16 Luglio 2020

“Così divenni un sognatore… ero ansioso, appassionato, senza ordine”. Le lettere di Coleridge, il romanzo del Romanticismo inglese

C’è un equivoco con la generazione romantica. Intanto, manca una semantica comune a livello europeo inizio Ottocento: Novalis è un barone tedesco che vuole fare della vita un romanzo “che noi stessi scriviamo” e non si offre per un paragone con gli inglesi Wordsworth & Coleridge i quali partono in tromba e a 30 anni sono risucchiati dall’oppio.

In seconda battuta, dentro la parola ‘romantico’ cavata dal frasario della dottrina di Schiller & Schelling l’idea portante è costruire un romanzo, Roman in tedesco, e non una poesia. Il movimento die Romantik – al femminile –  è una corrente che i tedeschi fondano sul primo romanzo di sempre, il Chisciotte: lì dentro vanno a trovare un lato umoristico che forse a noi è sfuggito.

Perciò romantici per fare romanzi, non poesie. Chi compone poesia è il movimento Tempesta e Impeto, Sturm und Drang che però precede di un ventennio il movimento romantico. Quella era poesia, tutto sommato, da Antico regime anni Settanta. Quando poi si tratta di puntare tutto su Napoleone, fioriscono i romanzi. Ma questo vale per la Germania, l’Inghilterra fa storia a sé ed è in questo momento che comincia il suo lungo isolamento che la condurrà a produrre i suoi romanzi autoreferenziali fino a sbattere nel vicolo cieco dei Vittoriani.

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Tirando le somme, nella poesia romantica hai uno sfogo, non senti la premura di ritrovare il dettaglio che invece è l’obiettivo del romanzo. Quindi se cerchi un romanzo dei poeti romantici devi andare a trovarlo nelle loro lettere. Ed è una ricerca gratificante. Quando scorri il carteggio di Samuel Coleridge (1772-1834) giovane trovi tante piccole verità: la morte del padre, i fantasmi inventati come in un racconto arabo, il gatto comprato per spaventare la fidanzatina. Come una letteratura autonoma che afferra i dettagli, vi avvicina sopra la lente e – tocco finale – riesce a mettere in ridicolo tutte le pretese universalizzanti che la poesia ha il vizietto di trarre dai dettagli intestinali. A volte, leggendo Coleridge privato, si ha la sensazione che tutti i volti e i luoghi presi dal suo sguardo cinematografico siano così troppo inglesi da sembrarci assurdi. E forse questa è la più bella “universalizzazione” delle sue scritture su fatti minimi.

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Quanto a Samuel Coleridge, basta dire che perse il padre a nove anni e quindi i criticoni hanno sostenuto la teoria del carro attrezzi. Coleridge, a sentir loro, avrebbe covato a lungo il suo senso di colpa, fino ai suoi 23 anni, fino alla Ballata del vecchio marinaio, quando l’orfano tragico si è rappreso in versi. Può anche essere. Queste lettere possono rivelarsi una cura interessante per chi i genitori non li ha conosciuti o per chi, come Coleridge, non li ha avuti abbastanza. (E certamente la cura funzione anche per chi non ne può più dei suoi maggiori)

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Vi metto in guardia. È letteratura eroica. Quando Coleridge fu chiamato alle armi a 22 anni chiuse la lettera di convocazione del comandante, il parente James Coleridge di stanza a Tiverton, scusandosi del ritardo: Sono un cavaliere assai indocile (a very indocile equestrian).

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W. B. Yeats, che del padre artista John ne ebbe abbastanza impiegando del tempo a uscire dalla sua ombra, aveva i numeri per capire i romantici. C’è questa lettera al padre (a 40 anni!) dove gli esprime il suo punto di vista sulla situazione. Parla di Wordsworth ma vale pari pari per Coleridge: “Nei suoi poemi della maturità Wordsworth mi colpisce perché è come se stia sempre a distruggere la sua esperienza poetica, che era chiaramente di valore incomparabile, per mezzo del suo potere riflessivo. Il suo intelletto era però tutto un luogo comune, e sfortunatamente gli era stato insegnato a rispettare quello e basta. Riteneva che la sua esperienza poetica non fosse come la vediamo noi, ‘incomparabile’, considerandola bensì come un meccanismo che potesse esser imbrigliato dal suo intelletto. È tutto ripieno di utilitarismo e di qui capisci perché mai per tutto il resto della vita è come se sia sempre volto all’indietro come verso una visione perduta, una felicità perduta”. Coleridge ci manda ancora i suoi segnali, è un richiamo spinto alla vita dove senti che la prima maturità, tra i 21 e i 25, è un luogo iperletterario. Non c’è chiarezza, tutto è indistinto e la meraviglia ti scorta passo passo.

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Wordsworth rimase orfano di madre a 8 anni e Coleridge di padre alla stessa età. Poi presero strade diverse: il primo andò verso le rivendicazioni operaie, il secondo si mosse in direzione platonica servendosi di oppiacei. Questi erano i romantici inglesi. Da ragazzi avevano gettato le loro fondamenta. (Andrea Bianchi)

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A Thomas Poole
9 ottobre, 1797

