
“Gauguin fu un mostro”. L’arte come fuga
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Sul perdono. Un irragionevole amore per l’uomo
Filosofia
Massimo Triolo
La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.
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Le formalità inquinano. Il “tale” che compare nel Vangelo di Marco – tanto ricco che è espropriato del nome, povero di identità – “corse incontro” a Gesù, si “inginocchia” davanti a lui e fa la domanda corretta, in apparenza: “Maestro buono, cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17). Gli aggettivi non servono davanti a Gesù. “Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non uno, Dio” (Mc 10, 18). Si rimarca l’enigma: l’uomo è alieno dalla bontà, cresce in cattività, cattivo.
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Cos’è il bene, poi? Domarsi tramite i comandamenti. Pensare alla vita terrena prima di quella eterna, presunzione di vanità. Gesù sgrana le leggi davanti al “tale” – non uccidere, non rubare, non dire menzogne, onorare genitori e famiglia, non farsi adultero. Non fa a tempo a dire ‘rispettali!’, che il “tale” dice “ho osservato dalla mia giovinezza, questo” (Mc 10, 20). Eppure, il punto è più in là della cieca obbedienza – è adornarsi di una fede tale da annientare ogni obbedienza. Trascendere le leggi – fatte per i tonti, per i duri di testa – con il precipizio.
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Il testo evangelico ha per chiodo la parola agape. Quando Gesù dice ‘buono’ intende, nel testo greco, agape, l’amore disinteressato – cioè, laterale al rapporto economico con gli altri: ogni rapporto d’amore è un rapporto economico, mi offro a te a patto che tu dia a me. L’uomo non sa amare in modo disinteressato, ama per interesse, con gli interessi. Per quell’amore che non ha misura – il denaro, invece, è un misero metro di misura – bisogna prepararsi, predisporsi alla perdita.
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Perché la politica s’interessa del nostro ‘guadagno’, come se non fossimo altro, come se non fossimo altro che l’esatto parametro di una misurazione? Perché nessuno s’interessa della nostra vita, della nostra pretesa?
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Giocando ancora sulla parola agape, è detto “allora Gesù fissandolo lo amò” (Mc 10, 21). Lo sguardo di Gesù fissa, perfora, ama tutto il destino di chi ha di fronte, perfino l’errore in cui è destinato a cadere, pure le concessioni, le malizie. Lo sguardo è una parola, “viva, energica, più tagliente di ogni spada a doppio taglio”, scrive Paolo (Eb 4, 12).
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Qual è “il punto di divisione di anima e spirito” (Eb 4, 12)? Dio si conficca nella frattura, nel punto di non ritorno: che forma ha la nostra anima? Uno spago di cristallo, un pagliaio di vetri, un bambino all’ombra della tigre? Il Verbo tocca “giunture e midolla, discerne sentimenti e pensieri del cuore” (Eb 4, 12). Tutto è svelato – “non c’è creatura invisibile davanti a lui”, Eb 4, 13 – ma chi può accettare questo amore furibondo? Chi può accettare lo svelamento ultimo, nudità di neve?
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Il “tale”, che “aveva molte ricchezze”, si spaventa, “rattristato” davanti alle parole di Gesù: “vendi ciò che hai, dallo ai poveri, avrai un tesoro in cielo, e ora seguimi” (Mc 10, 21). Soltanto da poveri si può accedere a Dio – la povertà è lo stato essenziale. Il denaro metra i legami umani, ma di fronte allo smisurato, che cosa può? La cesura con il mondo è violenta, ma Gesù non demonizza il denaro, melma del demonio. Il denaro sia utile a chi abbiamo intorno, chi ci è dato. Bisogna spendere quello che abbiamo guadagnato per gli altri: altrimenti, saremo soltanto l’esito del nostro conto in banca, una didascalia sbiadita, inerte. “Tutto è nudo e scoperto ai suoi occhi” (Eb 4, 13), ma Dio chiede dall’uomo il denudamento definitivo: lasciare tutto, destinarci a lui.
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La povertà non è stato d’indigenza, è dato di fatto.
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Di fronte alla risposta, restiamo sconcertati: la vera ricchezza è la comodità, ed è quella che va sperperata, sparsa. Il percolo è accomodarsi, mentre bisogna scomodare i continenti, avventurarci.
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Gesù non dice, abbandona ciò che hai, ma vendi quello che hai. Nulla è perduto, ogni cosa deve dare una rendita, un fatto. Ogni cosa – anche l’ostacolo, l’odioso – deve essere amata. Ama ciò che ti rattrista.
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Si nasce con un nome, per disperderlo, per seminarlo – ci si salva perdendosi, perché sia un altro a darci un nome nuovo. “E chi può salvarsi?” (Mc 10, 26), sussurrano i discepoli di fronte alle parole radicali di Gesù. Il cristianesimo – finalmente – non propone scappatoie e vie di fuga: bisogna “lasciare casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo” (Mc 10, 29), per avere “cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi”, ma anche in “persecuzioni” (Mc 10, 30). Si vive con il costante desiderio di cambiare vita, finché uno – un amato – non ci scartavetri il viso, rifacendoci da capo. Si è perseguiti dall’amore.
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Non vogliamo forse l’estinzione della finzione, la morte delle maschere e qualcuno che, in pelle viva, abrasa, che grida, ci prenda?
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Qualcuno insegna ad amare, ma è importante imparare ad essere amati.
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In realtà, la liturgia è risposta. “Stimai un nulla la ricchezza al suo confronto…/ tutto l’oro al suo cospetto è sabbia/ fango di fronte a lei è l’argento” (Sap 7, 8-9). La sola sapienza è la povertà, l’unico sapere è spogliarsi, rivelando la nostra impotenza, di uomini nudi come un urlo, incapaci del bene.
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Si è guerreschi in questo: nella sfrontatezza a lasciare, lasciandosi in mano ad altri.
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Eppure, la sonora domanda è: come ha potuto il “tale” rifiutare l’amore di Gesù? Gesù si ferma su di lui – ogni volta, è un fermarsi definitivo, appropriato – e lo ama. E viene rifiutato. L’uomo è un rifiuto – e Dio viene rifiutato. (d.b.)