Le pietre brillano, in Val Grande. Lungo i sentieri, sembrano scaglie di pesci preistorici. Sull’altro fronte, i fiumi verticali, occasionati da residui ghiacciai, informali, hanno un’eleganza cardinalizia. Imperano i boschi, con statuaria da colosso.
Sopra i 1500, una cappella, adornata da una Madonna di grezza fattura, dunque, per contrasto, più sacra di quelle rosate, da cattedrale. Una Madonna frugale, come si spezza il pane, che presta ascolto. Sarebbe bello ritirarsi qui, posarsi nelle fauci della Provvidenza – ma come può chi ha da provvedere ad altri? Le solite scuse.
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I tetti delle case fabbricati con la stessa pietra: luccicano, dall’alto, come stelle da stalla, stelle gallinelle.
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In questi luoghi è onnipotente il fiume e si scava la montagna: enormi macchine, seghe-mammut, sezionano la pietra, la squadrano. Imperversa il granito. Con questa pietra, hanno costruito le chiese del posto, le più belle, le più misere. Si prega in scalata: addestra le gambe, mio caro orante. Ascesi: ascesa. Imbastisci le tue braccia come fossero corde.
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Anche la Chiesa (collegiata) di San Leonardo, a Pallanza, è fatta con le carismatiche pietre dei monti, d’intorno. Acqua e pietra dominano questi luoghi: il cielo è un orpello, lo ha divorato il lago. Sulle colonne, aramaico muschio.
La navata di sinistra della chiesa sboccia su una cella con altare: sopra è incastonato un quadro che raffigura San Carlo Borromeo. L’immagine non è bella: il santo ha il consueto profilo d’aquila. Dicono sia icona miracolosa. Nel dicembre del 1630, mentre la peste divorava le città di lago, pare che il quadro abbia eruttato lacrime. Il miracolo si è ripetuto più volte; ne seguì un’inchiesta, a testimoniare la veridicità dei fatti.
Che bello vivere a pieno petto nel miracolo. Decenni avari di miracoli, questi, nell’acquitrino del sospetto. D’altronde, il miracolo accade quando non c’è più altro, si è nel dolore senza lume.
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Le lacrime a volte sciolgono, a volte pietrificano.
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Nel 1630, a governare l’ecclesia del Nord durante la pestilenza, non era Carlo Borromeo – morto nel 1584, canonizzato nel 1610 – ma il cugino, Federico, quello citato da Manzoni nei Promessi sposi. Nel 1618, presso Giuseppe Comino in Padova, Federico Borromeo stampa un testo particolare, I tre venerabili libri della vita della venerabile madre suor Caterina Vannini sanese monaca convertita. Il libro, dedicato, spiritualmente, alla “Beatissima e dilettissima sposa di Gesù Cristo Santa Caterina da Siena”, ebbe, all’epoca, un certo successo e diverse ristampe; si inscrive nella tradizione agiografica di quegli anni, a narrare storie di miracolose conversioni, di donne lascive divenute, per intercessione di Cristo, sante. Siamo nel chiostro della Monaca di Monza; non è un caso che il Seicento, in pittura, sia l’epoca della Maddalena, dell’estasi, del corpo eletto a ispirazione – del corpo-ostia: spartito, aperto, spalancato come un libro. Tra sospiro spirituale e gemito d’amorosi sensi.
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La storia di Caterina Vannini da Siena è lampante. Nata in misera, intorno al 1560, viene educata alla prostituzione. Pratica, giovanissima, con alto successo, tanto da trasferirsi a Roma dove naviga nel lusso e nel torbido. Le sue arti sono ricercate dai potenti dell’epoca, smeraldo alla loro lingua. Il nome di Caterina fa scalpore, i prelati tentano di farle lo scalpo: nel 1574 papa Gregorio XIII la inabissa in carcere. Caterina non ha, forse, neppure quattordici anni; alcuni notabili, suoi noti clienti, trafficano per farla liberare; le è però d’obbligo ritornare a Siena, dove torna alla dissipazione. Dopo aver ascoltato, per caso, una predica che ha in cuore la figura di Maria Maddalena, Caterina, d’impeto, cambia vita: si spoglia delle ricche vesti, si flagella con le preziose collane, indossa gli abiti della domestica, si ritira in austeri romitori. Per molto tempo, i monasteri la respingono, in pochi credono alla sua conversione; lei, d’altronde, non si riteneva degna di vivere tra le vergini. Nel 1581 ricevette l’abito di terziaria domenicana; morì nel 1606, l’ultimo giorno di luglio, nel monastero delle Convertite, a Siena, inghirlandata da clamorosa fama. Vive l’epoca aure della “mistica femminile”, Caterina – un suo ritratto con testi è in Scrittrici mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Marietti, 1988 – ma sfugge a ogni pia didascalia. Pare fosse bellissima, pare che Caravaggio l’abbia usata come modello per la sua Maddalena in estasi. Ritratti di Caterina giravano selvaggiamente tra le pievi: la bellezza deturpata dalle percosse del sesso e restaurata; Eva che rientra in Maria.
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Al cardinal Borromeo faceva gioco la storia della perduta convertita: promuoveva un modello estremo per la santità femminile. Nel profondo, de profundis del credo: Dio ha bisogno di una donna come mediatrice; necessita di un ventre per rinascere di continuo.
“Mentre che Caterina andava insieme con gli anni crescendo in malizia, e ogni dì più l’onore, e il suo buon nome perdendo, e ne’ più cupi pelaghi de’ concupiscibili appetiti ingolfandosi, Iddio misericordiosissimo Padre, il quale innanzi a tutti i secoli con l’occhio della sua pietà riguardata l’aveva, cominciò con particolar modo a destarle nell’animo alcuni buoni pensieri”.
