
“Con le stelle che aspettano”. Discorso sulla poesia di Franco Costabile
Poesia
Luigi Tassoni
Mi dicono di aver avvistato la lince nella Sila, “un grosso gatto di quindici chili”. Leggendaria è la reticenza della lince; la chiamavano cervière, perché assaliva il cervo. Un colpo netto: la gola esplode come una stella, la bestia sbanda, il sangue è perfettibile, cade. Né tigre né lupo, la lince vive ai margini della predazione, schiva perfino la fiaba: il suo pudore la rende la più splendida bestia; il fatto che sia sempre a rischio di estinzione ne esalta la natura divina. La lince dalla vista implacabile non si fa vedere: per questo, non la temi, ne attendi l’apparizione. Forse è il seme di un angelo.
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Spopolano, invece, gli scorpioni. Neri, immobilizzati dalla luce, estiva figura del fuoco. Nel ritratto attribuito a Raffaello, Elisabetta Gonzaga ostenta uno scorpione sulla fronte: è un monile, simbolo di ambigua sapienza. La duchessa di Urbino ha lo sguardo fermo, ferreo, bizantino, immobilizzata, forse, da un veleno del cuore.
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L’edera corazza i tronchi balestrieri, l’azzurro si fa spazio tra i rami, la sua nobiltà è nella caccia. Un tempo, gli alberi avevano un nome, una divina nomea, sapevano camminare; gli uomini non avevano bisogno di spiegarsi, di scriversi – indossavano la maschera del corvo e del lupo, imitavano il fischio del gufo reale per attirare a sé il rispetto.
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La lince, latitante agli sguardi; lo scorpione, che ruota il pungiglione, sembrano una icona della poesia: sfuggente, pericolosa, in estinzione.
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Di fronte al bosco, esiti l’arte, si senta espatriata; non espropri la belva verde dei suoi paramenti: restare nel segreto, perseverare nel servizio.
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Le pigne: uova del bosco. Bisogna leggerle come oracoli, piccole Pizie dalla legnosa iride – i pazzi hanno l’occhio corvino, non guardano mai te, ora, ma chi eri, chi sei stato, a quale linea di rinascita appartieni. Sottobosco di felci: le mani della terra, afferrano chi cammina.
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Alla cascata di Murano. Dicono fosse rifugio di briganti. Nelle fotografie, il brigante sembra un po’ dandy un po’ capo indiano. Anche le donne maneggiavano la carabina e il coltello. Le vesti sembrano, nella loro schiettezza, ricercate. La violenza è di una eleganza esuberante.
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Ci accompagnano tre cani che, ci dicono, sono stati abbandonati. Zampe piccole, corpo tozzo, muso triangolare: i cani aprono la via, ci proteggono. Più tardi, negli anfratti di un ruscello, scovano un capriolo, che scalpita, scappa.
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Tutto, qui, vive intorno alla memoria del poeta calabrese Franco Costabile, morto suicida nel 1965. Non aveva più radici, si è sradicato, ha scritto qualcuno. Qualcuno ancora lo piange e alcuni ragazzi si radunano attorno alla sua antica casa a leggere le sue poesie. Qualcuno cambia l’acqua ai fiori, nel cimitero, presso la sua tomba. Questo è un miracolo: altrimenti, lo spettro del poeta, senza pace, continuerà a rovistare la terra, a modellare il sonno degli abitanti secondo l’indole della propria ira, a sedurne le donne, ebbre di ciò che mai avranno.
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Pare che il brigante si sia rifugiato per qualche giorno dietro la cascata, prima di consegnarsi alle cosiddette forze dell’ordine. L’acqua è gelida, il sole è in cova sulle cime degli alberi – nascerà un drago, e io sono qui per raccogliere i gusci dell’astro, l’albume stellare.
La cascata si spacca, sembra una radice, bianca – è la radice della pietra, la radice stessa del bosco. Quando si disseccherà, la terra tornerà calva, la pietra si farà sabbia, per le bestie sarà una seminagione di denti, moribonde le vedrai con la faccia di Giovanni a Patmos, come le mostruosità di Hieronymus Bosch, angeli con il muso da leone.
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Gli alberi ti entrano in bocca, qui. Devi imparare a costruire una zattera sull’albero. Vivere in alto, appollaiati, come i monaci stiliti, come il vecchio della montagna. Il poeta, brigante del linguaggio; scuoia i vocaboli e si riveste del loro vello – bugiarda belva.
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La luna è ad aratro, questa sera: scava il cielo finché non spuntano germogli di stelle. L’agrimensore ha fissato i ruoli da millenni: qualcuno verrà a spigarle.
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Per tutta la sera, sotto l’effetto del vino, si parla del compromesso nell’arte. Il poeta ha il privilegio della povertà – cioè, della crudeltà – l’artista quello del rifiuto. Si tratta, comunque, di districarsi da un potere.