Mio caro Poole,

Siccome da bimbetto dopo colazione mio padre mi dava un mezzo centesimo per comprarmi un tortino per la cena e mio fratello non l’aveva mai, la bambinaia prese a guardarmi con antipatia. Io comunque il sabato e la domenica mi concedevo il mio bacon e fagioli. Ma incominciai a diventare ansiosamente triste e timoroso, e per giunta un contatore di storie; e i ragazzi a scuola si allontanavano da me e mi tormentavano sempre e non ebbi grandi gioie dai giochi di cortile, però leggevo senza sosta. La sorella di mio padre aveva un negozio di cianfrusaglie a Crediton e lì lessi tutti quei piccoli libri a copertina dorata che erano disponibili e allo stesso modo tutti i libri che la copertina non l’avevano più: Tom Hickathrift, Jack il grande assassino, etc., etc., etc., etc. E avevo l’abitudine di appoggiarmi al muro e buttarmi giù sinché i miei spiriti se ne andavano verso l’alto e me ne correvo fuori verso lo spiazzo della chiesa mettendo in scena tutto quel che avevo letto, arrivavo fino ai pontili, ai campi d’ortiche (pungenti e non). A sei anni avevo letto Belisarius, Robinson Cruusoe e Philip Quarles e poi scoprii Le Mille e una notte, in particolare un racconto (l’uomo che fu indotto a cercare la vergine pura) mi fece un’impressione così profonda (lo lessi mentre mi madre stava riparando i suoi calzini) che fui perseguitato dagli spettri ogni volta che mi trovavo al buio (…) A questo punto mio padre studiò gli effetti della lettura su di me e bruciò i libri. Così divenni un sognatore e presi un’indisposizione per le attività fisiche; ero ansioso, appassionato ma senza ordine e siccome sapevo leggere e scandire le parole e avevo una memoria e una comprensione incanalate a forza in una maturità del tutto innaturale, ero adulato (e me ne meravigliavo) dalle donne di una certa età. Prima degli otto anni ero un carattere (…) nella prossima ti dirò della morte di mio padre. Dio ti benedica, mio caro Poole, benedica te e il tuo affezionato.

S.T. Coleridge

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A Thomas Poole
16 ottobre 1797

Caro Poole,

(…) Mio padre (che aveva così poca ambizione di genitore dentro di sé da destinare i suoi bambini alla vita da fabbro etc., e non ci riuscì per l’orgoglio di mia madre e per il suo spirito di ingrandire la famiglia) – mio padre si era insomma risolto che io diventassi parroco. Leggevo ogni libro che mi capitasse a tiro senza distinzione e lui mi metteva sulle sue ginocchia per fare insieme lunghi discorsi. Ricordo che a otto anni andammo insieme a un miglio dall’ultima casa di contadino a Ottery e lui mi diceva i nomi delle stelle e come Giove era migliaia di volte più grande del nostro mondo e che le altre stelle splendenti erano soli con mondi che giravano loro intorno; tornati a casa, mi mostrò come giravano intorno. Lo ascoltavo con profonda delizia e ammirazione ma senza la minima meraviglia o incredulità. La mia mente era abituata al Vasto, alle letture delle favole e dei geni della lampada etc. e non trattavo mai i miei sensi, in alcun modo, come criteri per credere. (…)

Dopo un viaggio a Plymouth tornò a casa e ci disse che quando aveva dormito fuori aveva fatto un incubo dove la Morte gli appariva come di solito la raffiguriamo e l’aveva toccato col suo dardo. (…) A casa andò a letto e si lamentò dell’intestino. Mia madre gli portò dell’acqua con della menta pepata e lui dopo una pausa disse “sto molto meglio, cara” e si coricò di nuovo. Dopo un minuto mia madre sentì qualcosa venire dalla sua gola e gli parlò ma lui non rispose. Gli si rivolse invano. Il suo singhiozzo mi risvegliò e io dissi “papà è morto”. Non sapevo che lui fosse tornato a casa ma mi aspettavo una qualche bugia al riguardo. Come venissi a pensare della sua morte non saprei dire; ma andò così. Era morto. Forse per apoplessia. Era un Israelita ma senza acume, semplice, generoso, prendeva qualche passo delle Scritture nel suo senso letterale ed era sempre indifferente al bene e al male di questo mondo. Dio ami te e il tuo

S.T. Coleridge

*Thomas Poole (1766-1837) fu filantropo e sostenitore di Wordsworth & Coleridge.

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A Mary Evans
13 febbraio alle undici di notte

(…) I migliori giudici continuano a dire (e sbagliano anche i migliori) che mi sono fatto assai caruccio ultimamente. Tu prega che io sia aggraziato ma senza esser vanesio. Dopo aver letto Pamela e gli altri romanzi come si fa a non sentire che trappola pericolosa sia la bellezza? La bellezza è come l’erba che cresce al mattino ed è bella che contratta prima di notte. Mary! Non esser vanesia per la tua bellezza!!!

Ho una gatta. Nella strana raccolta di animali di cui mi circondo, penso sia necessario averne qualcuno che sia quieto e di bell’aspetto e che tenga vivo il mio senso sociale. La mia micia, come il suo signore, è un bruto assai gentile e mi comporto col massimo riguardo nei suoi confronti. E davvero il gatto è un animale che val la pena avere. Sinora avevo conosciuto gatti assai maliziosi ma erano comunque belli vecchi – e comunque le loro zampe non sono come le tue mia cara gatterella. Mi auguro che tu perda prima o poi quella pessima abitudine di star attacca al caminetto. Non fa troppo freddo ora.

NB Se mai ti sentissi voglia di passare a visitarmi a Cambridge, ti prego di non considerare di impedimento la mia micia. La terrò con una catenella mentre sei qui.

S.T.C.

*Mary Evans (1770-1843) fu il primo accendino estetico di Coleridge. La donna riuscì a salvarlo in due circostanze: la prima volta sposando un ignoto e non lui; la seconda, trattenendolo dalla follia di emigrare nelle foreste della Pennsylvania.

**traduzione di Andrea Bianchi da Samuel Coleridge, Letters in two volumes, Houghton, Mifflin & Company, Boston 1895; in copertina: Coleridge in un ritratto di Peter Vandyke del 1795 alla National Portrait Gallery

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