Terra desolata di Eliot; la morte di Marcel Proust – Jammes usciva con un saggio, Le Poète et l’Inspiration (di cui si pubblica, in calce, la prima parte) d’intonazione francescana, a setacciare il latte dei cieli. Francis Jammes, a contrasto con la letteratura del suo tempo, cervellotica, ideata in vitro, frutto di studi e di sfrontata intelligenza, propone l’idea del poeta come mistico (non del mistico come poeta tout court), riferendosi in parte agli scritti di Anna Katharina Emmerick. Il poeta mistico, secondo Jammes, non presiede ai riti e alle iniziazioni, non conduce la danza: è il disabile assoluto, l’uomo ai margini, che ausculta il belato del mondo, che fluttua tra le sue inverate visioni, che riconosce nel fango giaculatoria d’angelo. Laterale e latitante, il poeta carpisce e non capisce: tra gli eterni insoddisfatti e l’imperterrito stupefatto; è l’inerme che si fa enorme. Al mondo industriale, reagisce imprimendosi in dagherrotipo con vacca; al tempo dello spettacolo sostituisce il patrimonio dei coltivi, l’aratura in cui si addormenta il bravo cristo, e sogna l’annuncio, la bella sposa.
Precipitosamente, amò, Jammes. Geneviève Goedorp, sposata nel 1907, era una sua ammiratrice: aveva 24 anni, diede al poeta sette figli. Si immaginava come un re biblico, capace di mungere le stelle, di fare a botte con le dominazioni.
Fu malcapito, Francis Jammes, aureolato di scherni, secondo lo schema del frainteso e del martirio verbale. Figlio di un medico francese nato in Guadalupa e di una creola, alle scuole Jammes oppose i libri di Jules Verne e Don Chisciotte. Poeta per vocazione, fu scoperto da André Gide e da Henri de Régnier; più di tutti, però, fu quello con Paul Claudel l’incontro decisivo. L’amicizia con il poeta lo portò a una lenta, letale conversione: il 7 luglio del 1905 Claudel accompagna il poeta a comunicarsi, in una chiesa di La Bastide-Clairence; insieme faranno un pellegrinaggio a Lourdes.
Esito di questa scelta è uno dei libri più noti di Jammes, di aurorale bellezza, La chiesa vestita di foglie, stampato da Mercure de France nel 1906:
“Per la pace interiore che l’uomo continua a cercare;
per i giorni fuggiti su vecchi balconi
dove muore il cuore bianco dei gerani neri;
per la dolcezza vaga delle cose di paese;
per i piccioni color dell’ardesia e dell’arcobaleno;
per il cane che ci invita a capo chino
ad accarezzarlo con la mano: per tutto questo
tu sia benedetta, piccola cappella, all’ombra del tuo bosco”.
Si ricalca qui la traduzione di Roberto Gabellini approntata per Raffaelli (2017); tranne rari casi, in libri pressoché introvabili (Il crocefisso del poeta, a cura di Matteo Veronesi, Medusa, 2012; le Poesie edite da Bulzoni nel 1981, a cura di Guido Gori) l’opera di Francis Jammes giace negletta e sconosciuta in Italia. Eppure, diversi decenni fa, Diego Valeri ha riconosciuto nel carisma di Jammes “poeta di ‘cose’, felice scopritore di ‘particolari’, qualche somiglianza con il Pascoli”. In particolare,
“Egli ha segnato per sempre della sua impronta certi temi (interni provinciali, libri della fanciullezza, chiese rustiche, avventurose storie di zii e di prozii morti nelle isole del Tropico, asini e uccelli, fiori e frutti della campagna bascobearnese) e ne ha tratto una nuova poesia. L’opera sua ha esercitato un notevole influsso sui crepuscolari italiani, specie su Guido Gozzano”.
Il lignaggio di Jammes, tra i rari poeti indenni agli -ismi, dunque, oggi, splendidi di una qualche non ricercata innocenza, ha prodotto una sequela di scrittori importanti, da François Mauriac a Jules Supervielle, fino a Jean Grosjean e a Christian Bobin. Egli è il prototipo del poeta escluso, esclusivamente dedito alla poesia. Capace di memorabili depressioni – così all’amica Anna de Noailles: “Perdonatemi… dite ai vostri che laggiù, nella campagna selvaggia chiamata Orthez, vive un poeta che soffre la vita” – piacque a Rainer Maria Rilke quel poeta che sapeva rinunciare a tutto essendo in contatto con il tutto: ne fece il protagonista in filigrana del “Malte”.
Non era un poeta assertivo, bensì bilanciato dalla contraddizione. Conosceva la caduta e visse, fino all’ultimo, l’indigenza, l’altrui viltà. Possedeva, Jammes, il coraggio di essere felice. Gli altri pubblicavano libri, lui armava di lodi il creato.
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Francis Jammes. Il poeta e l’ispirazione
Il poeta: pellegrino che Dio invia sulla terra perché scopra le vestigia del Paradiso perduto e quelle del Cielo ritrovato.
Il poeta: poveruomo seduto a mezzogiorno sui gradini di un vecchio giardino dove furono così belli il primo uomo e la prima donna. Tiene in mano la sua ciotola, ha un cane ai piedi e domanda ai distratti passanti – come a Dio stesso – l’elemosina della bellezza che fu, che è, che sarà.
Ma i passati non lo degnano di uno sguardo: in quello sguardo non vedono il dolore. La sola creatura che nel silenzio è capace di pietà è quel cane, immobile… ma Dio lascia che cada il cielo intero nella ciotola del povero poeta.