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Mi perdo in Sila, tra le strade sterrate del Lago Passante, in realtà un bacino artificiale. Faccio il bagno, accerchiato dai boschi. Il sole si è levato l’elmo. Lungo la strada, in bicicletta, un gheppio: apre la coda, sembra una corona. Nell’aria vibra il fischio della poiana: è mezzogiorno e tutto potrebbe rivelarsi il contrario di ciò che è – gli alberi mettono le unghie, gli ungulati diventano fiere feroci, il bene è il male e viceversa. Infine, lo scampanio delle vacche riporta ogni creatura alla sua quota, alla sua missione.
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Quando Mario mi parla del Mabos dice due parole: inutilità e insensatezza. Un museo d’arte nel bosco sembra una contraddizione: l’opera è alla mercé degli elementi. Alcune opere, mi spiega, sono destinate a svanire in poco tempo; altre mostrano i segni degli elementi. Chi sono i visitatori di queste opere? Le piogge, le nevi, i venti; il capriolo e la volpe. Vasilij Grossman, il grande scrittore sovietico nato in Ucraina, a Berdyčiv, ha scritto che la Madonna Sistina di Raffaello supera l’umana mansione: terminata la nostra specie, sarà il popolo degli orsi, delle api e dei corvi ad ammirarla, a onorarla.
Donare l’opera al bosco è la prova definitiva per un artista.
Non esistono altri gesti sensati, oggi, che quelli marcati dall’inutilità e dall’insensatezza.
Mario, a suo modo, sembra un Fitzcarraldo: l’eroe di Herzog voleva portare l’opera italiana e Caruso nel cuore della giungla amazzonica; lui ha portato l’arte nei boschi della Sila.
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Il Mabos custodisce le poesie ‘calabresi’ di Mario Giacomelli. Il nero di Giacomelli è nero, il bianco è un bianco vestito a lutto. I corpi ti arrivano in faccia come una scure, scurissimi – la nudità abbacina, ma non per candore: è oscena, pari all’annuncio dell’angelo, con le mamme di fuori, vizze. Le case e i campi costruiscono un alfabeto semita: sono una pagina del profeta Geremia.
Vorrei che gli uomini si ricordassero di quando erano betulle.
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Ci si raccoglie attorno alla tomba di Franco Costabile, a Sambiase. Il mausoleo della famiglia Gambardella è in disastro, secche le aiuole. Su un lato, la lapide con l’epitaffio di Ungaretti: “…la rosa s’è spenta poco a poco/ come il tuo cuore”. Elisa è una vestale della memoria: ci accompagna con delicatezza arcana – ma il candore, sempre, incute paura –, mette due rose nel bicchiere – sa commuoversi.
Forse è soltanto da morto che il poeta sprigiona la sua potenza; finché alcuni uomini si radunano intorno alla tomba del poeta, il mondo è salvo, la società è giusta, giustificata.
Di fronte alla casa di Costabile, a Sambiase, alcuni bambini giocano a palla, per strada. Uno di loro si chiama Zaccaria, come il profeta. Mi unisco a loro, li sopravanzo, mi scherzano. Vengono da case come loculi questi bambini, da case come locuste, e ridono – sia radioso il loro futuro.
In fondo, è giusto che il poeta sia ignorato, sacrilegio il suo nome: egli ci inchioda alla nostra innocenza, a ciò che non abbiamo mantenuto.
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Così mi dicono, a cena. Il magaro – il mago, il fattucchiere, lo sciamano – portava al pascolo le pecore, a sei anni. L’arcangelo Gabriele gli è apparso, gli ha perforato gli occhi, iniettandogli l’arte. Il magaro è avvolto in un cappotto, davanti alle braci che si muovono come mille lingue, dalle mille favelle: conosce la parola che lega e quella che slega, la formula che annoda e quella che fa della vita un fiume. Come il profeta biblico, è maledetto e rispettato, lo si consulta senza dire: nessuno gli crede, alcuni vogliono ucciderlo, tutti gli obbediscono.
Non vale lo stesso per il poeta? Se la sua parola non s’immerge nella ferita, se non sana, se non sostituisce il cuore con un falco, è vana, un idolo, la falsa profezia.
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Di Costabile, al di là della tragica morte, sorprende che i parenti prossimi – le figlie, i nipoti – non vogliano avere nulla da spartire con il poeta, non se ne sentano eredi. È duro entrare in una tale intimità, in una tale violenza – forse è duro vivere con un poeta. Il poeta resta orfano, ha reciso ogni sua radice perché altri, grazie ai suoi versi, ricostruiscano le proprie. Forse un poeta deve morire perché la sua opera possa sbocciare.
