
“Dal tremendo abisso di chi sono”. Su una poesia di Fernando Pessoa
Poesia
Giorgio Anelli
Malgrado sia un amico, malgrado non sia nel mio stile adire le vie legali (preferisco incontri notturni in vicoli ciechi, o la vendetta attraverso la letteratura), tra poco mi troverò costretto a far causa al prossimo vincitore del Campiello.
Il mondo cattolico è da tempo in fermento, sapendo di questa mia amicizia intellettualmente pericolosa, e mi tiene d’occhio. Ora, negli ultimi cinque giorni, ho già ricevuto un paio di strane richieste intorno a un mio libro di tre lustri fa, che speravo nessuno avesse letto (a parte gli amici: ma vatti a fidare di loro…): si tratta di una traduzione e di un commento intorno alla Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro. Due fantomatici personaggi (un laureando in teologia e un eremita di Camaldoli) mi stanno chiedendo come poter recuperare il testo.
Finiranno per capire.
Temo anche che certi strani movimenti in questa settimana nella scuola salesiana in cui lavoro siano il preludio al mio licenziamento. I salesiani, non ci sarebbe da spiegarlo, nel mondo cattolico sono felicemente in periferia, ma ovviamente restano al di qua di determinati confini dottrinali.
Se dunque nei prossimi giorni il sito dovesse essere oscurato, indovinerete da soli i motivi. Io non avrò più modo di contattarvi.
Immagino che l’intervista al vincitore del prossimo Campiello che ho linkato all’inizio di questo articolo vi basti per capire quanto fondata e dovuta sia la mia scelta. Lo so, l’intervista in sé è anche bella. Personalmente, ha preso il posto dell’intervista immaginaria di Montale. Il problema, però, è che è proprio tutto vero – al contrario di quel che afferma nell’incipit, nel maldestro tentativo di disinnescare le reazioni estreme, come quella, appunto, che ormai mi trovo a dover mettere in atto io.
Chi ha conosciuto il prossimo Premio Campiello di persona, avrà ormai capito che strano, infido personaggio sia. Ti si avvicina con modestia e vivo interesse, ti sembra un buon interlocutore perché non c’è latitudine letteraria che lo colga impreparato, ascolta con pazienza. Ma, alla fine, con quel suo tono basso, umile, come di chi stesse semplicemente condividendo il pane in un ostello con un compagno di viaggio, ti infila in gola bocconi avvelenati. Dice sempre la verità, e questo ai nostri tempi proprio non va bene.
Che intervenga la giustizia ordinaria, allora.
Andrea Temporelli
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Contattato da ‘Pangea’ in merito all’articolo sopra riportato (pubblicato originariamente qui), ecco la precisazione da parte di Davide Brullo:
Ricordo il giorno, l’ora e l’anno in cui il mio sguardo si posò su quello studio, all’epoca manoscritto. Era il 2002, era settembre, erano le ore 17 e Andrea Temporelli, con il solito temperamento da livido intagliatore di quarzo, stava dissezionando le mie poesie. I versi pessimi erano la maggior parte. Lui li sgrossava, con fare da boia più che da padre. Due anni dopo avrei festeggiato la pubblicazione della mia prima raccolta di versi, ‘Annali’, accolta con garbato giubilo nella collana diretta da Marco Merlin all’interno delle Edizioni Atelier. Eravamo a Borgomanero, infelice borgo tra la metropoli e i laghi, a un passo dal pantano nichilista. Mentre Temporelli s’accaniva con pallida ferocia sulle mie prove liriche – invero infelici – sgranchii la frustrazione nella biblioteca antistante lo studio. Lì vidi ‘la cosa’. Temporelli stava lavorando a una “traduzione e commento” di una fatidica “Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro”, apocrifo fragrante e graffiante di cui non avevo notizia. All’epoca, studiavo letteratura cristiana antica e praticavo l’ebraico biblico. La testa vagava tra Gregorio di Nazianzo, Evagrio Pontico e Tertulliano. Nella biblioteca c’era una piccola fotocopiatrice. Preso da demonica illuminazione pigliai il manoscritto, fotocopiandolo alla cieca. “Ho trovato un libro interessantissimo di Gérard Genette, posso fotocopiare qualche pagina?”, urlai. Temporelli, preso a fare lo scalpo al mio furore estetico da Navaho della poesia, non mi rispose neppure. Quando disse che le mie poesie facevano schifo, risposi con un sorriso plateale. Lui non capì. Io avevo il mio tesoro ben incapsulato nella tasca del giaccone. Il giorno dopo, alle sette e mezza di mattina, ero al cospetto del mio prof, in Via Festa del Perdono. Mi fissò, con allucinata beatitudine. “Dove cazzo l’hai trovato?”, disse, lanciandosi con vigore nel gergo. “Col cazzo che te lo dico”, replicai. Mi disse che la “Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro” era citata da Sant’Agostino come testo ‘sacro’ dei Circoncellioni. Costoro, una setta donatista vissuta – e presto defunta – nel IV secolo, diffusa in Africa occidentale, davano al suicidio il valore di martirio ed eleggevano i suicidi a santi. Erano violenti. Quando prendevano parte a battaglie, ingaggiate contro i vescovi cattolici, erano soliti urlare ‘Deo laudes’. Il mio professore stava scrivendo uno studio sui Circoncellioni, poi effettivamente pubblicato nel 2006. I suoi occhi spiritati – e resi folli dall’eccesso di alcol – mi spaventarono. Fu allora che cominciai la stesura del romanzo pubblicato da Melville quest’anno. Prometto sugli dèi gnostici che il premio del Campiello sarà equamente spartito con Temporelli, la vera fonte del mio romanzo. (d.b.)