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La storia narrata dal Cardinale ha effervescenze romanzesche, prefigura i racconti dei grandi convertiti, Padre Sergij di Tolstoj, per dire. Ovunque, sconvolge la nudità. Così, ad esempio, nel racconto dell’incarcerazione:
“Caterina con animo riposato, spogliatasi prima ad uno per uno di tutti i suoi ornamenti, in un abito semplice ed abietto, con molta quiete si lasciò condurre in carcere”.
Ad uno per uno: la spoliazione sacra analoga a quella profana. Caterina si spoglia di tutto davanti a Dio; di tutto si fa spoglia al cospetto dei suoi clienti.
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Anche il cardinale anelava a lei, voleva un suo ritratto. Caterina glielo nega:
“In quanto a voler voi el mio ritratto, la vostra voluntà è tutta santa e buona, ma sarebbe bene una inquità e bruttezza la mia”.
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Il Borromeo fa visita due volte a Caterina Vannini, nel 1605; le lettere di lei a lui, custodite in Ambrosiana, hanno i sacri stemmi dell’innamorata e della visionaria. Caterina tratta il cardinale secondo i cardini dell’assoluto/dissoluto amore:
“Le vostre lettere l’ò tutte bruciate… Ed io, dove mi troverò, sempre pregarò per voi… E datemi del voi sempre, perché a dar del tu è troppo amorevole, e io non lo merito, perché quello vien da troppo amore, io merto tutti e’ mali”.
Usa – inconsapevolmente? – la prassi del concedersi e del ritrarsi: si dice “Caterina vostra picinina, sì come dite in quel leterino”; lo vuole (“Vita mia, è mio è mio è mio. Felicità o Dio! Perché non sete qua?”) ma non accetta i suoi doni. Un giorno si dice “sdegnosissima” perché il cardinale non le presta sufficiente attenzione e non desidera andare a trovarla (“In quanto al venire voi in qua, non se ne parla mai”); salvo rimarcare la sua infinita fedeltà al maestro, “io v’amo grandissimamente e di tutto core, e perché questo amore così grande ce l’ha messo Gesù”.
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In un passo di clamorosa potenza, Caterina vede, in visione, il suo amato cardinale, accerchiato da “due omaccioni grandi e grossi e malfatti”, che gli porgevano i “loro frutti”,
“E voi subito vi voltaste inverso di loro e diceste: ‘Non voglio vostri frutti né vostre vivande che sono grossolane, voglio di quelli di Caterina, sono delicati e ben fatti’. E in quello istante comparse una fanciulla in abito di ninfa; era svelta e succinta, vestita tuta di colore rosso, in testa aveva e’ capelli rossi e tutti arricciati come si dimostrano gli angeli. E con grandissima diligenza e con prestezza vi messe innanzi i nappi di frutti e di vivande che aveva in mano”.
Caterina in succinte vesti, ninfa che indossa la tuta rossa. Pare di pre-vedere la ‘ninfetta’ di Vladimir Nabokov, in rovesciati sensi. Caterina Vannini, la Lolita del cardinal Borromeo.
L’epistolario della convertita non è inferiore a quelli, notissimi, delle dame francesi, Julie de Lespinasse o Mademoiselle Aïssé, ad esempio, o alle fittizie Lettere di una monaca portoghese: con la differenza che in questo caso ogni parola è autenticata da una scelta radicale. La clausura incanta l’impeto erotico in fervore ascetico; la civetteria è sostituita dalla severità di chi castra e turba. La malizia di Caterina, semmai, è milizia: bacia i piedi del grande uomo perché costui le sia servo.
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Sull’altra sponda del lago, Luino. La città di Vittorio Sereni. Credo sia il venerabile caso: nello zaino ho una copia de Gli immediati dintorni (il Saggiatore, 1962). Del patchwork il pezzo più interessante è l’Omaggio a Rimbaud:
“Una piazza insolitamente buia nella mite sera d’inverno… Si ha sempre l’impressione, come rasentando i pubblici macelli, che qualcosa stia perpetrandosi qui, a due passi dal diporto: qui potrebbe esplodere l’urlo, qui il fatto atroce, la cosa mostruosa, qui dilagare lo scandalo nel cuore della quiete. Piazza Rimbaud – l’ho chiamata una volta passandoci”.
Chissà cos’è “il fatto atroce”, “la cosa mostruosa” a cui anela il poeta laureato, l’insigne impiegato.
Il giorno dopo, Marcovinicio, pittore di silenzi e di urla, mi porta, imbarcato sulla sua mefistofelica Renault 4, in una valle remota, a ridosso di Domodossola. Il terreno è sterrato, nel fiume, rude, crescono boschi a frammenti. Non c’è nessuno, la valle, strettissima, sfocia in pieno bosco. Qui hanno avvistato i lupi, mi dice, pittore-licaone. Nel quadro che mi regala, più tardi, un cervo, visto di spalle, è coronato di rose, una pioggia di rose. Sembra un’immagine ieratica, del Duecento – un’immagine salvifica. Abbi cura della mia carne, irradiala di spine, fa marcire questo cielo come un fiore…
Hanno visto anche la lince, mi dice Marcovinicio. Sussurra la parola lince, che evoca sogni.
Ho chiamato quella lince – invisibile come ogni lince – Rimbaud. La mia lince Rimbaud.
*In copertina: Caravaggio, Maria Maddalena in estasi, 1606 ca.