06 Ottobre 2020

“L’affascinante abbandono a una fantasia priva di ogni credenza”. Sia lode ad Alberto Savinio, ma non fatelo parlare di politica, è di una ingenuità surreale

Mentre scrivo ho l’impressione che un gigantesco Alberto Savinio, col volto di maschera fenicia o il becco adunco di papero, possa spuntare da un momento all’altro dalla mia finestra, così come si sporgono inquietanti le figure dei suoi dipinti. Perché sento di compiere una profanazione in quel che sto per fare; sto per mettermi a sbraitare contro di lui, ad accusarlo, a fargli una colpa di questo e di quello. E mi dispiace tanto.

Savinio è tra i migliori scrittori del Novecento, Tragedia dell’infanzia è tra i libri che prediligo. Meglio di chiunque altro ha incarnato lo spirito dell’artista a 360 gradi, l’artista che sperimenta sempre, con qualsiasi mezzo. Ma c’è una parte di Savinio che mi ha deluso, ed è il Savinio “politico”, che vorrei tener separato da tutto il resto.

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La nota stonata mi è capitata fra le mani in una libreria di Ferrara e si intitola Sorte dell’Europa, un piccolo Adelphi che raccoglie scritti di carattere politico datati 1944. Questi brani hanno suscitato in me una serie di sensazioni contrapposte e fin da subito ho provato a giustificarle con quella data terribile: 1944. Non deve essere semplice scrivere con camionette stipate di nazisti che corrono per le strade del tuo paese. Eppure è come se da Savinio mi aspettassi qualcosa di più, quel passettino in avanti che me lo ha fatto amare tra i tanti.

All’indomani della conclusione del conflitto, Savinio di interroga sul futuro dell’Europa, e mi pare fin troppo naturale. Quel che più lo preoccupa è la mancanza di pensiero e di giudizio: «Mi fa paura l’inerzia dello strumento pensante e giudicante, e il numero spaventosamente grande degli uomini che non pensano né giudicano con la propria testa».

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E come dargli torto? La massa travolge ed è in balia del proprio umore, oltre che delle influenze della propaganda, nei regimi totalitari come in quelli democratici. E ha ragione quando afferma che il “pensiero dogmatico”, il credo unico, è la rovina del nostro popolo. Quel che Savinio auspica è che gli italiani vengano educati a pensare con le proprie teste. Ma dietro questa presunta educazione si nascondono una montagna di problemi. La formazione di un popolo è un tassello troppo ghiotto per lasciarlo nelle mani del caso, e oggi, nel 2020, sempre più si sente denunciare la presenza di una intellighenzia troppo schierata, al punto da estromettere alcuni pensatori non assimilabili, autori che non concedono libere interpretazioni. Un altro punto in cui Savinio mi appare fragile, è quando afferma che si dovrebbe «addestrare l’uomo a determinare da sé quello che è bene e quello che è male, quello che è lecito e quello che è illecito, quello che è bello e quello che è brutto». Ma secondo quale metro, secondo quale principio gli uomini dovrebbero basare questi giudizi? Come può l’uomo bastare a sé stesso? A leggere Savinio si direbbe che egli abbia una limitatissima cognizione della religione cristiana, accusata di oscurantismo come fossimo in un talkshow o in un dibattito fra liceali. Si ha l’impressione che questo “uomo nuovo” di Savinio debba basare le proprie idee su ideali di fratellanza e comunione, senza però accettare che tali principi derivino proprio dal cristianesimo. È sciocco oggi come allora negare le radici giudaico-cristiane dell’Europa; è controproducente, è una perdita di tempo. Savinio si serve talvolta della stessa retorica contro cui si scaglia con tanta violenza, quando rimprovera ai cattolici un certo egoismo o quando riduce il cattolicesimo ad un “monopensiero”.