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Giorgio Caproni scrive su Costabile righe molto belle: “Franco Costabile nei limiti e forse oltre i limiti dell’umano, era un angelo. Non ho conosciuto nessun poeta, in questo senso, più poeta di lui… Affrontava la vita totalmente, con piena confidenza e inerme”.
Mi affascina il legame tra il poeta e la bontà, tra la grandezza di un poeta e il bene. Nicola Crocetti ha detto più volte che Ghiannis Ritsos, tra i grandi poeti del Novecento, era un uomo buono. “Ho sempre pensato che la grandezza di un poeta sia proporzionalmente commisurabile alle sue doti di generosità e umanità. Sono convinto che quasi sempre sia così”, mi ha detto, anni fa.
La bontà può essere feroce; l’angelo – per tornare all’immagine di Caproni – sa estrarre la spada, schiacciare il drago, uccidere e decapitare. Ci vuole coraggio a essere buoni in un tempo vile, in un mondo di scaltri. Direi che più che altro il poeta apre uno spazio per il bene, perché sia possibile – a volte, il bene sanguina e le poesie macchiano la camicia, lordano le scarpe.
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Strombiamo dal sentiero, scendiamo verso il fiume Melito, ne percorriamo un tratto, spesso a piedi nudi. Ortica mescolata a menta: le piante polemizzano tra loro. Il rumore del fiume: Šostakovič, Chopin, Mahler… ogni tratto ha la sua sinfonia, che disorienta. Gli alberi hanno radici poderose, ricoperte di muschio, sembrano le zampe di una tigre: sorreggono anche noi, si apprestano a correre.
Una pozza d’acqua: esplode sotto quella verzura di luce – longanime scienza del rapace, che per me ha deposto una penna. La afferro, me la metto tra i capelli. Scrivere con la penna di uno sparviere: è un atto di aggressione.
Qui, in una alcova di fango, ha dormito la lince. Voglio crederci. Al posto delle mammelle, retrattili, ha deposto l’uovo, di corallo.
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Sebastiano Dammone Sessa ha creato una specie di chiglia: la nave è finita in secca, nel bosco. Il suo destino è sfibrarsi, farsi rupe di ruggine, come un veliero sott’acqua, sotto scacco vegetale. Con dedizione, l’artista attacca rombi di carta su un lato della sua nave: mi sembra il gesto di chi pone delle bende su un corpo infermo. La colla, così, collima con l’olio, con la preparazione di un corpo al sepolcro o alla battaglia notturna; così, d’altronde, supremo lavoro di calafataggio, si prepara la nave al varo.
Il senso di quest’opera, veliero-vomere, è riportare la terra alla sua regia natura d’acqua. Prenderà il largo, un giorno – chissà se accetta mozzi o clandestini a poppa.
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All’opposto, Pietro De Scisciolo ha bisogno dello scalpello per far levitare la pietra. Ha scolpito un materasso, corredato con due cuscini: la materia più dura è necessaria per alleggerire i nodi della ragione e involarsi nel sogno. Compito del trapano è destreggiare la materia dal suo dolore, renderla perla, creatura che fluttua.
Pietro ha immaginato una stanza nel bosco: bisogna sdraiarsi sulla sua opera per cambiare prospettiva e vedere la cupola degli alberi, l’azzurro che mette il nido e scosta i rami, il sole con la sella, pronto a entrare nel recinto, i rami che catechizzano una generazione infante. Ecco il bosco celeste, quello in cui vivono e si uccidono gli angeli.
Scopo di quest’opera: volare, diventare tappeto volante.
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Il metallo lacrima: cosa si cela dietro la sua dura crosta? Il metallo va scortecciato.
Il metallo ideato da Sebastiano sogna di diventare carta, che qualcuno lo sfogli, come un libro – Argolide, in fondo, è un altro modo per dire alfabeto, mare, moria d’amore.
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Pietro scolpisce i cuscini come se vi avesse dormito a lungo; prepara il corredo nuziale del bosco. Un cuscino sotto cui nascondere i propri manoscritti, il proprio segreto – la parola che libera, quella che incatena.
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Non puoi non amare questi paesi verticali, che danno sul vuoto – questa baronia di abissi. Da qui, credo, i volti a mulo e a sparviere degli abitanti, la capacità di accettare, la reticenza. Ciò che chiameremmo resa è una resistenza, ciò che diremmo sconfitta è abilità nella scalata, sapere che il fondo del cuore è una vetta.
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Gli alberi pachiderma si muovono all’unisono e danno un senso al cielo, lo rimettono nella sua savana – sul materasso di pietra si addormenterà la lince, strega della Sila.
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Di tutto questo dire, infine, resterà un passerotto tra le mani, la più futile preda, il detto nascituro.
*In copertina, l’immagine della residenza creativa ideata quest’anno dal Mabos, in omaggio a Franco Costabile, realizzata da Giuseppe Talarico; le fotografie del servizio sono di Valentina Procopio