06 Luglio 2018

“Se vinci il Nobel arrivi al 6% dell’attenzione che ha una show girl in tivù: ma il poeta non è una valletta, giusto?”: dialogo con Daniel Samoilovich

Da tempo, di continuo – ho sfogliato una sua ‘bordata’ recente su La Rioja – Daniel Samoilovich urla, nel vuoto, l’evidente: la poesia sta perdendo spazio, la sua complessità, umana e sovrumana, è quasi un controsenso nell’era del ‘semplificato’, la poesia è, ormai, “un fuoco di resistenza contro la mediocrità dilagante”. Tra i grandi poeti argentini di oggi, classe 1949, Daniel Samoilovich è traduttore – da Eugenio Montale a W. H. Auden da Orazio a Ted Hughes e Shakespeare – e grande ‘agitatore poetico’. La carriera giornalistica è iniziata prima sul Clarín, poi su El País, in Spagna, poi collaborando con La Nacíon, infine, dal 1986, dirigendo il Diario de poesía, periodico importante per la nuova letteratura argentina. Tradotto in Inghilterra, Germania, Francia e Italia (Molestando i démoni, raccolta del 2009, è pubblicata da Fili d’Aquilone nel 2011), Samoilovich ha vissuto sulla pelle gli anni bui dell’Argentina: nel 1975 la Tripla A (che sta per Alleanza Anticomunista Argentina) sequestra il suo amico Daniel Luaces, con cui stava scrivendo un libro, che qualche ora dopo sarà trovato, cadavere, in piazza dell’Obelisco, nel cuore di Buenos Aires. Autore di una quindicina di libri poetici, radunati, nel 2016, in una antologia dal titolo Siete colinas de jade, Samoilovich adotta una poesia di sfrontata intelligente, ironica, audace e sagace, in faccia alla banalità del mondo presente.

Da dove nasce la tua lirica? Da dove prendi ispirazione?

A volte le poesie nascono dalla lettura, altre dalle esperienze, o meglio, dal ricordo di alcune esperienze. In certi momenti, c’è qualcosa che riaffiora dal passato, qualcosa di infimo, di inutile, ed invece mi tormenta…

Cosa ti piace leggere?

Mi definisco un “lettore onnivoro”. Poesia, matematica, storia… Fortunatamente leggo quasi sempre per diletto, poi mi concentro su un autore o un soggetto qualora me ne senta rapito. Di recente ho letto: Saul Bellow – tutto – sia i romanzi che i racconti brevi; Isaiah Berlin, il pensatore; Fabio Morabito, poeta e narratore; Wislawa Szymborska. Rileggo costantemente Kafka, Jarry e Apollinaire. Durante gli anni dispari leggo la prima parte del Don Chisciotte e negli anni pari – come il 2018 – leggo la seconda.

Qual è il tuo rapporto con la letteratura argentina e i suoi mostri sacri tipo Cortázar o Borges?

Ho amato Cortázar, amo Borges. Cortázar è stato una grande ispirazione da ragazzo… ora, non più.

La tua carriera giornalistica è stata formidabile. Che ruolo hanno le riviste all’interno della nuova letteratura argentina (parlandone con Liliana Heker, mi disse che sono fondamentali)? L’attività da giornalista ha in qualche modo influenzato la tua poesia?

Certamente, nella letteratura argentina – così come in molte altre – alcune riviste sono molto importanti come laboratori per la nuova scrittura e di critica letteraria, che tante volte viene pubblicata direttamente dagli autori, senza le restrizioni dettate dalle grandi case editrici e dalle rinomate istituzioni. Ovviamente, valutare l’impatto delle mie avventure nel mondo della stampa non spetta a me. Ciò che posso dire è che l’edizione di Diario de Poesía è stato un meraviglioso e fortunato viaggio per me in quanto poeta, la mia scrittura era circondata da un’aura di profondo ottimismo.

So sei un grande traduttore. Da Orazio a Shakespeare passando per Mansfield. Anche la traduzione ha una sua valenza per la tua poesia?

Metà dei miei testi li devo alla mia attività da traduttore… e forse pure l’altra. In alcuni momenti mi sembra di aver letto con attenzione solamente i testi che ho tradotto: la traduzione ti obbliga a pensare approfonditamente a ciò che stai leggendo.

Che ruolo ha la poesia in argentina? Ha una dignità per la politica, viene presa in considerazione dalla società civile?

Presa in considerazione? Se vinci il Nobel, forse riesci ad avere il 6% della considerazione che ha una show girl in tivù… Ma noi non abbiamo mai desiderato diventare una show girl, giusto?

(servizio di Davide Brullo, traduzione italiana di Giacomo Zamagni)

*

La chiamata

Quando la Morte mi ha telefonato
e mi ha detto che forse mi doveva portar via,

le ho detto grazie per la gentilezza. Mi risulta
che non con tutti è così riguardosa.

Ho sistemato in un angolo dello scaffale
i libri più preziosi, e ne ho fatto una lista

per esser certo che non me li svendano.
E poi mi son messo a pensare.

“Forse devo portarti via”. Formula poco chiara.
Ho alzato la cornetta di bachelite nera, l’indice

ha cercato il disco di numeri arabi,
ma prima di arrivarci, il gesto

si è bloccato. Non potevo chiamarla.
Non sapevo il suo numero.

Perciò ho parlato all’aria, era più o meno
la stessa cosa,

se voleva ascoltarmi avrebbe ascoltato,
e in ogni modo

io avevo bisogno di parlare.
“Non mi va di morire –ho detto,

tuttavia non ti serbo
un particolare rancore. Non mi è toccato

inginocchiarmi davanti a nessuno, ho amato, non ho quasi
patito fame e freddo e tu mi hai dato il tempo

di scrivere versi che se sono buoni non so,
ma che sono comunque i migliori

che mi siano riusciti.
Insomma, ti rispetto, ma non ti temo”.

Forse ero pazzo, forse non capivo,
forse mi aggrappavo all’opportunità

che mi lasciava l’imprecisione dell’avviso.
Eppure mi ha parlato, la Morte,

e ho ascoltato la sua voce, e non ho avuto paura.
*

Lago di Como

Qui Fabrizio del Dongo fu bambino
e sognò il suo inventore, Stendhal.

Lo fece figlio cadetto, imprudente
e valoroso, lo mandò a spasso per Waterloo

dove uccise un uomo e gli rubarono un cavallo.
Lo fece amato e amante, lo rinchiuse

e lo fece evadere dalla Torre Farnese.
Pur potendo, non lo fece felice

giacché la felicità non fa storia
e Stendhal voleva soprattutto

raccontare una storia. Si comporta con altrettanta frivolezza
qualche altro inventore con noi,

o chiascheduno con se stesso, cercando
di raccontarsi un racconto veramente émouvant,

divertente?

Daniel Samoilovich

(da Molestando i demoni, traduzione italiana di Francesco Tarquini, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma, 2011)

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