26 Giugno 2020

La grande guerra della cultura. Quando i libri erano pericolosi come bombe: da Orwell sui palloni volanti a Mary McCarthy e John Updike sul Vietnam

Nelle pagine iniziali di Cold Warriors. Writers Who Waged the Literary Cold War (Custon House, 2020), Duncan White scrive che “tra il febbraio e il maggio del 1955 un gruppo finanziato segretamente dalla CIA sganciò un’arma segreta in territorio comunista”: palloni che trasportavano copie della Fattoria degli animali di George Orwell. Questo era il titolo più noto delle “decine di milioni di libri, volantini, opuscoli, poster” che venivano trasportati da centinaia di migliaia di palloni metereologici. “In risposta”, continua White, “le autorità di Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, avvertirono i cittadini che il possesso di questo materiale era illegale – cercarono perfino di abbattere i palloni con aerei da combattimento”.

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Quasi settecento pagine dopo, White riassume i termini della questione. “La letteratura oggi non è più concepita come un mezzo per una guerra culturale: è difficile immaginare un romanzo che scateni crisi geopolitiche al modo del Dottor Zivago o di Arcipelago Gulag Le caratteristiche specifiche della Guerra Fredda non si ripeteranno mai e l’idea di una letteratura divulgata dai governi su larga scala non è più credibile”.

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I governi continuano a occuparsi di scrittori e di scrittura: la Cina limita gli spostamenti degli autori dissidenti, limita la pubblicazione di libri che criticano il governo, agisce con dispotismo nei confronti delle ambasciate straniere che denunciano questi fatti. Il Pen International documenta con costanza la situazione degli scrittori in carcere, oppressi, scomparsi sotto i regimi di tutto il mondo. Tuttavia, l’Occidente è silente. Difficile immaginare governi che si rivolgano agli scrittori, e scrivano, per supportare i conflitti contro altre nazioni, per non parlare di una versione contemporanea dei ponti aerei letterari con i palloni metereologici. Al contrario, il patriottismo nella cultura letteraria desta sospetto (John Updike ha passato decenni a giustificare le proprie opinioni sulla guerra in Vietnam). I passi più interessanti del libro di White, invece, descrivono proprio le attività pubbliche e clandestine di Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica (principalmente) nel creare una letteratura affine ai propri interessi nazionali e la volontà di schierarsi da parte degli scrittori.

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Prendiamo Richard Wright: allo stesso tempo sorvegliato dall’FBI dagli anni Cinquanta a causa delle sue simpatie comuniste e promosso dalla CIA a livello internazionale per dimostrare come gli scrittori fossero liberi di esprimere il dissenso nella democrazia americana. Poi c’è la storia di Howard Fast: dopo essere stato arrestato per non essersi presentato al cospetto della “Commissione per le attività antiamericane”, al principio dei ’50 si è autopubblicato Spartacus, il suo atto d’accusa al Maccartismo. L’adattamento cinematografico con Kirk Douglas ha fatto delle idee non allineate di questo scrittore un enorme successo commerciale. Nel frattempo, in Unione Sovietica, Boris Pasternak completava Il dottor Zivago e lo faceva uscire clandestinamente dal paese.

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Pasternak è una delle figure più impressionanti, benché tragiche, del libro. Ha scritto il suo romanzo consapevole di andare contro le direttive sovietiche ma ignorando l’uso che ne avrebbero fatto le potenze occidentali. La CIA, i servizi olandesi e il Vaticano cospirarono per provvedere a una edizione del libro da consegnare ai russi in visita all’Expo di Bruxelles del 1958. La CIA considerava quel titolo, insieme ad altri, utile come “propaganda strategica a lungo raggio”. Il dottor Zivago era utile proprio perché non era stato scritto come un romanzo di propaganda. Come scrive White, “Il protagonista, Zivago, dottore e poeta che rifiuta di impegnarsi in politica fu ritenuto ‘fondamentale’ dalla CIA”. Zivago, in sintesi, esprimeva una sfida all’idea che la politica fosse la prima e incontrastata esperienza in una vita umana. Il libro, per questo, si opponeva efficacemente al credo marxista e stalinista.

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Se la vita e l’opera di Pasternak sono l’esempio doloroso di uno scrittore coinvolto nella Guerra Fredda, gli sforzi di scrittori come Ernest Hemingway, Graham Greene e David Cornwell (il futuro John le Carré) – che in modo diverso cercarono di lavorare nell’intelligence o in ambito militare – suggeriscono una versione particolare dell’eroismo durante questa lotta per l’egemonia di una cultura. Essi lavorarono a supporto di diversi interessi nazionali, ma perseguendo fini personali, mescolando l’etica romantica al cinismo. Indipendentemente dalla loro politica, hanno affermato l’individualismo contro il collettivismo e il conformismo.

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In questo contesto, Mary McCarthy non ne viene fuori bene. La scrittrice, con consueta eleganza, diceva che i romanzieri avrebbero dovuto dare un contributo per la comprensione della guerra in Vietnam. “Quello che possiamo fare, meglio di altri uomini, è annusare un topo”. Tuttavia, mettendo in dubbio i resoconti degli ufficiali degli Stati Uniti, ha scelto di accettare passivamente la narrazione dei vietnamiti del Nord. Così, i suoi reportage, Vietnam (1967) e Hanoi (1968) sono stati criticati perché cadono nel peccato mortale che qualsiasi artista dovrebbe evitare: piegano la propria capacità di analisi, la propria intelligenza per scopi ideologici.

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White scrive in modo esagitato, spesso senza fiato. È comprensibile. Non è il solo ad ammirare un’epoca in cui gli scrittori erano coinvolti nella vita nazionale e nelle questioni geopolitiche. Oggi si presentano al pubblico perché hanno vinto un premio, fanno le loro battaglie via Twitter. Ma è l’immaginazione letteraria a ispirare atti di eroismo o di malvagità, non certo il vano specchio dei social.

Randy Boyagoda

*Il testo riproduce, in parte, l’articolo pubblicato su “First Things”, “Strategic long-term Propaganda”

**In copertina: Mary McCarthy (1912-1989), ha scritto due reportage sul Vietnam

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