O, Fra’ Angelico! Cogli questo azzurro e imprimilo sul muro come ti è dato di vederlo, in quest’ora ispirata che congiunge all’estasi.
E voi, fratelli, ricevete il favore di questo cielo che è di ciascuno, fatene una tenda cucita con le vostre mani, avvolgetevi in essa come le vergini e come i colli.
Puro bagliore divino che ti nascondi agli occhi profani. Così, la campanula d’agosto, tanto bianca a forza di essere blu, sembra svanire.
E il poeta nasce, passa, muore come il fiore del campo che a mala pena si nota.
Il poeta è colui che osserva, attraverso l’alto cancello del parco, le coppie che si fondono nel blu della notte, e intende il grandioso cerimoniale dei mandolini. Non è lui l’invitato alla festa; ma quando la bianca gloria delle tenebre varca il cancello, si china verso di lui, il solo capace di scoprire tutto il miele e tutta la calda neve. E mentre le voci amorose delle belle coprono il canto dell’usignolo, quest’altro canto è percepibile soltanto al poeta il cui cuore è colmo di divina armonia, fonte d’acqua pura che risponde al canto dell’uccello. Ascolto Giovanni della Croce e la sua lode:
Placida notte
silente musica
armoniosa solitudine
pasto che incanta e accresce l’amore
nidi di rose a forma di pigna…
…il respiro di zefiro
il canto della dolce Filomela,
il bosco e i suoi sortilegi nella notte serena
con la fiamma che consuma ma non causa dolore.
Il poeta è colui che non ha nulla e tutto riceve, che rinuncia alla rozza coppa per bere direttamente al fresco riflesso del cielo, è lo studente che, molti secoli fa, cantava Tchu-Kouang-hi in un poema ineffabile:
“Quando il sole cala e cessa di illuminare la finestra a nord-ovest
Mentre il vento d’autunno spoglia soffiando il bambù
Lo studente si reca presso la finestra meridionale
I suoi occhi lasciano per un attimo il libro, sempre è in veglia.
Pensa all’antichità, fissando il muschio e le vaste distese erbose;
Guarda, ascolta, gioisce profondamente della sua calma e della sua solitudine;
Domandati come possa procurarsi da vivere:
Taglia il grano grezzo dalle terre abbandonate”.
Il poeta è colui che durante il lavoro burocratico e spossante del ragioniere, nella stanchezza e nella monotonia della cenere burocratica, sotto il pungolo di un padrone incattivito, scopre il luminoso profilo di un bimbo di cinque anni, e sul desco dei servi un tozzo di pane per l’infante.
Il poeta è colui che fa sgorgare l’acqua dalla roccia, dopo averla colpita con il suo bastone, nel villaggio desolato, aggredito dalla fitta prateria. Le fabbriche sorgono con i loro tulipani di fuoco, così le case degli operai con allegri giardini e chiasso di bimbi – il poeta scopre ovunque una vena di cristallo, la frugale felicità.
Ma soltanto lui, lui solo è il povero, l’uomo magnificamente nudo come la nuda acqua su cui si specchiano i cieli.
Il poeta è colui che, le orecchie ormeggiate nel silenzio o abbrutite dall’insulto, sente salire dal cuore, come da un tempio, il canto dei serafini e la voce della saggezza.
Il poeta è colui che, non avendo mai stretto tra le braccia una sposa vittoriosa e bella, afferra l’argilla di cui siamo fatti e scolpisce la bellezza.
Il poeta è quel giovane che ho visto, un giorno, ad Anversa, venticinque anni fa, avviluppato nell’oscurità, in una mansarda, e da quella tenebra il padre mi disse: i borghesi della città hanno dimenticato che esiste. Ha approfittato di quella notte tanto profonda per scoprire, all’estremità dell’abisso, una stella senza nome.
Il poeta si china verso il bambino che si agita nel letto e fissa, con compassionevole riguardo, l’angosciata madre. E fa scorrere sul malato la fresca virtù delle acque che ha scoperto, gli offre la salvifica corteccia raccolta nella foresta tropicale dove Dio sorride tra liane fiammeggianti. E la temperatura cala dolcemente al crepuscolo.
Il poeta corre verso il mare. Sale sullo scafo che fluttua sull’onda. La nebbia invade il porto dove lo attendono moglie e figli: ma lui non tornerà più. Doveva partire, lacerato da sentimenti contrari e sublimi: la tenerezza dell’oscuro focolare e l’aspra ricerca di quel nutrimento perenne che le reti filano sulla liquida piana, senza grano.
Il poeta è quello che va nella foresta. A volte, come nella canzone del vecchio marinaio, incontra l’eremita e l’allegra marcia delle nozze, ed è felice dei flauti, degli uccelli, del purpureo salto degli scoiattoli, del tappeto di fiori e del muschio, degli inesauribili particolari della scienza dei nidi. A volte il bosco è soltanto nuda croce.
Il poeta prende in mano un chicco di grano come fosse ghiaia. E intuisce, lì, la forma ridotta del pane che il figlio dell’operaio porta sotto il braccio, e la messe con i fiordalisi, i papaveri, l’urlo degli insetti, la chiesa, il prete che sale all’altare, il misterioso viaggiatore che, nella sera di Emmaus, mescola la luce della sua fronte con la luce dell’Ostia.
Il poeta è l’uomo a cui Dio restituisce lo splendore.
Francis Jammes