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È logico che a Savinio certi concetti come “nazione” stiano stretti, lui che non ha una patria vera e propria e ha sperimentato i migliori frutti di una Europa aperta come lo era nei primi anni del Novecento. Savinio vorrebbe che le nazioni recuperassero quello spirito espansivo che hanno perduto, ma davvero le nazioni hanno avuto in passato un siffatto spirito? La natura fragile di entità come la Società delle Nazioni non si è persa nel tempo, e se ancora oggi l’Unione Europea scricchiola lo dobbiamo al fatto che questa presunta “idea” che tanto promuove Savinio è fumosa, astratta, indefinibile. Mi è difficile credere che una simile unione sarà salda e autentica, se l’idea che la presuppone non riuscirà prima a valicare i soli interessi economici, o fintanto che ci si affiderà ad un’idea che non trascende l’uomo.

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Alla tanto criticata mentalità tolemaica, Savinio propone sé stesso. Perché dietro alla tanto invocata Idea non c’è altri che Savinio. Forse è questo il suo più grave difetto: ergersi a metro di misura per tutti i popoli europei, farsi modello per il cittadino europeo. Sperare che un giorno l’Europa possa essere popolata da tanti Alberto Savinio è un’idea assurda e balorda. Un’umanità che ama «l’amara dolcedine del romantico sentire, le sue deludenti illusioni, le seduzioni del dubbio, l’affascinante abbandono a una fantasia priva di ogni credenza, di ogni razionalismo di ogni attesa di compenso, di ogni finalità». Ma un popolo del genere che futuro può avere? Siamo di fronte all’utopia più spicciola. Savinio vorrebbe generare una nuova civiltà, «prepararla per mezzo di un complesso di cognizioni spiritualmente coordinate». Se escludiamo le radici giudaico-cristiane, quali dovrebbero essere queste cognizioni spirituali? Secondo Savinio troveremo tali cognizioni nel liberalismo, e ne La sorte dell’Europa troviamo un elogio sperticato, quasi fanatico del liberalismo: «liberalismo è un cristianesimo laico e più mansueto, meno acceso, meno patetico, meno spasimante, ma più fattivo pure, più utile e, sostanzialmente, più umano, più terrestre – più civile». Una «fraternità pulita». Va bene, è il 1944, ma viene da chiedersi quale cecità avesse colpito Savinio, incapace di scorgere i grossi limiti che il liberalismo aveva già mostrato sul finire dell’Ottocento, primo fra tutti l’allargarsi del mercato fino ad occupare gli spazi più inviolabili della società.

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Savinio si perde poi in altre banalità, come «l’autorità odia l’intelligenza». Nel libro ci sono però anche alcune intuizioni interessanti, come la seguente: «se una causa ispirata da un poeta o da un artista dà cattivi effetti, non è molte volte perché quella causa è cattiva in sé, ma perché è stata interpretata da chi non è né poeta né artista». Questa affermazione, scritta nel ’44, oggi nel 2020 andrebbe impressa a fuoco sulla carne di molti intellettuali che ancora sprecano tempo e inchiostro nel tentativo di rintracciare precursori o ispiratori di questa o quella dittatura. Una seconda affermazione da salvare e su cui riflettere è: «Il verismo è il peggior nemico della letteratura. […] la letteratura non guarda al presente con l’occhio del presente. La letteratura conosce quello che il presente ignora. La letteratura dice quello che il presente tace. […] La letteratura è la Speranza Scritta. Perché tanta dignità, perché tanta altezza nella letteratura, se la letteratura non avesse il fine di sollevare l’uomo dalla sua miseria, ossia dal suo presente?».

Questo dimostra che quando Savinio parla di letteratura non è solo interessante e originale, ma è capace davvero di suscitare qualcosa nel lettore, di stimolare una riflessione, mentre il Savinio “politico” è banale, noioso, e per certe ingenuità perfino imbarazzante.

Valerio Ragazzini

*In copertina: Alberto Savinio, “La battaglia dei centauri”, 1930, particolare

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